Fabri Fibra e l’ultimo album “Fenomeno”

Il rapper, classe 1976, nato a Senigallia il 17 Ottobre,  anche questa volta non ha deluso le aspettative. C’è chi lo ricorda da “Applausi per Fibra” nel lontano 2006, chi invece ha scoperto questo “fenomeno” solo recentemente.

Ebbene oltre ad essere un successo divenuto pure doppio disco di platino, l’album ci racconta fondamentalmente due esperienze che hanno caratterizzato la vita di Fabri Fibra: l’evoluzione del rap negli ultimi 10 anni ed il difficile rapporto con la sua famiglia.

Iniziamo subito evidenziando il fatto che Fabri Fibra ha contribuito pienamente a rendere il rap il fenomeno sociale che è adesso; e con questo album risponde anche a tutti quelli che lo credevano finito. Nella seconda traccia, intitolata “Red Carpet”, parla di come una volta fosse molto più difficile raggiungere una certa importanza nell’industria musicale, specie nel rap. A oggi “tutti fanno il rap” e “sognano il red carpet”. 

Quando Fibra entrò all’Universal si portò con sé il fratellino Nesli, già prima dell’approdo in Major, e furono una fantastica coppia soprannominati come i “Fratelli bandiera.” Tra il 2009  e il 2010 però finirono per litigare per dei problemi legati alla musica e sul come farla.

Fibra, oltre ad essere molto conscious, è un abile provocatore nei suoi brani, cosa che in particolar modo Nesli non ha apprezzato. Così facendo, le strade dei fratelli si sono separate. Fibra ha sempre mantenuto il silenzio in merito alla faccenda ma ecco che in “ Nessun Aiuto “,  sedicesima traccia dell’album Fenomeno, tratta il tema del loro rapporto nel corso degli anni in maniera del tutto inedita e senza veli. Se pensiamo che Fibra non possa essere ancora più storyteller ci sbagliamo di grosso con “Ringrazio”. Oltre ad essere uno dei titoli più azzeccati per un outro, il brano espone come il suo difficilissimo rapporto con la madre abbia influito pesantemente nel carattere del rapper:

“Soffro di claustrofobia appena parlo di mia madre”. “Mi sento solo e ringrazio mia madre, la notte sogno che ammazzo mia madre.”

Di certo Fibra non sarà esente da colpe ma si potrebbe mai arrivare al punto di odiare nostra madre – colei che ci ha dato la vita – fino a volerla vedere dentro una bara?

https://www.youtube.com/watch?v=vVuA_ardoxo&app=desktop

Francesco Lui 

A Star is born

Recentissima l’uscita nelle sale di questo nuovo remake del vecchio “È nata una stella” del 1937. Bradley Cooper è sia attore protagonista che regista, e per questo esordio dietro la macchina da presa ha scelto come sua prima donna la grande Lady Gaga.

La cantante, che qui interpreta Ally, si spoglia dei suoi eccentrici soliti abiti per tornare semplicemente la Germanotta acqua e sapone che ormai avevamo quasi dimenticato. La storia è sempre quella, semplice e lineare, senza troppi colpi di scena.

Jackson, star del rock ormai al tramonto della sua carriera, incontra una sera la timida cantante esordiente Ally, fa in modo che lei riesca a tirare fuori tutto il suo talento e poi da lì è tutta una scalata verso il successo. Successo di lei. Il nostro uomo invece continuerà la sua caduta libera verso l’abisso. Ovviamente il tutto ha un lato molto romantico, per il rapporto speciale che si creerà tra i due, con contorno di alcool, droga e depressione.

Niente di nuovo insomma. Classici elementi che ritroviamo in qualunque melodramma americano. Nonostante tutto, il film riesce comunque a stupire. Tutto questo è facilmente spiegabile: a catturare totalmente l’attenzione non è la storia, bensì l’interpretazione degli attori.

