Parthenope: l’accidental baroque di Sorrentino

Parthenope
Sorrentino in “Parthenope” rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. – Voto UVM: 5/5

Dopo la prima in concorso al Festival di Cannes è nei nostri cinema dallo scorso 24 ottobre il nuovo film di Paolo Sorrentino con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Isabella Ferrari, Luisa Ranieri e Gary Oldman.

Parthenope: Sinossi

La bella Parthenope (Celeste Dalla Porta, da adulta con il volto di Stefania Sandrelli), ragazza partorita in mare, è così attraente da conquistare ogni uomo e donna e vive la gioventù in equilibrio tra una dimensione onirica e una realtà dolorosa. Dal 1950 al 2023, passando per il 1974 e il 1982, seguiamo un’epica del femminile senza eroismi, la cronaca del viaggio che è la vita.

Il “viaggio da fermo” di Paolo Sorrentino

Dice il regista: “a Napoli, dove puoi viaggiare stando fermo. Mi sembrava bellissimo questo meccanismo di identificazione fra una donna e la città stessa. ”

«È impossibile essere felici nella città più bella del mondo…».

Parthenope è il suo alter-ego e il riflesso di una Napoli ipnotica quanto problematica. C’è poi un cambio di scenario, che rappresenta l’età adulta della disillusione con i sobborghi della malavita: un presepe di povera gente allo sbando.

In questo film Sorrentino rappresenta mille sfaccettature, tipologie umane e maschere, in una ricerca quasi antropologica. E parallelamente c’è la storia di Napoli: il colera, il Sessantotto, lo scudetto.

I tanti volti dell’amore di Sorrentino

Parthenope vive la vita rincorrendo la poesia, la libertà della gioventù. “Non so niente ma mi piace tutto”, frase che spiazza e che tradisce, nella sua ingenuità, un’incredibile intelligenza.

Non si lega mai a nessuno, ma tra tutti quelli che la vogliono, la vediamo innamorarsi dell’intelletto e della profondità di tre soli uomini, gli unici a cui, tra l’altro, non si è mai concessa: il fratello Raimondo, il suo mentore e padre putativo, professore Marotta, e lo scrittore John Cheever.

Quest’ultimo, diventa un anello di congiunzione fondamentale tra il male di vivere suo e di Raimondo. “Raimondo vede tutto”, ha una sensibilità fuori dal comune e un’interiorità delicata quanto ingombrante. “Quando sai tutto muori triste e solo, hai conoscenze con l’indicibile”. Lo scrittore e il giovane sono dunque totalmente speculari.

Tra questi due estremi dell’emozione umana, troviamo Marotta, che esprime l’età adulta, la tranquillità in cui si comincia a “vedere”: non si è più tanto impegnati a vivere soltanto, e ci si può permettere il lusso di stare a guardare.

Parthenope
Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

La “grande bellezza” di Parthenope

La bellezza è come la guerra: apre le porte”, Cheever delinea la figura di una Parthenope talmente dirompente da sembrare sovrumana e misteriosa.

Il silenzio nei belli è mistero, nei brutti un fallimento”, dice ancora l’autore americano, prevedendo la complessa relazione che collega Parthenope al mondo: la sua carica erotica è anche l’ unica cosa che gli altri riescono a vedere, “le donne belle vengono sempre offese”, perché quando non si concede, viene sminuita. Nessuno sa interpretare i suoi silenzi: “a cosa stai pensando?” è la domanda più frequente, che si ripete in modo quasi assillante per tutto il film, e lei non risponde mai.

Libertà significa Solitudine: il complesso di Parthenope

Le sue scelte “distratte” di libertà, finiscono per farle terra bruciata intorno lasciandola invecchiare da sola: si fa specchio delle dive decadute che ha incontrato nel suo percorso: Flora Malva (Isabella Ferrari), e Greta Cool (Luisa Ranieri), che rappresentano l’inganno dell’apparenza, di chi non vive lo scorrere del tempo e resta bloccato nel proprio passato, rinnegando il mondo che cambia attorno a sé.

