Lucio, insegnaci la vita

Occhiali tondi, barba, berretto e “canzoni-provocazioni” sono i tratti distintivi del musicista bolognese che amava parlare “alla gente”. Lucio Dalla moriva dieci anni fa, l’1 marzo del 2012, all’età di 69 anni.

Con la sua musica Dalla ricercava insaziabilmente “l’altro”, lo voleva raggiungere ad ogni costo, pur discostandosi da quelli che erano i canoni musicali del periodo. Scrivere canzoni belle, prodotti di qualità in grado di raggiungere l’altro, era per lui il massimo compito politico. Ma questo fu anche uno dei motivi che lo resero – per i suoi primi anni di carriera – un artista parzialmente incompreso, incollocabile dalle etichette discografiche. Dalla sentiva il bisogno di arrivare agli altri, ma forse era il mondo a non esser pronto ad ascoltarlo.

 “Com’è profondo il mare”: cover, 1977. Fonte: RCA

Tutto cambiò quando nel ‘77, dopo la fine del sodalizio artistico col poeta Roversi, il musicista pubblicò Com’è profondo il mare, uno dei più grandi capolavori della musica italiana. La canzone potrebbe essere quasi definita come il suo primo vero esordio. Da quel momento in poi l’ascesa: Dalla era diventato il musicista più popolare d’Italia.

Il disco perfetto

Il cantautore bolognese aveva individuato una formula perfetta, che salvava la qualità artistica e aveva un appeal irresistibile per le masse. Forse esagero, ma era un po’ il Calcutta della vecchia generazione!

E appena due anni dopo il fortunato Com’è profondo il mare, nel ‘79, l’artista pubblicò quello che da molti è considerato il suo disco perfetto: Lucio Dalla.

 “Lucio Dalla”: cover, 1979. Fonte: RCA

L’album ci parla di disperazione e di speranza, di orrore e di dolcezza, di amore e di odio. Ne è un esempio la traccia d’apertura, L’ultima luna, che ci ricorda quante siano le assurdità che governano questo mondo ma anche come le cose possano cambiare col tempo, sottolineando l’importanza della fede. Perché Dalla crede in Dio, crede nell’amore, ma soprattutto crede nell’uomo e nella sua libertà di essere e di vivere.

Nell’album è contenuta una delle canzoni più amate dell’autore: Anna e Marco, la storia di due ragazzi che si trovano al principio della loro vita, dubbiosi e irrequieti. Anna, “stella di periferia”, che scontenta della propria esistenza vede la felicità scorrerle come pioggia sul viso. «Anna bello sguardo/ Sguardo che ogni giorno perde qualcosa». E Marco, il «lupo di periferia» che si sente soffocare da quell’assurda quotidianità. I due si capiscono e condividono la stessa angoscia, le stesse paure: «si scambiano la pelle.» Per poi volare nel cielo di notte, con la luna che li guarda e – come il destino – a volte mette anche un po’ di paura.

Del resto, quando siamo giovani, siamo talmente attaccati alla vita che ci sembra di non viverla abbastanza, ci sembra di non riuscire a realizzare i nostri sogni, che appaiono sempre lontani da raggiungere. Perché citando Calvino, «alle volte uno si sente incompleto ed è soltanto giovane.»

La potenza immaginifica

Ascoltare Lucio, dunque, è un po’ come immergersi in una dimensione onirica, quasi surreale. Pensiamo alla notte, con la sua luna e le infinite stelle, una presenza costante all’interno dei suoi testi. Nella notte tutto è magia, chiunque può sognare: lo fanno Anna e Marco che tenendosi per mano camminano tra le stelle; lo fa Sonni Boi, al parco della luna, che delle stelle ne ha fatto una mappa sulle sue braccia.

E lo fa un vecchio cuore innamorato, in una poesia dalla dolcezza inestimabile: Caral, la struggente storia di un uomo che resta impigliato fra i lunghi capelli di una ragazza molto più giovane di lui.

“Conosco un posto nel mio cuore
Dove tira sempre il vento
Per i tuoi pochi anni e per i miei che sono cento”

Ma la vita non si ferma e insieme alla ragazza vola via, come una farfalla. Anche la forza delle parole andando avanti si fa sempre più potente, arrivando a scontrarsi con la meravigliosa arte del pittore francese, Marc Chagall, facendoci dono, ancora per una volta, di un’immagine a dir poco stupenda.

“Ma per uno come me l’ho già detto
Che voleva prenderti per mano e volare sopra un tetto”

Marc Chagall, Sulla città, 1918. Fonte: agoravox.it

La canzone, che inizialmente si sarebbe dovuta chiamare Dialettica dell’immaginario, è nata proprio dalla prima bozza di una sceneggiatura dello stesso Lucio.  L’ha dichiarato lui stesso più volte nelle sue interviste, e lo possiamo notare anche noi dall’andamento cinematografico delle scene.

Non è infatti una novità l’interesse che Dalla nutriva per altre forme d’arte, come la pittura, il teatro e soprattutto il cinema.

Lucio Dalla: il musicista del popolo

Il cantautore bolognese per tutta la sua vita non ha mai abbandonato l’atteggiamento goliardico e fuori dagli schemi, che anzi ha segnato il suo percorso artistico fin dagli inizi. Già ai tempi dei Flippers, che gli avevano consentito l’accesso nel magico regno del pop italiano, aveva dato dimostrazione del proprio modo “giocoso” di stare sul palco. Ma anche delle sue modeste origini. Era infatti piuttosto trasandato e spesso indossava calzini bucati, che a volte toglieva del tutto, dipingendosi le caviglie con un pennarello nero.

Dalla non è stato solo un grande artista del nostro tempo. Dalla è come un buon farmaco, adatto a tutte le età: per le incertezze torride adolescenziali e per le malinconie fredde della maturità e della vecchiaia. Lucio, che ti disegnavi i calzini con il pennarello, insegnaci la vita!

 

Domenico Leonello

Il fragile “Universo” di Mara Sattei

Mara Sattei
Mara Sattei si rivela in “Universo”, viaggio all’interno dell’inconscio fatto di sogni, dubbi e speranze del passato, senza uscire però dalla sua zona comfort. – Voto UVM: 3/5

Mara Sattei si mette a nudo e, nel suo Universo, ci racconta la solitudine, quel senso di angoscia e di inadeguatezza che molto spesso accompagna le nostre vite. Ma ci parla anche dell’importanza della fede e di come conquistare questa consapevolezza sia il primo passo per riconciliarsi con le proprie fragilità.