Che Cooper fosse un attore di qualità era ben risaputo e qui riconferma il suo talento. Una rivelazione è stata invece la pop star, che al suo esordio da protagonista ha lasciato tutti di stucco. Ottima interpretazione, forte e potente che cattura fin dalle prime scene, il ruolo sembra esserle stato cucito addosso. La complicità tra la coppia di attori è palese, ed è anche per questo se l’attenzione si sposta dalla classica storia che è alla base a quella che lega i due. Dunque, un film non eccelso ma bello, ricordiamo che è il primo esordio da regista di Cooper, che supera comunque la prova.

 

Benedetta Sisinni

Solidarietà e arte si fondono in un tripudio di bellezza grazie allo spettacolo teatrale “Otto storie di giornalisti eroi”

Molteplici forme d’arte si sono coniugate sabato 22 settembre presso il Salone della Borsa della Camera di Commercio di Messina, in occasione della messa in scena dello spettacolo “Otto storie di giornalisti eroi”. Si tratta del quarto appuntamento con DONARtE per NeMO SUD, iniziativa che prevede una serie di eventi di scopo benefico volti alla raccolta fondi per il Centro Clinico NeMO SUD gestito dalla Fondazione Aurora Onlus, ente senza scopo di lucro a sostegno dei pazienti del Policlinico di Messina affetti da malattie neuromuscolari. Molto significativi sono stati gli applausi e i consensi del pubblico chiamato a raccolta in questa manifestazione, a dimostrazione di come l’arte sia un dono e che metterla a disposizione degli altri ha il potere di innescare bellezza, emozione, riflessione e impegno civico.

Uno spettacolo che può definirsi completo, all’insegna di varie espressioni artistiche: le note musicali del sassofonista Flavio Cometa e le coreografie della ballerina Claudia Bertuccelli hanno accompagnato e intervallato le interpretazioni teatrali degli attori Alessio Pettinato e Antonio Gullo. I testi di Alessio Caspanello, fondatore e direttore di Lettera Emme, sono stati sapientemente curati dal regista Vincenzo Tripodo, che ha eccezionalmente rivestito anche i panni di attore nel monologo che ha aperto lo spettacolo. Come una voce fuori campo, dall’alto di una balconata del salone della Camera di Commercio, avvia la narrazione in medias res, interrogandosi e interrogandoci su chi siano gli eroi e sul loro ruolo. Abituati a uno stereotipo di supereroe che salva vite, che indossa travestimenti per non farsi riconoscere e che volteggia per i grattacieli delle megalopoli, potrebbe risultare insolito il connubio giornalista-eroe.

Eppure, come recitano le parole di Caspanello, i veri eroi forse non portano medaglie e non innalzano coppe. Sono uomini comuni che compiono ogni giorno il proprio dovere “in un tempo in cui chiunque crede di avere solo diritti, lavorando con dignità e onestà, senza scendere a compromessi, senza scorciatoie o espedienti”. Sono persone che hanno avuto il coraggio di vivere in funzione di nobili valori e di retta condotta, credendoci fermamente e scegliendo, con competenza e perseveranza, di dedicare la loro professione alla ricerca della verità, senza lasciarsi sopraffare dalla paura e impedendo che quest’ultima potesse ostacolare il cammino intrapreso. “Perché proprio i giornalisti dovrebbero essere considerati eroi?” Perché sono consapevoli che penna e taccuino, gli strumenti principali che da sempre danno libera voce ai loro pensieri e alle loro parole, potrebbero essere usati contro di loro. La scrittura viene tramutata in crimine e rende questi eroi mortali, che vengono strappati al mondo così come i pezzi di un foglio di carta cadono, come viene metaforicamente mostrato in scena.