La collaborazione di Sorrentino con Saint Laurent per Parthenope

Il costumista del film ha lavorato con Anthony Vaccarello, attuale Direttore creativo di Saint Laurent, qui coinvolto in veste di Costume Artistic Director e produttore, di pari passo con quello del direttore della fotografia e dello scenografo.

“Non sono stati usati capi di repertorio di Saint Laurent: è stato realizzato tutto ex novo. Mi piace dare un colore a un personaggio per caratterizzarlo. Per Parthenope partiamo da colori forti quando è giovane. Nel finale, vanno a scemare, diventando sempre più pallidi.” – Anthony Vaccarello

Questa collaborazione è un chiaro esempio di come il cinema possa collaborare con la moda, forte del suo carattere evocativo, per raccontare una storia.

Frame di “Parthenope”. Regia: Paolo Sorrentino. Distribuzione: Piper Film.

Il gioiello cinematografico di Sorrentino

Questo film propone più volte campi lunghi in cui da Napoli passa su una Parthenope piangente che ci guarda e comincia a ridere mentre i suoni intorno a lei, da ovattati, si fanno sempre più chiari. Alcune volte la camera si sostituisce ai suoi occhi. Altre volte invece, c’è una rottura della quarta parete. In coda alla pellicola, Parthenope ci dice:

«A cosa stavo pensando? L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento… forse non è così».

Tutta l’estetica del film è volta al bello, all’eccessivo, all’immaginifico. Sorrentino offre molti momenti d’alta cinematografia, come un quadro dal gusto “accidental baroque”: la ragazza in lacrime con i rivoluzionari alla ribalta alle sue spalle.

Colonna Sonora di “Parthenope”

Il film intreccia lingua italiana e inglese: gira il mondo senza muoversi da Napoli, attraverso la musica folk spagnola e la disco portoghese, approda in America con Frank Sinatra, e finisce col cantautorato di Gino Paoli e Cocciante. Centrale, di quest’ultimo, il brano Era già tutto previsto, che racchiude in sé il messaggio della pellicola: era già tutto previsto, bellezza da una parte e dolore dall’altra.

 

di Carla Fiorentino

Clementino ritorna indossando la più famosa maschera napoletana

Clementino ritorna in grande stile, ma con il costume di un “pulcinella nero”– Voto UVM: 5/5

 

Napoli è quella terra dove le maschere popolano il territorio: basta girare ogni angolo per vedere  “volti” creati secoli fa. Troviamo Zeza, Don Nicola, Tartaglia e tanti altri che hanno fatto conoscere la terra “bianca e azzurra”, da tutti noi ammirata nei film di Sorrentino, nella bravura di attori come Totò, Massimo Troisi e Tony Servillo, nel mito di Maradona, che hanno reso Napoli una delle mete più belle e amate al mondo.

Proprio pochi giorni fa è ritornato sulle scene Clementino, ma con un altro volto: quello di Pulcinella, la maschera più amata nella storia del teatro. Dopo averci lasciato tre anni fa con Tarantelle, il 29 aprile il rapper ha pubblicato un nuovo album: Black Pulcinella.

Black Pulcinella( 2022)

“Contro i cantanti ca nun sann chell c’hann scritt
Copia incolla da motivazione.it
Indosserò una maschera non sai cosa c’è dietro” (Black Pulcinella)

La iena ritorna vestita di nero (qualcuno dice che sia il lato oscuro del rapper di Avellino, ma non è così). Ascoltando le nuove canzoni, possiamo ancora sentire e “osservare” la simpatia di Clementino, quella che ci ha fatto innamorare e apprezzare ancor di più la sua arte. La tracklist è composta da quindici brani, in cui Clementino non è solo: ad accompagnarlo ci sono tanti artisti come Rocco Hunt, Geolier, Nerone, che già in passato avevano lavorato con lui.

Il dialetto napoletano si mischia con il rap, le basi musicali sono accattivanti, le sinfonie ci trascinano e ci catapultano nel magico mondo dell’incoerenza. Il rapper, da perfetto sagittario, punta la sua freccia e la scaglia verso il finto perbenismo, che ormai la nostra società è costretta a subire ogni giorno. Ma in fondo – lo sappiamo – il nostro Cleme non ha peli sulla lingua.