“Bisogna prendersi dei momenti per sé stessi per capire chi siamo, da dove veniamo, cosa vogliamo dire e cosa vogliamo comunicare.” (Mara Sattei)

Il 9 aprile 2021 esce Scusa, il primo singolo ufficiale di Mara Sattei, prodotto dal fratello Tha Supreme. Un brano che rappresenta la forza gigantesca che una parola può avere, e con cui la cantante romana iniziò a dar vita al suo “mondo minimal”. Segue poi Ciò che non dici, pubblicato il 3 dicembre, e che vorrebbe essere un invito ad agire piuttosto che aspettare che accada qualcosa.

Finalmente il 14 gennaio arriva Universo, uno degli album più attesi dell’anno. Mara è una delle voci più originali del nuovo panorama musicale e questo disco ne è la dimostrazione. È come un viaggio, dentro l’anima di chi ha trovato nella musica “la strada per sentirsi libera”.

Copertina di Universo. Fonte: Columbia Records

Come dentro un teen drama

Non sempre è semplice attraversare i propri limiti e andare oltre le proprie paure. Ansia, solitudine e costante ricerca di libertà sono solo alcuni dei temi trattati all’interno dell’album. Non stupisce dunque il fatto che in alcuni momenti sembra quasi di ascoltare chiari riferimenti a storie adolescenziali. Ne sono un esempio Shot e Blu Intenso ft. Tedua, che sembra trovarsi particolarmente a suo agio all’interno del brano.

“Mi sono presa del tempo per capire su quale brano inserire dei featuring. E dovevano essere affini al mio mondo, altrimenti si rischiava troppo contrasto sulla scrittura del brano. Questa riflessione mi ha portato a scegliere anche artisti con cui non avevo mai collaborato, come Tedua.” (Mara Sattei in un’intervista su “Billboard”)

Si riconferma vincente la collaborazione con Flavio Pardini, in arte Gazzelle, con cui l’artista aveva già collaborato al singolo Tuttecose, una delle hit estive di quest’anno. Ad un primo ascolto Occhi Stelle sembrerebbe una classica canzone indie che non ha niente di nuovo da dire, ma nonostante tutto funziona piuttosto bene. Il ritornello risulta uno dei più orecchiabili dell’intero album e la firma di Gazzelle e del suo “sexy-pop” è più che evidente.

“Mentre in sottofondo passa il tuo ricordo
Perso, vagabondo, il mondo è capovolto
E sei tu come le stelle che non vanno giù
E io come le mutande che non togli più”

Miscela di dubbi e rimorsi

Inaspettato è invece il featuring con la cantante Giorgia, in Parentesi, che fa davvero da spartiacque all’interno dell’album, e in cui Mara finalmente ci dà una dimostrazione completa della sua intonazione precisa e della sua notevole estensione vocale. Per il resto il pezzo avrebbe tutte le carte in regola per partecipare ad un festival come Sanremo. Che sia davvero questo il brano scartato da Amadeus?

Insieme a quello di Giorgia, il featuring con Carl Brave, Tetris, sembrerebbe una delle canzoni più riflessive del disco. Che Mara fosse un’ottima liricista si era già intuito dai suoi precedenti lavori, soprattutto grazie a metriche serrate, neologismi e libertà di linguaggio, Sara Mattei (questo il suo vero nome) qui dà libero sfogo a dubbi e rimorsi del passato, facendosi sempre più piccola e vulnerabile e lasciando allo scoperto le proprie fragilità. Trova largo spazio anche il tema dell’amore, come in Cicatrici e in Sabbie Mobili, e infine il forte rapporto della cantante con la fede e con Dio:

“In Perle racconto proprio di quanto, a volte, ci si possa sentire avvolti da un contrasto; la conseguenza è la richiesta di aiuto. In questi momenti, io solitamente prego, nel brano lo dico esplicitamente. Nei periodi più bui ho sempre mantenuto un legame molto forte con la fede.”

 L’universo perfetto di Mara Sattei?

Ogni album ha i suoi alti e bassi e purtroppo, anche Mara alcune volte sembra non volersi proprio smuovere dalla sua comfort zone, costringendoci a dover skippare la canzone forse un po’ troppo “ritornellosa”. Purtroppo, all’interno di Universo questo accade e non si può non farci caso. Come in Antartide o in Tamigi, che pur essendo state “impacchettate” perfettamente dall’ormai noto fratello minore di Mara, tha Supreme, che si è occupato dell’intera produzione del disco, lasciano l’amaro in bocca, come se mancasse qualcosa.

In definitiva, l’album non è perfetto, ma funziona. Tutti noi possiamo ritrovarci in almeno una di queste canzoni perché ognuno ha i propri punti deboli, le proprie vulnerabilità. L’obiettivo di questo disco sembra proprio quello di buttarle fuori, come in un lungo flusso di coscienza, e trasformarle in punti di forza. Siamo esseri fragili, “facili alla rottura”, ma non per questo soli.

Domenico Leonello

V: Il viaggio apocalittico di Mannarino

Mannarino torna a galla più prepotente che mai in un disco curioso, stimolante, potente. – Voto UVM: 4/5

 

A quattro anni di distanza dal precedente album, il cantautore romano Mannarino torna con un nuovo disco dal titolo “V”, disponibile dal 17 settembre.

Prodotto dallo stesso artista e registrato tra New York, Los Angeles, Città del Messico, Rio De Janeiro, Amazzonia e Italia con il coinvolgimento di produttori internazionali, l’album è un invito ad appellarsi alla saggezza ancestrale degli esseri umani. Un disco che parla le lingue del mondo, intriso di suoni di foresta e voci indigene. Mannarino va alla ricerca della sorgente tribale dell’umanità, proposta come unico e potente antidoto contemporaneo alla brutalità del disumano.

Cover: la Donna Guerriera di Mannarino

La cover del disco raffigura una donna combattente, guerriera. L’immagine è l’unione di due elementi: la donna e la resistenza indigena fusi insieme in un’azione: quella di calarsi il passamontagna, o forse di toglierlo, immagine evocativa di un’entrata in azione, un’azione che è difesa non violenta, poetica e ispiratrice. Calarsi il passamontagna per andare in guerra o toglierlo per mostrare e difendere la propria identità? Un’immagine contemporanea che trova la sua forza in una nuova tribalità, allo stesso tempo antica e futura.