Dal monologo si passa al dialogo tra i due personaggi (Pettinato e Gullo). Il primo comincia a parlare di otto giornalisti (Pippo Fava, Mauro De Mauro, Cosimo Cristina, Giovanni Spampinato, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Beppe Alfano), che hanno pagato con la morte il prezzo delle loro scelte, “scegliendo di non voltarsi”, di non tacere, di osservare, analizzare e raccontare con sguardo obiettivo e critico la realtà malavitosa che incombeva nei loro contesti. Lo spettatore ha l’opportunità di rivivere le loro storie attraverso alcuni resoconti dettagliati di informazioni, documentati anche dalla proiezione di immagini di articoli scritti sulle loro scomparse e targhe a loro dedicate. Se da un lato, Pettinato rappresenta un prototipo di cittadinanza attiva, impegnata, di chi prende posizione e denuncia i cancri della società, dall’altro, Gullo, incarna il tipico individuo ignavo, portatore di un’indifferenza che a tratti risulta peggiore di chi ha perpetrato la violenza, che “non vede, non sente, non parla, non sa”, e che prima nega l’esistenza della mafia per poi affermare che “ormai bisogna conviverci”. I due personaggi sono emblema di una società spaccata in due, tra chi persegue la verità coerentemente al proprio agire, e chi paradossalmente sfoglia le pagine dei quotidiani, ma poi con omertà si rifiuta di vedere e di capire.

Mauro Rostagno, sociologo ucciso dalla mafia, ha dichiarato: “Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto”. Avere un impatto sulla società è infatti uno dei fili conduttori dell’evento, e i Giovani Imprenditori di Sicindustria Messina hanno colto fin da subito questo aspetto, e quindi deciso di contribuire a promuoverlo e organizzarlo. Sveva Arcovito – presidente dei Giovani Imprenditori – ha ringraziato la fautrice del progetto, Letizia Bucalo Vita, responsabile comunicazione, marketing e fundraising di NeMO Sud, perché il centro clinico si è confermato ancora una volta “coltivatore di sviluppo socio culturale, riuscendo a creare legami simbiotici nel territorio orientati verso l’obiettivo comune di riscoprirne e restituirne il valore”. Lo spettacolo infatti ha trasmesso, a questo proposito, un messaggio prorompente e di straordinaria attualità, ricordando che l’operato di questi giornalisti-eroi non sarà mai reso vano e le loro idee non saranno mai spezzate, fino a quando ci saranno i posteri che seguiranno le loro orme e il loro modello, tramutando penna e taccuino nelle uniche e più potenti armi di cui ci si possa servire per raccontare la verità.

Giusy Boccalatte

Tra concerti in spiaggia e secret artist: il live report di Indiegeno

Da alcuni anni la distribuzione dei festival di musica attorno ai piccoli centri sta assumendo sempre più dimensione capillare: a una ricerca volta verso le ultime release discografiche si va associando l’attrattiva dei borghi e delle località che pulsano di energia nei luoghi più belli sulla spiaggia. In Sicilia, già solcata da Ortigia Sound System, Ypsigrock e Mish Mash, per dire solo di quelli più noti, è asceso agli onori un festival che costituisce un’esperienza irripetibile a più livelli.

Un tuffo in acqua a Patti, un’escursione tra antiche ville romane e un giro in pedalò fino a nuotare tra le gole di antiche rocce dalle forme di bizzarri mostri marini: Indiegeno è stato il punto di raccolta per sfaccettate immersioni sensoriali, caleidoscopio di suggestioni accese dove la musica ha fatto da  sostegno sonoro a scorpacciate di granite e brioche.