E’ lui stesso a spiegarci che il suo nuovo lavoro si rifà al proprio modo di vivere la musica: già in passato si definiva un “black pulcinella”, per via della musica afroamericana che ha influenzato lo stile del cantante, facendolo divenire un “Pulcinella travestito di nero”.

 “In passato quando mi chiedevano «ma tu che genere fai?», spesso rispondevo «il Black Pulcinella» “

La musica – come la poesia, la scrittura e gli stessi simboli – esiste per esprimere a volte ciò che non si può dire nel linguaggio parlato. Anche Pulcinella è un simbolo: rappresenta Napoli, è il personaggio che si dice sia nato dentro il Vesuvio, altro elemento iconico della città.  Pulcinella è un mito, al pubblico regala solo sorrisi, ma la sua maschera nasconde quella malinconia di chi ha passato tanti guai durante la sua vita – così ha dichiarato anche il nostro artista.

Maschera di Pulcinella. © Alessia Orsa

Per questo l’album  è “the dark side of Ienawhite”, il lato “nero” di Clementino,  che ci mostra come tutti i mali sociali possano condizionare l’essere umano. Ci fa percepire anche il suo lato più fragile, ci fa entrare dentro la sua anima, mostrandone le insicurezze e le paure. Quindi Clementino ha un lato “dark”, da non confondersi col buio, col male che caratterizza i personaggi solitari alla Joker. Qui il pulcinella nero non è solo, ma accompagnato da altri rapper in feat. che rendono l’album “puro” e la purezza non ha niente a che vedere con l’oscurità.

“Iamm sott acqua Bombap tu nun respir compà
Ngop a nu palc bombard e po’ m circ pietà
Miettm nterr e contant” ( The dark side of Iena White)

Il rapper Clemente Maccaro, in arte “Clementino”. Fonte: flickr.com

 

L’ultimo capolavoro di Clementino non delude i suoi vecchi fan: il rapper non si è lasciato trascinare dallo stile commerciale che rende tutto finto e iper-velocizzato e che ormai siamo costretti a sorbire ogni giorno. Il Pulcinella Nero rimane fedele a sé stesso, regalandoci un’opera emozionale.

Alessia Orsa

 

 

Qui rido io: l’esistenza come teatro


Martone dipinge magistralmente “miserie e nobiltà” di uno dei più grandi autori teatrali di sempre. Voto UVM: 4/5

 

Che la vita è un teatro è  massima proclamata dalle penne di poeti come William Shakespeare, dalle bocche di saggi di ogni tempo e luogo, ma anche verità sottintesa nei detti dei comuni mortali, incisa nel DNA di ciascuno di noi perché – come diceva Marlon Brando– ogni uomo in fondo è attore. Poi a seconda di gusti e inclinazioni personali, c’è chi intende l’esistenza come un’immane tragedia, chi come un dramma dell’assurdo senza capo né coda e altri ancora come una commedia o ancor meglio un’esilarante farsa in cui gli sforzi dell’attore sono ripagati dalla ricompensa più preziosa del suo pubblico: la risata.

Affamato dell’amore del pubblico e incapace di dividere farsa e vita vera era Eduardo Scarpetta, nome non nuovo per tanti cresciuti a pane, Miseria e nobiltà, nel mito di quel Felice Sciosciammocca con la pasta int’a sacca immortalato dal genio di Totò nella trasposizione cinematografica del ’54.  Affamato di vita e di teatro – come lo era la sua macchietta Sciosciammocca di pane – è soprattutto lo Scarpetta dipinto da Mario Martone in Qui rido io, film presentato alla 78esima Mostra di Venezia, con un magistrale Toni Servillo.