La voce delle canzoni

Ad anticipare l’album è stato il singolo Africa, con un arrangiamento ricco di strumenti etnici e cori dal gusto africano. Mannarino canta quasi sussurrando le parole che si rivolgono in maniera diretta a quella che lo stesso artista definisce un “richiamo all’irrazionalità misteriosa”.

In Congo, invece, la poesia si fa irriverente e affilata. Con i tratti di una favola moderna, l’artista romano racconta della paura dell’altro, dell’ultimo ricercato e dell’ultima principessa, in un paesino fotografato alla vigilia di Natale. Attraverso un sound tribale alternato ad alcuni accordi di chitarra, si crea una visione apocalittica, a tratti biblica che parte dai bassifondi per arrivare al cielo a smascherare la bugia di Dio.

Vengono nell’oblio e, mentre vengono, chiamano Dio
E Dio è solo un pezzo di carne legata allo spago
Fra la bocca dell’affamato e la mano del mago.

Canti di rabbia, di rivolta, di resistenza, d’amore sono lo strumento per superare l’idea di impossibilità, ingiustizia e delusione. La voce debole e isolata trova la forza di trasformarsi in grido di battaglia, di riscatto e speranza. È questo il significato di Cantaré: un inno alla voce per chi non ha voce!

Fiume Nero è una dichiarazione d’amore “alternativa”. Qui, ci si addentra nella giungla, nella carne viva dell’album: un luogo al di fuori delle leggi dello spazio e del tempo, dove l’umano si fa Dio e mischia l’acqua con la lava. Due corpi, due esistenze, due mondi si uniscono nell’infinito, fuori da qualsiasi tipo di convenzione.

In Agua e Amazònica, entrambe registrate nella regione del Tapajos, la voce delle donne indigene combattenti “As Karuanas” accompagna quella di Mannarino. La canzone è un grido calmo, bagnato di pianto, che vuole essere una chiamata al mondo ad aprire gli occhi, ricordando che l’attacco alla terra indigena e alle risorse naturali dell’Amazzonia si sta trasformando in un vero e proprio genocidio.

Mannarino: giocoliere di parole

Chiunque ascolti il cantautore romano è sicuramente a conoscenza della sua versatilità e del suo modo di giocare con le canzoni. Questa volta lo fa con Banca De New York, un esperimento ironico e allucinato, registrata tra Roma e Città del Messico. In questo pezzo l’artista è riuscito ad unire il registro più romanesco e radicale con un mondo sonoro acido e “trippy”, ispirato al Mississippi e ai campi di cotone. Originale anche se purtroppo, per tutta la durata della canzone – a tratti ridondante – ci si aspetta un exploit che sembra non arrivare mai.

Man mano che il disco scorre, si sente serpeggiare la crisi di un uomo e simultaneamente apparire l’immagine di una donna: la Dea ipnotica. In Vagabunda questa immagine esce fuori in maniera potente. Parla di un uomo che cerca rifugio e salvezza dalle sbarre del logos occidentale in una donna, personificazione dell’“eros”.

Romantica, Eretica, Erotica

È una giungla carnosa e ipnotica questa, dove la salvezza passa per il corpo e la sensualità viene dalla ribellione.

Cantare è una mossa politica!

Il viaggio continua con la canzone cosmopolita Ballabylonia, la storia di una donna Iracema, contemporanea e futura, che dalla giungla viene attirata dalle luci della grande città, della metropoli immersa in un nuovo villaggio: quello “globale”, come direbbe il sociologo McLuhan. Si accorge così di essere in un altro tipo di giungla, ma molto più pericolosa. Musicalmente Mannarino abbandona quasi del tutto i suoni ancestrali della natura, dando più spazio all’elettronica, rafforzando l’idea del passaggio della donna Iracema dal suo tranquillo villaggio alla nostra giungla post-moderna.

Con Bandida, ereditiera della patchanka di Manu Chao, ci ritroviamo davanti alla Donna indigena, ancestrale, forte, guerriera per natura, e ribelle per cultura. Questa immagine di donna è un’immagine umana che trova la sua corrispondenza più intima nel mistero della giungla: sono crollati i monoteismi, resta il mistero, l’animismo e la spinta vitale che ci porta tutti avanti. In testa, a guidare questa folla, c’è lei, colorata e furiosa.

La libertà che guida il popolo…

Lei è la fine del viaggio, l’epilogo ideale del disco. La crisi di un uomo di fronte all’immagine della donna rappresenta una crisi storica e sociale e la lotta di lei diventa un messaggio alle generazioni future.

Lei lasciò solo una scritta sul muro:                                                                                              “pagheranno caro, pagheranno tutto”                                                                                                voi picchiate duro                                                                                                                                aprite una breccia e vedrete il futuro

Adesso che il viaggio è finito e “Lei” non c’è più, ci restano i titoli di coda: Luna, una ballata struggente sulla separazione, sulla solitudine, e Paura, che rappresenta la presa di coscienza e il ritorno alla realtà. Due brani completamente in acustico, di estrema semplicità ma pieni di emotività, dalla voce calda, sicura e sussurrata.

Che io non ho paura alcuna, che io non ho paura.

È con queste semplici e struggenti parole che l’in-cantautore romano chiude il suo Viaggio. Un viaggio alla riscoperta della semplicità, della natura, della riconnessione con il proprio io, quello primordiale. Un viaggio fatto di storie: di battaglie babiloniche, fughe rivoluzionarie e amori fuorilegge, alla riscoperta di che cos’è davvero la paura.

Domenico Leonello

Rino Gaetano: piccole istantanee di un cantautore anarchico

A 40 anni dalla sua morte, il cantautore calabrese Rino Gaetano viene celebrato con Istantanee e tabù: una prestigiosa collezione realizzata in collaborazione con la figlia Anna e il nipote Alessandro Gaetano.

La tracklist ricostruisce un percorso musicale ponderato delle canzoni più rappresentative estratte dai sei album in studio (Ingresso libero; Mio fratello è figlio unico; Aida; Nuntereggae più; Resta vile maschio, dove vai?; E io ci sto) pubblicati da Rino Gaetano nella sua breve ma intensa carriera.