Poco lontano dal centro di Patti, dove tutto è iniziato il 3 agosto, nel suo lungomare il 6 e 7, giovani e giovanissimi con berretti dalla visiera capovolta, scarpe da tennis o infradito, hanno in tantissimi affollato la spiaggia – che è stata opportunamente racchiusa in modo da evitare incursioni “piratesche” – per seguire i concerti. La prima serata ha avuto protagonista rap e derivati. CRLN si è presentata con timidezza, ma è arrivata a trascinare, con un pop dalle tinte soul, un pubblico non facile che  aspettava con trepidazione l’esibizione del suo idolo. A scaldare l’attesa ha provveduto il djset del duo Frenetik&orange3 che ha proposto un vasto repertorio molto amato dai presenti, che sembrava ne conoscessero pressoché ogni canzone. L’apice degli entusiasmi è stato toccato da Gemitaiz, stella in ascesa della trap, che ha coinvolto gli spettatori con testi aggressivi che parlano di vita di strada. Il giorno seguente è stato inaugurato da Giorgieness e da un rock alternative vagamente anni ’90 sostenuto da un solido trio chitarra, basso e batteria e dalla voce graffiante di Giorgia D’Eraclea. Thom Calisto e Fabio Scap hanno proseguito la serata con un djset abbastanza originale che ha toccato il punto massimo nel remix della famosa I fell love di Giorgio Moroder. Per ultimo l’headliner Cosmo ha inscenato la sua doppia personalità: quella da cantautore e quella, diciamo così, da raver. Più interessante nella prima, quando abbina con successo testi indie e musica elettronica, più ripetitivo nelle parti dichiaratamente dance che raramente si discostano dalla usuale cassa dritta. Lo show comunque è stato un grande spettacolo, specie dal punto di vista visivo, grazie ai particolari effetti luminosi tridimensionali a base di lampi, fumi e laser. 

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Mish Mash Festival: aprono le porte del castello di Milazzo

Dal 2 al 4 agosto al via una nuova edizione del festival: nella line up, tra gli altri, Selton, Populous, Galeffi e Indian Wells

Se questa ondata di caldo rende piatte le lunghe giornate ad agosto, non disperate: la splendida cittadella fortificata dell’area del Castello di Milazzo, per un’altra estate, è pronta ad accogliere una nuova edizione del Mish Mash, giunto al suo terzo anno. Tre giorni (il primo giovedì, 2 agosto, ospiterà il Welcome Day) dedicati alle esibizioni all’interno dell’antico maniero normanno e a molteplici installazioni artistiche.

In programma un’ampia escursione tra generi, stili e principali tendenze nella attuale musica elettronica, alternative, rock, pop e hip-pop. “Mish Mash”, che vuol dire proprio “miscuglio”, è nato dalla sinergia di realtà giovanili che operano da anni nella provincia di Messina. I numeri del 2017, grazie alla line up e alle partnership, hanno mostrato un aumento di pubblico, proveniente, per buona parte, fuori dalla Sicilia.

Ed è questa scia “internazionale”, insieme alla qualità del Festival, una delle realtà più suggestive in Italia, merito anche dell’eccezionale scenario storico e naturale sul mare, ad avere accompagnato la preview del 19 maggio scorso a Bologna al TPO con i concerti di Be a Bear, ≈ Belize ≈, Dargen D’Amico e altri artisti. Arrivata dopo alcuni live invernali al Retronoveau, l’esibizione del 25 luglio al Perditempo della band palermitana I Giocattoli, ha rappresentato il primo effettivo anticipo dell’edizione di quest’anno.

L‘anno prima abbiamo visto, sul Main stage, di fronte l’ex Monastero, accompagnati dal visual mapping proiettato sulla facciata a cura di Aurelio Calamuneri e Giovanni Scolaro, Giorgio Poi e Gazzelle, musicisti come Colombre, Clap! Clap! e Jolly Mare e i gruppi Carl Brave e x Franco126, Veivecura, Canova e Camillas. Mentre l’Island Stage è stato calcato da Filippo Zironi e Andrea Normanno.

Nel 2018 attese tante novità. Al pubblico verrà data la possibilità di accedere a delle zone del Castello non utilizzate fino a un anno fa. Al momento dell’inaugurazione, il 2 agosto, presso il Duomo Antico, sarà presentata l’art exhibition di Giuseppe la Spada, Fluctus, che simboleggia l’inquinamento dei nostri mari. Il Welcome Day, ad ingresso gratuito, accenderà la terza edizione insieme a RadioStreet, LeVacanze, Ylyne, Safarà e Resolution. Ulteriori installazioni artistiche verranno presentate nei giorni successivi.