 Show must og on

Siamo agli inizi del Novecento, Eduardo Scarpetta (Toni Servillo) è l’attore e commediografo più famoso di Napoli, una personalità imponente e arrogante, un vero e proprio divo ante litteram acclamato dal pubblico e chiacchierato da tutti, prima ancora dell’avvento di Hollywood e Cinecittà.   Ma Scarpetta è prima di tutto padre, un padre sui generis: padre affezionato di Sciosciammocca, macchietta comica che soppianta a fine Ottocento la maschera di Pulcinella, padre prolifico di celebri commedie (Miseria e nobiltà, O miedeco d’e pazze, Nu turco napulitano, Na Santarella) così come di una famiglia difficile e ingarbugliata stile tribù da patriarca biblico, un’intera dinastia di talenti che incarneranno la teatralità napoletana.

Eduardo Scarpetta, discendente reale del noto Scarpetta, impersona Vincenzo, figlio legittimo del commediografo. Accanto Alessandro Manna nei panni di un piccolo Eduardo De Filippo. Fonte. amica.it

Tra tutti i De Filippo (Titina, Eduardo, Peppino), concepiti con Luisa, nipote della moglie, che non ereditano il cognome, ma sicuramente l’amore per il teatro, trasmesso quasi come un mestiere artigianale di padre in figlio, come quel Peppiniello che tutti i piccoli della famiglia – figli illegittimi compresi – a turno impersoneranno in una sorta di rito di iniziazione sancito da quel «Vincenzo m’è patre a me!». Proprio in quella battuta è condensato l’intreccio tra vita e teatro che è il focus dell’opera di Martone; nelle luci calde della fotografia di Renato Berta i due palchi – quello dell’esistenza e della commedia- si confondono : quello del povero scrivano Sciosciammocca che si finge Principe di Casador e quello del padre padrone Scarpetta che si fa chiamare zio dai piccoli De Filippo; le quinte dietro cui si nasconde all’incipit lo sguardo attento del piccolo Edoardo e la sua condizione di figlio nascosto del genio.

Toni Servillo e il bravissimo Alessandro Manna in una delle scene più toccanti del film. Fonte: madmass.it

Inizia nel teatro, nel mezzo di quella Miseria e nobiltà che è l’apoteosi di Scarpetta- e finisce sempre nel teatro inconsueto del tribunale, Qui rido io: il perno è quel palco da cui Eduardo Scarpetta non vuole proprio saperne di scendere, di rinunciare a ridere e a far ridere.

Martone scosta il sipario e inquadra solo un piccolo scorcio della vita del commediografo: il periodo difficile del contenzioso con D’Annunzio per aver parodiato il dramma La figlia di Iorio, l’avvento dei cabaret e del cinematografo che sembrano soppiantare la commedia napoletana. Certo si poteva raccontare molto di più per arricchire la trama: nella biografia di Scarpetta e della sua tribù si poteva persino pescare a piene mani per un’avvincente saga familiare (e magari qualcuno lo farà in futuro). Non era questo tuttavia l’intento di regista e sceneggiatori che hanno preferito puntare i riflettori sul teatro che è vita e sulla vita che è teatro, sul rapporto più palpabile e difficile attore teatrale/pubblico, così come padre/figlio, sullo spettacolo che continua mai uguale a sé stesso e va avanti nonostante tutto, nonostante “u scuornu” che una famiglia di teatranti come quella di Scarpetta non sa cos’è.

Felice Sciosciammocca diletta il suo pubblico. Fonte: labiennale.org

Giullare nato

«Volevo essere il re delle feste» afferma un Servillo da dolce vita ne La grande bellezza. Edonista nato, ma decisamente meno malinconico è anche l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io, incapace di prendere sul serio persino un processo, farsesco e arrogante, prepotente persino coi suoi figli , non meno diverso per certi aspetti dal Berlusconi mondano di Loro. Insomma Servillo si rivela ancora una volta adatto a vestire i panni di personalità eccentriche e discutibili, ma c’è qualcosa in questo Scarpetta che ce lo fa amare – nonostante tutto- più degli altri personaggi ed è quella napoletanità che ha nel sangue e in questo film può far sprizzare da tutti i pori. Mentre parla con una cadenza partenopea pronunciata, mentre gesticola anche fuori dal palco, Servillo si sente a casa e si vede!