La collezione è inoltre impreziosita da materiale tratto da nastri emersi nel tempo: troviamo l’inedito Io con lei, oltre a demo mai pubblicate prima e versioni originali di sue canzoni (che qui differiscono per testo o arrangiamento). Sono piccole istantanee immortalate nel tempo, a testimoniare il talento ingiustamente poco considerato in vita del nostro cantastorie metropolitano per eccellenza.

Le intime istantanee di Rino

Dopo tutto questo tempo i suoi testi riecheggiano fra le urla della gente, le sue parole vengono cantate a squarciagola dai giovani ai falò.

Rino, l’esule del Sud che col suo stile graffiante, ironico e tagliente affrontava la società, la politica, puntava il dito senza paura, senza nascondersi dietro alcuna maschera. Un artista che non ha mai avuto maestri e che non ha mai fatto parte di correnti già precostituite. Era lui stesso l’onda di una nuova corrente della musica italiana. Negli anni ’70 la canzone d’autore era politicamente impegnata, e Rino, col suo sguardo sensibile e a tratti disincantato, ha affrontato gran parte delle problematiche sociali.

Ne è un esempio la canzone Agapito Malteni il ferroviere, in cui l’autore racconta la storia di un ferroviere che ha negli occhi il dramma dell’emigrazione: intere famiglie che lasciano le proprie case per trovare fortuna in altri Paesi.

La gente che abbandona
spesso il suo paesello
lasciando la sua falce
in cambio di un martello
È gente che ricorda
nel suo cuore errante
il misero guadagno di un bracciante

La canzone fa parte del suo primo album, praticamente ignorato: Ingresso libero (1974). Un album sospeso fra un folk solare di acustiche e testi malinconici.

A questo seguirà Mio fratello è figlio unico (1976), un LP che si basa proprio sul concetto dell’emarginato e dell’escluso:

Penso al cane, chi meglio del cane può incarnare la solitudine per eccellenza? Noi siamo come il cane, e cioè abbastanza avulsi dall’incontro umano, abbastanza soli, messi da parte. (Rino Gaetano ad “Adesso Musica” nel ‘76)

Da Aida a Gianna: Donne simbolo di libertà

Sono gli anni di Fantozzi, degli impiegati poveri e arrivisti quelli che ritroviamo nella titletrack dell’album: una ballata idealistica di emarginazione e denuncia sociale.

Nella tracklist c’è anche la famosa Berta filava, che nel suo testo ha un significato radicato nella politica degli anni ’70. C’è chi ha visto in Berta Bert il soprannome di Robert E. Gross, il fondatore della Lockheed, al centro di un grosso giro di tangenti internazionali. E c’è chi invece ha puntato il dito su Aldo Moro che tramava alleanze con i partiti d’opposizione.

Nel 1977 esce Aida, album contenente l’omonima canzone con cui Rino si proponeva di raccontare la storia dell’Italia del ‘900 associandola alla vita di una donna meravigliosa, la sua Aida (riferimento all’opera del compositore italiano Giuseppe Verdi). L’Italia, ovvero la donna che sfogliava i suoi ricordi”; ritrova “il gran conflitto”, “marce e svastiche”, “la povertà, i salari bassi”. Ma è proprio per questa sua storia che nel ritornello, l’autore si fa portavoce del popolo nel dire “Aida, come sei bella”!

Ma Aida non è la sola Donna presente nella discografia di Rino. A distanza di un anno infatti cede il testimone ad una lei altrettanto importante: Gianna. A differenza dalla precedente si presenta come una filastrocca pop, colorata da una satira sociale e da un’ironia esibizionistica (come quella che porterà al Festival di Sanremo) che segneranno il percorso artistico dell’autore: da outsider per pochi a cantautore più “pop”. La sua Gianna gli farà ottenere il terzo posto alla kermesse musicale con un grande successo di vendite. Successo che purtroppo Gaetano vivrà tutt’altro che bene.

L’inizio della crisi

A 28 anni e in piena crisi, pubblica Resta vile maschio, dove vai? (1979) considerato il semi-flop della sua carriera per la presenza di tematiche trite e ritrite, cantate da un Rino Gaetano ormai “stanco” e “distante”.

Nel 1980 esce il suo ultimo disco E io ci sto. L’artista aveva ritrovato la giusta rotta, e con occhi diversi era tornato a raccontare le sue storie, come solo lui sapeva fare.

Mi alzo al mattino con una nuova illusione
Prendo il 109 per la rivoluzione
E sono soddisfatto un poco saggio un poco matto
Penso che fra vent’anni finiranno i miei affanni

ilsussidiario.net

Istantanee e tabù è proprio un viaggio attraverso tutta la discografia dell’autore. Da Ingresso libero ad E io ci sto, fra successi e insuccessi; per provare a ricordare “l’irriverente menestrello” della musica italiana come forse anche lui avrebbe voluto: cantando le sue canzoni!

Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale!

Domenico Leonello

Battiato, il signore della musica e delle parole

Il mondo della musica – e non solo – dà il suo addio a Franco Battiato. Al Maestro – anche se non amava essere definito tale – che della poliedricità ha fatto il suo marchio di fabbrica. Il musicista, cantautore, compositore che, con un’insaziabile e spiccata curiosità, ha abbracciato vari generi: dal pop alla musica leggera, dalla lirica al rock progressivo, passando per la musica etnica. Al poeta e paroliere che, con un’innata raffinatezza e una spiccata intelligenza, ha indagato l’intimità dell’essere umano cogliendone tutte le sfaccettature. A quell’amico che, come hanno sottolineato tutti coloro che lo hanno conosciuto, rimarrà per sempre non solo il “signore della musica e delle parole” ma anche il signore dell’animo (e dall’animo) umano.

Ciao Franco!

La carriera del Maestro ha inizio a Milano nel 1964. Precisamente in un cabaret, il “Club 64”, allora frequentato da alcuni dei futuri rappresentanti della canzone d’autore italiana: Enzo Jannacci, Renato Pozzetto e Bruno Lauzi.

Sarà l’incontro con Giorgio Gaber che segnerà una svolta decisiva nella sua carriera, facendogli firmare un contratto con la casa discografica Jolly che inserirà l’artista in quel filone di “protesta”. All’epoca assai in voga e presente in molte produzioni cantautorali.