Venerdì 3 e sabato 4 si entrerà nel vivo dell’evento estivo: il piazzale dell’ex Monastero delle Benedettine per due giorni accoglierà i Sound Butik, un collettivo formato da djs palermitani che infiammeranno gli aperitivi al tramonto con un sound che intreccia house, techno e soul. Nello stesso luogo Dischirotti allestirà una mostra con 12 copertine selezionate tra gli artisti che hanno partecipato alle scorse edizioni. A completare l’offerta ci sarà Alessio Barchitta nel Bastione di Santa Maria e i visual di QBO.

Ma è la musica il fiore all’occhiello. Una line up che spazia, come poche altre, tra le uscite più fresche in campo discografico. Reduce dal Primo Maggio romano, il 3 agosto sul palco principale, alle 22, ci sarà Galeffi. Dopo il cantautore è il turno di Coma Cose, duo di Milano, che mette insieme cultura hip pop ed estetica urban pop. A mezzanotte è attesa Myss Keta, rapper alla guida de “le ragazze di Porta Venezia”, eccessiva e dissacrante, mentre toccherà a Populous il compito di chiudere la prima giornata del Festival.

Il 4 agosto la magia si ripete: Francesco De Leo de L’officina della Camomilla aprirà la seconda giornata con le sue atmosfere lisergiche cantautoriali. Il pop italo-brasiliano troverà espressione nei Selton di tappa a Milazzo per presentare Manifesto Tropicale, dopo la collaborazione con Dente. Francesco Servidei, bresciano, alias Frah Quintale invece porterà sul palco il suo progetto solista. Il live set di Indian Wells, producer lucano, infine si prolungherà fino a tarda notte con una miscela melodica di musica elettronica.

Noi di UniVersoMe saremo presenti a Milazzo! Voi che cosa aspettate? Continuate a dare un’occhiata alla nostra pagina per seguire l’evento attraverso le foto e le dirette social. Per chi, ancora, non avesse fatto l’abbonamento, i biglietti saranno disponibili a partire dal 2 agosto (ore 18:30) al botteghino del Castello.

Eulalia Cambria

Sputnik: Luca Carboni incontra la generazione itpop

Il mondo aspetta una grande festa/ una bomba nucleare./ E noi che ce ne andiamo al mare/ ce ne andiamo al mare

Una navicella spaziale orbita su un pianeta terra occupato da icone pop e dinosauri. L’estate della riviera romagnola si trasferisce in un villaggio vacanze lunare tra ombrelloni, sedie a sdraio, tintarelle ai raggi x e alienazione. La copertina dell’ultima uscita discografica di Luca Carboni (che lui stesso ha disegnato), Sputnik, riproduce le dissonanze contenute nelle nove tracce dell’album. L’immagine rimanda a quella di un LP dei Supertramp del 1975, Crisis? What Crisis?, in cui un ombrellone piantato sul terreno di un paesaggio industriale, nei fumi delle fabbriche, stacca con ironia il piano da una prospettiva edonistica di “grande festa”. Allo stesso modo, in uno spazio di bombe-pop e ristagnanti umori post apocalittici, si apre il disco del cantautore bolognese. Il tema di una giostra perenne e divertimento da cogliere a tutti i costi è cifra caratterizzante di quest’epoca lontana da porti sicuri e incerta sul presente. L’incontro tra il nuovo cantautorato “indie” e il cantore di malinconie anni ’80-‘90 fa di Sputnik un disco che ha l’occhio rivolto all’oggi: la partenza, i figli, l’amore digitale. Ma c’è anche un legame stretto con quel linguaggio che ha attratto le nuove schiere di musicisti che hanno riconosciuto in Luca Carboni l’artista a cui più di tutti gli altri accostarsi.