Scarpetta e Servillo a confronto. Fonte: notizie.it

Un film per tutti?

Bisogna essere amanti di Napoli, del suo teatro, dei suoi colori e della sua storia, della sua musica che suona anche nel dialetto, per apprezzare davvero il film di Martone. Bisogna conoscere una grande commedia come Miseria e nobiltà, i De Filippo e la loro storia paradossale: loro non riconoscuti dal padre – a differenza di quanto avviene nella finzione per il piccolo Peppiniello – diverranno per assurdo i figli più famosi del grande Scarpetta, segnando profondamente teatro e cinema del XX secolo.

Bisogna collegare tutti questi fili della matassa per sentire i brividi sulla pelle quando il piccolo Eduardo indicando il palco a un indisciplinato Peppino dice: «a libertà nostra sta là!». E forse tanti giovani purtroppo non conoscono questi personaggi, la loro storia, sono digiuni di teatro. O forse non serve: magari guardando il film, possono avvicinarsi a questo mondo perchè – ad ogni modo – anche i giovani sanno cos’è la vita e il teatro, in fondo, è la stessa cosa.

Angelica Rocca

 

 

Un bagno nel blues: buon compleanno Pino Daniele

Nessuno muore veramente sulla Terra finché vive nel cuore di chi resta. Si dice così, vero? Nonostante siano passati diversi anni da quella drammatica notizia, la presenza di Pino Daniele continua ancora ad accompagnarci dolcemente lungo quei grandi brani che sono passati alla storia come componimenti che raccontano le diverse anime di Napoli e dell’Italia, ma anche del volgo e dei sentimenti più profondi.

A me me piace ‘o blues e tutt’ ‘e juorne aggia cantà.

Pino Daniele. Fonte: libreriamo.it

Al confine tra poesia e musica leggera

Pino Daniele nasce a Napoli il 19 marzo 1955 in una famiglia molto numerosa. Dopo aver frequentato l’Istituto Armando Diaz di Napoli, impara a suonare la chitarra da autodidatta e successivamente migra in diversi complessi che lo aiutano ad acquisire conoscenza ed esperienza nel campo della musica.

Il 1976 segna importanti cambiamenti, tra cui le prime esperienze professionali come musicista e la maturazione artistica. Da quel momento il cantautore inizia a produrre album e canzoni di un certo spessore: alcune passarono alla storia della musica italiana come dei veri e propri capolavori.

L’omaggio che oggi intendiamo offrire a questo grande cantautore non sarà quello di raccontare la sua storia come se fosse una semplice biografia, ma di ripercorrere insieme alcuni dei brani più importanti. Un modo per sentirci più attivi e vicini al percorso compiuto dal grande Pino Daniele  e per augurare buon compleanno al cantautore e chitarrista blues più innovativo presente nel panorama italiano .

 

Pino Daniele: illustrazione in bianco e nero. Fonte: studio93.it

Napule è

Napule è, una fantastica traccia che apre il suo album di esordio: Terra mia del 1977.

Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chianu chianu e tu sai ca’ nun si sulo

Un inno, una poesia d’amore per la propria città, accompagnata  dalla denuncia a un insieme di problematiche quali le difficoltà, le contraddizioni e- sotto alcuni punti di vista- anche la rassegnazione.

Quella che vuole attuare Pino Daniele in questo brano è una rivoluzione, fatta di amare verità e dolci parole che si propongono di raccontare a testa alta e con determinazione le molteplici realtà di un posto così magico, lasciando spazio al sentimento e alla parola del volgo.
Allo stesso tempo, il cantautore non intende descrivere in modo oleografico la città ma vuole riportare alla memoria tutte quelle storie che ricordava o sapeva di aver ascoltato nei bar, nei vicoli, fra le panchine.

Una realtà che si lascia spogliare e raccontare senza mai consumarsi, una fiamma alimentata dall’amore, dalla passione, dall’incontro tra un foglio bianco e sentimenti liberi.