Il primo singolo inciso ufficialmente, La torre, accompagnerà la sua prima apparizione televisiva nel programma Diamoci del tu, condotto dallo stesso Gaber e da Caterina Caselli. Sarà proprio in quell’occasione che l’artista milanese proporrà a Battiato di cambiare il nome da Francesco a Franco, per non confondersi con quello di un altro giovane cantautore che quella sera si sarebbe dovuto esibire: Francesco Guccini.

Da quel giorno in poi tutti mi chiamarono Franco, persino mia madre.

Qualche anno più tardi Battiato decise di abbandonare il genere di protesta per convertirsi inizialmente alla “canzone romantica” per poi arrivare ad identificarsi con una forma d’avanguardia ancora più intellettuale e intimista rispetto al suo esordio. Nel 1973 pubblica Sulle Corde di Aries: un album in cui musica minimale e una musica acustica di tradizione araba, convergono perfettamente, lasciando ampio spazio all’elettronica. Già da allora il cantautore si è spinto a concepire le note come atti di purificazione, qualcosa che ci innalza verso la bellezza.

Un viaggio attraverso le note

L’approccio di Franco alla musica deve essere dunque visto un po’ come un viaggio in cui ogni tappa corrisponde ad un genere diverso. La sua virtù di cantautore è sempre stata quella di saper far combaciare molteplici stili musicali, combinandoli tra loro in un approccio eclettico, originale e sperimentale.

La poesia e la letteratura, come ci ha insegnato il buon Sartre, vivono grazie a chi le legge e chi attribuisce loro un significato. E ognuno interpreta a suo modo un testo, in base a quello che sente, a quello che sa, alla sua esperienza di vita.

Il cantautore siciliano, infatti, oltre ad aver contrassegnato molte delle sue canzoni con un ampio uso di citazioni letterarie che richiamano poeti e scrittori quali Marcel Proust, Giacomo Leopardi, Giovanni Pascoli e Giosuè Carducci, realizza una vera e propria trilogia (Fleurs – Fleurs 3 – Fleurs 2) che raccoglie cover di autori prevalentemente italiani e francesi.

In Fleurs oltre a cover di artisti del calibro di De André, Gino Paoli, Mick Jagger e Keith Richards, Battiato inserisce alcune sue composizioni, tra cui Invito al viaggio. In questa canzone l’autore cita Baudelaire fin dal titolo, parlando dell’omonima poesia che fa parte dei Fiori del male . Il brano, con i testi del filosofo catanese Manlio Sgalambaro e le musiche di Battiato, inneggia al viaggio “in quel paese che ti somiglia tanto”, un viaggio nel quale c’è libertà e rispecchiamento, perché partendo scopriremo il mondo e impareremo a conoscere meglio noi stessi. Un po’ come ha fatto il maestro con le sue canzoni, alleviando le nostre difficoltà con veri e propri balsami per l’anima. Non semplici canzoni ma oasi nelle quali ritrovarsi, momenti nei quali la sua voce come una carezza ci solleva dalle pesantezze e ci rende più leggeri.

 Credo, al contrario di quelli che non hanno capito niente dei miei testi e li giudicano una accozzaglia di parole in libertà, che in essi ci sia sempre qualcosa dietro, qualcosa di più profondo. Quando si intende adattare un testo alla musica si scopre che non è sempre possibile. Finché non si fa ricorso a quel genere di frasi che hanno solo una funzione sonora. Se si prova allora ad ascoltare e non a leggere, perché il testo di una canzone non va mai letto ma ascoltato, diventa chiaro il senso di quella parola, il perché di quella e non di un’altra. Per capire bisogna ascoltare, serve animo sgombro: abbandonarsi, immergersi. E chi pretende di sapere già rimane sordo.

Torneremo ancora…

Nel 2019 esce Torneremo ancora. L’inedito, che dà il titolo all’album, è frutto dell’assemblaggio della voce di Battiato incisa nel 2017 e della musica scritta e suonata dallo stesso. I versi risuonano oggi come un profetico arrivederci:

La vita non finisce, è come il sogno, la nascita è come il risveglio finché non saremo liberi. Torneremo ancora e ancora e ancora

A noi piace pensare che questo è stato il dono d’addio che un uomo d’altri tempi, com’era il nostro Franco, ha voluto donarci prima di vivere un’ultima avventurosa trasformazione.

Franco Battiato è stato un esempio unico e irraggiungibile di metamorfosi verso quella ricerca bramosa di “qualcos’altro”, di cambiamento ed esplorazione che appartiene solo ai veri artisti. E se noi pensiamo a un artista, Battiato è uno di loro. C’è tutta la ricerca di una vita dentro le parole e le opere di Battiato. Parole e opere che, per oltre cinquant’anni, hanno accompagnato l’inizio e la fine delle nostre storie e che, per almeno altri cinquant’anni, rimarranno scolpite dentro ognuno di noi.

E come lo stesso cantava: “perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te”, noi tutti promettiamo di curare il ricordo di quest’uomo, artista dell’arte della vita e non solo dell’arte dello spettacolo.

Ciao, Franco. Ci vedremo al prossimo passaggio.

Domenico Leonello, Angelica Terranova

Il Capa è tornato: habemus Caparezza

Il Capa con il suo ritorno è riuscito a dare una scossa alla musica italiana  4.0 – Voto UVM :4/5

Dopo tre anni ritorna sulle scene musicali Caparezza, con un nuovo album autobiografico, come dichiarato dall’artista. Ci aveva lasciato con Prisoner 709 (2017) e aveva entusiasmato tutti con la sua lingua tagliente e pure Exuvia, uscito il 7 maggio, non è da meno.

L’artista non ha bisogno di presentazioni: che lo si voglia o no, Caparezza è uno degli autori più talentuosi e autentici del panorama della musica italiana. I suoi testi parlano della società circostante, le sue canzoni hanno denunciato la mafia e gli errori della politica, ma hanno parlato anche d’amore e di speranza, per un mondo che ormai vive di immagine e finzione.

Meglio depressi che stronzi del tipo «Me ne fotto», perché non dicono «Io mi interesso»?