L’album si presenta quindi come un esperimento collettivo, risultato dalla confluenza di voci diverse del panorama itpop.  Uscito a distanza di tre anni dal precedente Pop Up (2015) e prodotto da Michele Canova Iorfida (che ha collaborato all’intera discografia di Tiziano Ferro, circostanza che emerge qua e là in diversi momenti). Alla stesura dei brani, insieme a Carboni, hanno preso parte Calcutta (Io non voglio), Flavio Pardini, in arte Gazzelle (L’alba), Giorgio Poi (Prima di partire). Ancora più del predecessore, Sputnik va in direzione di un’elettronica trascinante e ballabile che utilizza synth e tastiere. Il titolo è tratto dal nome del satellite russo a forma di CD Sputnik 1 lanciato nel 1957: “sono cresciuto durante la guerra fredda”, ha dichiarato il cantautore, “lo sputnik aveva una forma affascinate. E Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio, diceva che la terra vista da lassù era bellissima. Questo disco è la mia vista dall’alto”.  La freschezza della trama sonora è però toccata nei testi da un senso di decisa difficoltà esistenziale.

Lo sguardo è rivolto alla new wave anni ’80 in un’operazione che strizza l’occhio al tormentone estivo con atteggiamento canzonatorio e aperto insieme al nuovo. Luca Carboni, nel suo tredicesimo album in studio, fa a meno degli strumenti privilegiando suoni campionati. La vivace atmosfera di festa godereccia, come risulta dal singolo pubblicato in anteprima, Una grande festa, attraversa punte di malinconia, “parlare della sfiga proprio non si può/ il dolore e l’ingiustizia non brillano neanche un po’”. Alla esplosiva traccia di apertura segue, 2, inno della vita di coppia, con le sue gioie, ma anche coi suoi momenti di dolore “mi dai capricci e miracoli/ mi dai l’amore a modo tuo”. In amore digitale, scritta insieme ad Alessandro Raina, è l’antenna del wi-fi a stemperare la solitudine, “l’amore c’è ma non si vede/ è più veloce”. Tra i pezzi più riusciti del disco Ogni cosa che tu guardi ha una linea melodica pop che si riveste di un refrain corale. I ricordi del muro e di Alexanderplatz (celebri quelli cantati dall’amico Franco Battiato, con cui Carboni ha inciso qualche anno fa una cover di Silvia lo sai) affiorano ne I film d’amore. Di impatto electro L’alba affronta il tema dei figli che viaggiano per cercare un futuro migliore: “ e vanno giù e tornano giù tra le password e i segreti”. La title track posta alla fine del disco recupera pacatezza e tono confidenziale, prolungandosi per 4 minuti di soffusa e intima confessione. Sputnik si muove così a metà strada tra la piena maturazione autoriale e l’avvicinamento a un universo composto di nuovi elementi: l’astronave che sorvola uno spazio pieno di contraddizioni porta a bordo chi negli anni ’80 era appena nato o doveva ancora nascere. E Carboni ancora ci ricorda, con un lavoro che convince, lieve ma riflessivo al contempo, che “gli esseri umani sono tristi per natura, ma il pop è qui per dimostrarci che non è poi così dura” (Una grande festa).

Eulalia Cambria

LOS ANGELES: wild dream city

 

Una guida per visitare in 7 giorni la grande metropoli californiana capitale della musica rock, del surf, della giovinezza e dei sogni di celluloide

 

Molti italiani non amano particolarmente Los Angeles. Il suo tessuto urbano ha mille facce ed è un coacervo di entità inconciliabili: dalle ville di lusso sparpagliate come castelli sulle colline di Beverly alla massiccia presenza di homeless un po’ ovunque.

In effetti più che una singola città L.A è un conglomerato composto da molti quartieri, o meglio ancora, distretti a sé stanti. Dorothy Parker ha definito Los Angeles: “72 sobborghi in cerca di una città”. Il prolema è che se siamo abituati, perché viviamo in uno stato che detiene uno dei più alti numeri di siti patrimonio UNESCO, a toccare la storia con mano e a porci in relazione materiale ed epidermica con il monumentum, a Los Angeles questo non funzionerà. Tra le architetture più “antiche” c’è un edificio a Downtown del 1818, Avilla Adobe, sorto nei pressi dell’insediemento di fine ‘700.