Le strade di Napoli illuminate dalle parole di Pino Daniele. Fonte: tpi.it

Je so’ pazzo

Je so’ pazzo je so’ pazzo, e vogl’essere chi vogl’io ascite fora d’a casa mia, je so’ pazzo je so’ pazzo

Un brano forte e dirompente che risale al 1979: ancora una volta, Pino parla e racconta Napoli, facendo diversi riferimenti testuali, e allo stesso tempo mostra una forte propensione al rock blues.

Il protagonista del testo è un “pazzo” che, in quanto non perseguibile dalla legge, si mostra libero di poter manifestare il proprio dissenso o le proprie idee senza la necessità di essere politicamente corretto. Un brano provocatorio, quasi sfacciato, ribelle.

Pino Daniele in concerto. Fonte: rockit.it

Quando

Tu dimmi quando, quando. Ho bisogno di te, almeno un’ora per dirti che ti odio ancora

Un brano molto conosciuto ed inoltre da inserire nei più grandi successi di Pino Daniele. Spesso viene consideratola canzone simbolo del cantautore. Pubblicato nel 1991, venne pensato come colonna sonora del film di Massimo Troisi, Pensavo fosse amore… invece era un calesse. Le parole di questa bellissima canzone la rendono un classico senza tempo e diversi cantanti si cimentano ancora oggi nella sua esibizione.

Il significato del testo è molto profondo e allo stesso tempo delicato, in quanto descrive l’animo combattuto di un uomo innamorato che si chiede quando vedrà la donna amata per dirle «Ti amo ancora». Nella canzone si chiede «Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca»: un chiaro appello all’amore perso. Mentre lei sembra molto lontana, così come cita il brano («forse in Africa che importa»), lui aspetta di rivederla un’ultima volta. Questo è chiaramente l’inno di chi non si arrende ma ama e brama la propria donna, nonostante lei non sia  lì con lui.

 Cover del cofanetto “Quando” (2017). Fonte: musicaintorno.it

Dai balconi alla rete, buon compleanno Pino

A gran voce, dai balconi delle nostre case, dai social alle radio nelle nostre camere, nonostante l’emergenza Coronavirus, siamo tutti abbracciati in un unico pensiero che ci accompagna proprio lì, a stringerci tra le note di Pino Daniele.

Grazie per la tua musica, buon compleanno.

Annina Monteleone

Stati Uniti, sparatoria a Santa Fe

Ancora tanta violenza nelle città, ma la situazione non cambia

L’ennesima sparatoria è avvenuta a Santa Fe, in Texas e, come molte altre volte a sparare è stato uno studente, questa volta un ragazzo di 17 anni.

Fin da inizio anno negli Stati uniti si sono verificati molteplici episodi nei paraggi o all’interno di aree scolastiche. In totale, secondo i dati di Everytown for Gun Safety, le armi da fuoco sono state usate già almeno 22 volte, tra cui anche due casi di suicidio.

L’ultimo caso riportato è avvenuto il 19 maggio; colpi di arma da fuoco sono stati sparati all’interno di una scuola superiore, un ragazzo armato avrebbe fatto irruzione nell’edificio e avrebbe aperto il fuoco. Secondo i media locali, gli spari sarebbero iniziati cinque minuti dopo un’esercitazione anti sparatoria.

Nel giro di pochi minuti numerose ambulanze ed elicotteri hanno prestato soccorso; mentre le forze di polizia hanno circondato l’edificio e hanno perquisito gli alunni che erano riusciti a salvarsi scappando.

A rendere ancora più sconcertante il massacro è stata la scoperta nella scuola e nel campus di vari ordigni esplosivi artigianali, tra cui tubi bomba.

Le ripetute tragedie hanno suscitato reazioni contrastanti dividendo in due il popolo americano. Da una parte ci sono i cittadini che chiedono leggi più severe sulla vendita e sulla proprietà delle armi da fuoco, mentre altri, sollecitano la presenza di più guardie armate nelle scuole, o si battono per rendere più facile per gli insegnanti poter portare con sé un’arma.