Caparezza. Fonte: centralfloridavocalarts.com

Exuvia( 2021)

A mio agio nel caos, ecco la mia Exuvia.

Il nome “exuvia” indica la muta dell’insetto, quindi un cambiamento e una nuova maturità, senza lasciare indietro il proprio passato. Come l’insetto, pure Caparezza con il suo nuovo stile ha voluto regalarci un artista nuovo: con una metamorfosi è riuscito a incoronare il suo percorso rendendolo più maturo e di questo ci parla la traccia Exuvia. Un significato a primo impatto banale per coloro che non accettano cambiamenti e vivono dentro una bolla rivestita da mero egoismo e pregiudizi.

Ogni mio scatto è di prassi bruciato
Non dimentico le radici perché tengo alle mie radici
Ma ci ritornerò quando sarò inumato
I miei dubbi hanno dei modi barbari
Invadenti e sono troppi
Il segreto è fare come gli alberi
Prima cerchi, dopo tronchi
Chi ti spinge dopo quella soglia
Se non è la noia, sarà il tuo dolore
L’occasione buona per andare altrove, tipo fuori

L’album contiene 19 tracce, ed è stato anticipato un mese e mezzo fa con Exuvia e subito dopo La Scelta. Il disco si presenta cupo e percepiamo una sensazione di malinconia nell’ascolto. Come un vero genio incompreso, Caparezza mescola temi della politica e dell’arte, facendoci affrontare un viaggio nell’inafferrabile: solo chi presterà la massima attenzione potrà capire il disco.

Nelle canzoni troviamo le collaborazioni di altri artisti quali Matthew Marcantonio (leader dei Demob Happy) che canta il ritornello della traccia Canthology e Mishel Domenssain, una cantautrice e rapper messicana che accompagna l’artista nella traccia El Sendero.

Come già citato sopra, l’artista ha rilasciato più di un mese fa le tracce Exuvia e La Scelta. Di cosa parla La scelta? La scelta rappresenta la solitudine, un “limbo“- come dichiara l’artista- in cui si è soli e non si hanno aiuti e solo tu decidi che strada intraprendere e quella scelta, che a volte è un concetto banalizzato, è ciò che condiziona la tua vita: quindi bisogna essere prudenti e ponderare prima di agire. Caparezza in merito a questa canzone ha dichiarato:

Uno degli elementi ricorrenti del nuovo album è la stasi, il limbo, il “non luogo” senza via d’uscita. Come si viene fuori da questa impasse? Esiste un solo modo: fare una scelta, prendere una decisione. Ho immaginato di trovarmi davanti ad un bivio, due sentieri che si diramano dal bosco.

Fino a qualche mese fa nessuno si aspettava un nuovo disco di Capa: difatti l’artista non aveva rilasciato dichiarazioni o tracce sul suo profilo Instagram, ma il 31 marzo, ha sganciato all’improvviso come una bomba l’uscita della sua nuova opera e pagine social e giornali inneggiavano al ritorno di Caparezza. Diciamocelo: l’artista pugliese ha giocato bene le sue carte, cogliendoci tutti di sorpresa!  

Fonte: Copertina ufficiale Exuvia-Juloo.it

Nelle nuovi canzoni, non troviamo più il vecchio Caparezza, anche la sua voce nasale è scomparsa, ma il suo essere diretto è sempre presente (in fondo è il suo marchio di fabbrica).

Non è un’artista amato da tutti, forse per il suo modo d’essere troppo schietto o forse perché è poco attivo sui social e non rilascia mai interviste o non segue la linea commerciale che richiede la nostra società; nonostante tutto il suo nome viene ancora ricordato e rimane uno degli artisti più amati della nostra terra, è la prova vivente che non bisogna amalgamarsi alla massa per creare arte.

Non me ne frega un cazzo dell’opinione di un giornalista, non mi interessa cosa possa pensare lui della mia band!… Certo, a chi non fa piacere una cazzo di recensione positiva, però non si può dipendere dalle opinioni altrui. E la maggioranza dei giornalisti che scrivono di musica sono dei poveracci.

Fonte: fm-world.it

                                                                                                                                Alessia Orsa

 

 

Un bagno nel blues: buon compleanno Pino Daniele

Nessuno muore veramente sulla Terra finché vive nel cuore di chi resta. Si dice così, vero? Nonostante siano passati diversi anni da quella drammatica notizia, la presenza di Pino Daniele continua ancora ad accompagnarci dolcemente lungo quei grandi brani che sono passati alla storia come componimenti che raccontano le diverse anime di Napoli e dell’Italia, ma anche del volgo e dei sentimenti più profondi.

A me me piace ‘o blues e tutt’ ‘e juorne aggia cantà.

Pino Daniele. Fonte: libreriamo.it

Al confine tra poesia e musica leggera

Pino Daniele nasce a Napoli il 19 marzo 1955 in una famiglia molto numerosa. Dopo aver frequentato l’Istituto Armando Diaz di Napoli, impara a suonare la chitarra da autodidatta e successivamente migra in diversi complessi che lo aiutano ad acquisire conoscenza ed esperienza nel campo della musica.

Il 1976 segna importanti cambiamenti, tra cui le prime esperienze professionali come musicista e la maturazione artistica. Da quel momento il cantautore inizia a produrre album e canzoni di un certo spessore: alcune passarono alla storia della musica italiana come dei veri e propri capolavori.

L’omaggio che oggi intendiamo offrire a questo grande cantautore non sarà quello di raccontare la sua storia come se fosse una semplice biografia, ma di ripercorrere insieme alcuni dei brani più importanti. Un modo per sentirci più attivi e vicini al percorso compiuto dal grande Pino Daniele  e per augurare buon compleanno al cantautore e chitarrista blues più innovativo presente nel panorama italiano .

 

Pino Daniele: illustrazione in bianco e nero. Fonte: studio93.it

Napule è

Napule è, una fantastica traccia che apre il suo album di esordio: Terra mia del 1977.

Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chianu chianu e tu sai ca’ nun si sulo

Un inno, una poesia d’amore per la propria città, accompagnata  dalla denuncia a un insieme di problematiche quali le difficoltà, le contraddizioni e- sotto alcuni punti di vista- anche la rassegnazione.