Indipendentemente dalle idee del popolo americano, secondo gli esperti, i pericoli che bambini e adolescenti corrono per via delle armi, oggi sempre più vendute anche ai giovani, rimangono elevati.Anche il presidente Trump ha espresso le sue idee attraverso dei tweet  promettendo di trovare una soluzione.

Una situazione affine sta avvenendo nel nostro Paese, a Napoli.

Si sa, i luoghi comuni su Napoli sono tanti e non mancano battute sulla legalità cittadina.

Dalla famosa sparatoria di novembre ai baretti, l’amministrazione comunale ha messo in campo sei ordinanze per rendere vivibili e tranquille le notti napoletane avendo come obiettivi la legalità nelle strade evitando ai cittadini la paura di girare dopo una certa ora.

Ordinanze di buone intenzioni ma che all’atto pratico non vengono rispettate.

                                                                                                                   Francesca Grasso

 

LIBERATO, je te voglio bene assaje

«Arape l’uocchie e vir’ ca’ pe’ trasi’ ‘int’all’anema ce vuo’ ‘nu suspir’»

Conosciamo tutti Liberato, il misterioso cantante senza volto che sta diventando un vero e proprio tormento.

Il fenomeno del momento è una sorta di indie neomelodico, un po’ trap e un po’ r’n’b, senza etichette alle spalle e senza album all’attivo; le sue canzoni sono valorizzate dagli spettacolari video del regista Francesco Lettieri, fotoromanzi che catturano tutto il meglio di Napoli.

Tutto è cominciato il 13 Febbraio 2017 quando su Youtube viene pubblicato “9 MAGGIO”, una di quelle canzoni che un po’ ti frega e  fa scendere una lacrimuccia anche ai più duri. 9 Maggio perché? Ecco, il 9 maggio successivo compare sempre su Youtube il singolo “TU T’È SCURDAT E ME”, pezzo che, anche a distanza di un anno esatto, non puoi fare a meno di iniettarti nelle orecchie come il peggior tossico dei sottoborghi.

Il video sembra raccontare la storia d’amore tra due ragazzini, quel genere di primo amore che ti fa sentire immortale per poi renderti conto che immortale sarà il dolore che provocherà quella persona, a dirla proprio tutta.

Non è tutto qui, tu t’è scurdat e me riporta alla luce tutta la magia di Napoli, con le sue isole, borghi e meraviglie varie che spesso dimentichiamo tra pizza, mafia e sfogliatelle.

Successivamente Youtube sforna “GAIOLA PORTAFORTUNA”, sorpresa delle sorprese è proprio Roberto Saviano a condividere la canzone su Facebook con scritto “Nuova canzone di Liberato, omaggio all’Afroitalia. Potrebbe essere l’Havana o Kingston, potrebbe sembrare Soweto o Benin City. È il sud Italia, Castel Volturno. Terra africana in Italia.“,  e “ME STAJE APPENNENN’ AMO”, dove c’è Napoli, certo, con i suoi palazzi, la sua gente e le sue strade e i suoi luoghi comuni.

«Ind ‘o core nun sent’ niente, co’ volume re cuffiett a vint. E parole tuoje se port ‘o vient’»

 

La storia continua quando il 2 Maggio torna su Youtube con “INTOSTREET” e, a distanza di 12 ore, con “JE TE VOGLIO BENE ASSAJE” e gli stessi ragazzini di “TU T’E SCURDAT E ME”.

Due canzoni, stessa storia, due punti di vista. Quello di lei e di lui, per intenderci.

A tutto questo alone di mistero si aggiunge un post su Instagram

Intanto c’è già chi spera che Liberato possa finalmente svelarci la sua identità, ma nulla toglie che possa sorprenderci come al Mi AMI Festival 2017 di Milano e al Club to Club di Torino.

 

Tirando le somme: sarà il neomelodico, sarà il mistero, sarà il tormento di una storia d’amore finita ma non realmente finita, saranno i video, sarà il mare di Napoli, ma Liberato affascina un po’ tutti anche se «dint’a ‘sta bugia pierdo ‘o suonno e ‘a fantasia. Baby, tell me why je te voglio bene assaje».

 Serena Votano