Quella che vuole attuare Pino Daniele in questo brano è una rivoluzione, fatta di amare verità e dolci parole che si propongono di raccontare a testa alta e con determinazione le molteplici realtà di un posto così magico, lasciando spazio al sentimento e alla parola del volgo.
Allo stesso tempo, il cantautore non intende descrivere in modo oleografico la città ma vuole riportare alla memoria tutte quelle storie che ricordava o sapeva di aver ascoltato nei bar, nei vicoli, fra le panchine.

Una realtà che si lascia spogliare e raccontare senza mai consumarsi, una fiamma alimentata dall’amore, dalla passione, dall’incontro tra un foglio bianco e sentimenti liberi.

Le strade di Napoli illuminate dalle parole di Pino Daniele. Fonte: tpi.it

Je so’ pazzo

Je so’ pazzo je so’ pazzo, e vogl’essere chi vogl’io ascite fora d’a casa mia, je so’ pazzo je so’ pazzo

Un brano forte e dirompente che risale al 1979: ancora una volta, Pino parla e racconta Napoli, facendo diversi riferimenti testuali, e allo stesso tempo mostra una forte propensione al rock blues.

Il protagonista del testo è un “pazzo” che, in quanto non perseguibile dalla legge, si mostra libero di poter manifestare il proprio dissenso o le proprie idee senza la necessità di essere politicamente corretto. Un brano provocatorio, quasi sfacciato, ribelle.

Pino Daniele in concerto. Fonte: rockit.it

Quando

Tu dimmi quando, quando. Ho bisogno di te, almeno un’ora per dirti che ti odio ancora

Un brano molto conosciuto ed inoltre da inserire nei più grandi successi di Pino Daniele. Spesso viene consideratola canzone simbolo del cantautore. Pubblicato nel 1991, venne pensato come colonna sonora del film di Massimo Troisi, Pensavo fosse amore… invece era un calesse. Le parole di questa bellissima canzone la rendono un classico senza tempo e diversi cantanti si cimentano ancora oggi nella sua esibizione.

Il significato del testo è molto profondo e allo stesso tempo delicato, in quanto descrive l’animo combattuto di un uomo innamorato che si chiede quando vedrà la donna amata per dirle «Ti amo ancora». Nella canzone si chiede «Dove sono i tuoi occhi e la tua bocca»: un chiaro appello all’amore perso. Mentre lei sembra molto lontana, così come cita il brano («forse in Africa che importa»), lui aspetta di rivederla un’ultima volta. Questo è chiaramente l’inno di chi non si arrende ma ama e brama la propria donna, nonostante lei non sia  lì con lui.

 Cover del cofanetto “Quando” (2017). Fonte: musicaintorno.it

Dai balconi alla rete, buon compleanno Pino

A gran voce, dai balconi delle nostre case, dai social alle radio nelle nostre camere, nonostante l’emergenza Coronavirus, siamo tutti abbracciati in un unico pensiero che ci accompagna proprio lì, a stringerci tra le note di Pino Daniele.

Grazie per la tua musica, buon compleanno.

Annina Monteleone

Viaggio in Italia con la Camerata Musicale Ligure

Giovedì 21 marzo 2019. Aula Magna del Rettorato di Messina. Ospite la “Camerata Musicale Ligure con il loro spettacolo: “Viaggio in Italia”.  Siamo al 7ᵒ appuntamento della stagione concertistica 2019 che comprende una grande varietà di generi musicali. Una brillante idea creata dall’Università per entrare meglio in contatto con la propria città e i propri cittadini. La Camerata Musicale Ligure, costituitasi ad Imperia, nel 1988, presenta oltre 25 anni di sfavillante attività concertistica, invitata da numerose istituzioni italiane ed estere, ha all’attivo centinaia di concerti e decine di brani in programma con un vasto repertorio, dal barocco alla musica leggera.

©LauraLaRosa, (Concerto d’Ateneo), Aula Magna Rettorato, Messina 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un tour tutto all’italiana. Tutti i brani eseguiti riportavano in vita L’Opera, Il Cinema e la Canzone d’autore.

Ouverture da “il barbiere di Siviglia” – G. Rossini, Il valzer del Gattopardo – N. Rota; Il Padrino – N. Rota; Felliniana – N. Rota; Pinocchio – F. Carpi; La vita è bella – N. Piovani; Spaghetti Western Story – E. Morricone; Gente di Mare – F. De André; Medley di Canzoni napoletano – Medley di Canzoni napoletane.

©LauraLaRosa, (Concerto d’Ateneo), Aula Magna Rettorato, Messina 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

©LauraLaRosa, (Concerto d’Ateneo), Aula Magna Rettorato, Messina 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

©LauraLaRosa, (Concerto d’Ateneo), Aula Magna Rettorato, Messina 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sala gremita. Tutto esaurito. Pubblico attento. Si registra così, con gran successo, il sold-out per la 31^ stagione dei concerti dell’ateneo. Sentito l’omaggio a De André, richiesto il bis dalla platea, complice anche il fatto che ricorresse il ventennale della scomparsa.

L’Università vi aspetta per il prossimo appuntamento: giovedì 28 marzo ore 21.00 , Aula Magna del Rettorato. Ospiti: Silvia Martinelli – soprano, Andrea Trovato – pianoforte. Programma previsto: “Da Napoli a Broadway”.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Intervista a CIMINI per la tappa al Perditempo Cafè

Una sorpresa speciale per uno dei locali più avanti musicalmente della provincia di Messina.
Stiamo parlando del PerditempoSito presso l’Ex Pescheria di Barcellona, è attivo ormai da qualche anno e propone con cadenza settimanale musica dal vivo con artisti internazionali.

Domenica abbiamo avuto l’immenso piacere di ascoltare il cantautore CIMINI che con Anime Impazzite è tra i 69 finalisti di Sanremo Giovani 2018. Autore calabrese da anni trasferito a Bologna, è riuscito ad inserirsi nella scena musicale indipendente italiana pubblicando due dischi: L’importanza di chiamarsi Michele (2013) e Pereira (2015).

Dopo una pausa, pubblica il singolo virale La legge di Murphy (2017) e presenta a marzo il suo ultimo album Ancora Meglio. Prodotto da Garrincha dischi è un disco diverso da quelli precedenti con sonorità e stili vicini al panorama indie italiano. Si distingue l’originalità di scrittura dei testi, nei quali racconta la quotidianità e le sue emozioni.

 

Ciao CIMINI, come va?
Sto passando un bel periodo che è iniziato un anno fa con La Legge di Murphy, una canzone che mi ha cambiato la vita. Avevo bisogno di affetto e piano piano questo affetto mi viene ricambiato proprio dal pubblico. Fare un disco, fare canzoni e pubblicarle è un mestiere che mi piace. Avere contatto con le persone, capire, far capire ciò che ho da dire è bello. Ciò mi consente di creare empatia e di farmi sentire uno di voi, tra il pubblico.

Dai primi due album a questo è passato un po‘ di tempo, e anche musicalmente sei cambiato, più vicino alla scena indie italiana. Cosa ti ha portato a fare questa scelta?
Non è stata una scelta di vetrina, sicuramente. Ho sempre scritto canzoni per conto mio, ma ci sono vari motivi per questa scelta. Uno è molto tecnico perché mi sono ritrovato ad arrangiare questo  disco con un nuovo gruppo di lavoro: i ragazzi che suonano con me e Carota degli Stato Sociale. Quindi c’è stata una mano diversa. Rispetto a quello che facevo prima, ho deciso di creare uno stacco perché lo considero un ciclo della mia vita chiuso, che non mi appartiene più.

Il tuo nuovo disco si chiama Ancora meglio.
Sì, è un titolo ironico perché quando lo scrivevo allo stesso tempo vedevo un sacco di gruppi e persone che scrivevano delle canzoni, che si proponevano e cercavano di fare meglio degli altri creando una competizione esagerata. Al pubblico non interessa la concorrenza, ma ascoltare delle canzoni in cui ci si può ritrovare

Vivi a Bologna da un po’ di tempo, com’è lì l’ambiente musicale?
Vivo a Bologna da più di dieci anni. Sono andato in questa città con la scusa di studiare e piano piano ho fatto un sacco di amici che con il tempo sono diventati miei fratelli. Crescendo e conoscendo sempre nuove persone mi sono ritrovato anche nell’ambiente musicale ed è bello perché a Bologna questo ambiente è fatto dai ragazzi dello Stato Sociale, da Calcutta con il quale ci troviamo sempre in giro e da altri ragazzi che fanno gli artisti. 

Si conclude così la serata con un’ottima affluenza di pubblico, il quale si è lasciato trasportare “tra le luci provocate da esplosioni, meteoriti e scie di gas” con le note di Sabato Sera.

 

Marina Fulco

8, il grande ritorno dei Subsonica

Il 12 ottobre è uscito il nuovo album dello storico gruppo italiano rock elettronico i Subsonica.

A distanza di quattro anni dall’uscita del precedente “Una nave nella foresta” e dopo 22 anni di carriera e sette album alle spalle, con 8 i Subsonica ritornano energici e attualissimi sia a livello di tematiche che sound.

Il numero 8 rappresenta non solo il loro ottavo disco ma anche l’infinito, ovvero un cerchio che si chiude per riaprirsi e procedere. E’ quello che rappresenta anche i Subsonica stessi, che dopo una pausa ritornano, cantando “Adesso siamo qui” nella prima traccia intitolata “Jolly Roger”. Traccia che sembra riportarci ai loro inizi, ovvero gli anni ‘90. Momento in cui sono nati e cresciuti, in un ambiente in cui la musica elettronica da underground stava diventando overground, e quindi mainstream. Il gruppo è nato come esperimento di ritmi elettronici, al quale poi sono stati aggiunti dei testi con la voce di Samuel e le parti strumentali del gruppo.

I Subsonica hanno presentato in anteprima il loro nuovo lavoro tramite dark room sparse per diverse città italiane, facendolo ascoltare ad alcuni fan lasciando la tecnologia fuori. E’ stato un modo per riappropriarsi di un momento sacro, ovvero di quando si scartava un vinile e lo si ascoltava in silenzio. Nella loro lunga carriera, nella quale sono usciti i loro dischi migliori basti pensare a Microchip emozionale del ’99 del quale fanno parte Colpo di pistola, Discolabirinto, Tutti i miei sbagli. Contano diverse partecipazioni a Sanremo e premi tra cui l’MTV European Music Awards. Sono riusciti a stare sempre al passo con i tempi mantenendo una loro originalità e stile. 

Dopo l’uscita del loro album nel 2014 decidono di prendersi una pausa, momento in cui sono nati diversi progetti personali solisti e non, decisivi per questo nuovo lavoro nel quale decidono di raccontare di sé e della loro storia. Unica collaborazione musicale del disco è con Willie Peyote, cantautore molto stimato dal gruppo e con il quale vi è una forte sintonia, “L’incubo” infatti risulta forse una delle migliori del disco. Ci si trova davanti l’incertezza sul fare un passo verso l’ignoto necessario per dare vita alle proprie aspirazioni.

Riescono nonostante la leggerezza, ad essere un gruppo che porta avanti temi attuali ed impegnati, restando sempre nelle sottigliezze. Noto nel secondo singolo “Punto Critico”, brano provocatorio nel quale si parla della impreparazione davanti ad un mondo ormai andato avanti fatto di nuove tecnologie e problemi globali. Bottiglie rotte” è stato il loro singolo ufficiale, il quale parla la superficialità e l’incapacità di ascoltare comuni nel mondo di oggi. Le Onde” rappresenta un tributo al loro carissimo amico e maestro di tecniche di registrazione Carlo Rossi, deceduto nel 2015 a seguito di un incidente. Carlo Rossi è stato un riferimento per la musica torinese e italiana. Con “La bontà” i Subsonica chiudono il loro disco con l’interrogativo “A cosa serve la bontà?” lasciandoci senza una risposta chiara, ma che ci fa riflettere.

8 rappresenta un disco che non si è dimenticato del passato ma che ha l’occhio puntato sul presente, sulla realtà che lo circonda ma come ogni altro, proiettato verso il futuro. Riescono a distinguersi e ad essere un gradino più in alto rispetto a molte produzioni italiane, nonostante questo non rappresenti il loro disco migliore. I Subsonica puntano ad essere una luce nell’oscurità, quella che ci fa resistere in un mondo pesante, fatto di notizie strazianti e che vorremmo cancellare. Per questo non bisogna dimenticare la realtà, ma cercare di viverla con leggerezza ed entusiasmo nonostante tutto.

Marina Fulco