Parlando del fascino di Los Angeles lo scrittore e giornalista, Mario Fortunato, in un articolo sull’Espresso ha scritto:

Invece di trovare la vera America, a Los Angeles trovai l’Europa. Non so se vera o falsa, ma di sicuro abbagliante e in definitiva ignota, come un’immagine allo specchio (…) La sua stessa idea di lusso ed eleganza sembra facilmente riproducibile, e di essa si scorge, a ben guardare, l’assoluta fragilità. Non sarà un caso che l’industria primaria del luogo sia l’industria dell’apparenza, cioè il cinema. (…) Gli studios inseguono un’idea astratta del mondo. Visitandoli, ho provato la stessa sensazione avuta camminando nel centro di Noto, in Sicilia, o in certe piazze umbre: la sensazione di muovermi in uno spazio squisitamente mentale. (…) ciò che viene cercato, inseguito e indovinato è uno spazio creato dalla mente: un’esperienza del tutto immateriale”.

Dopo la fondazione, per opera dei missionari francescani spagnoli, il nome per esteso era El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles del Rio de la Porciúncula de Asís (Il villaggio di santa Maria degli Angeli della Porziuncola di Assisi). E’ curioso notare come una città nata sotto il segno del Poverello di Assisi sia una delle prime economie al mondo, nonché stella polare dell’effimero e del lusso.

In questo articolo proveremo a tracciare un programma di viaggio per visitare L.A, in una settimana o poco più, spostandoci nei luoghi di interesse con la metro, con Uber oppure Lyft, evitando di cedere all’attrattiva di salire su un pullman per turisti, cogliendo il più possibile le suggestioni e le impressioni che offre l’immensa e radiosa wild city affacciata sull’oceano Pacifico. 

1)      Hollywood

Per un visitatore che arriva a Los Angeles per la prima volta la tappa iniziale sarà con molta probabilità Hollywood Boulevard. Il distretto di Hollywood, divenuto centro dell’industria cinematografica americana a partire almeno dagli anni ’20 del secolo scorso, è sede dei più importanti teatri dove vengono proposte attualmente le prime di molti film. All’interno dei suoi studios (come la Paramount e l’Universal) nacque il cinema classico hollywoodiano, corrispondente all’età d’oro del cinema statunitense. La strada che attraversa Hollywood da est ad ovest tra La Brea Avenue e Gower Street è la famosa Walk of fame. Lungo questo tratto, animato da uomini mascherati da personaggi dei film, si trovano incastonate nel pavimento oltre 2400 stelle con i nomi delle personalità più rilevanti del mondo del cinema, della musica e della tv. Passeggiando si incontrano tempi del cinema come l’Egyptian e El capital (attualmente di proprietà della Walt Disney Company). Non manca, naturalmente, nelle vicinanze, il museo delle cere, l’Hollywood Wax, in concorrenza, pochi metri più avanti, con la versione hollywoodiana di Madame Tussauds. Più interessante è sicuramente l’Hollywood Museum che contiene, disposta su diversi piani, una collezione di vestiti di scena, oggetti usati sui set e vecchie macchine da presa. Tra questi cimeli si possono trovare gli occhiali di Harry Potter, i costumi di Baywatch, gli indumenti di Marilyn Monroe, l’auto di Batman, gli abiti del primo Pianeta della scimmie e di Star Trek, la ricostruzione della sala trucco delle vip anni ’40-’50 e molto altro. Tappa da non perdere è ovviamente il Dolby Theatre situato all’interno del complesso Hollywood & Highland Center. Nel teatro si svolge ogni anno la cerimonia di assegnazione degli Oscar. E’ possibile entrare in visita grazie ai tour che si tengono ogni mezz’ora. Nella piazza centrare del complesso, che ricorda l’ambientazione babilonese del film muto 1916, Intollerance, è collocato il portale attraverso il quale è visibile la scritta Hollywood sulle colline attorno alla città. Procedendo  lungo la stessa strada non si potrà non sostare al Grauman’s Chinese Theatre, fastoso teatro in stile orientale, di fronte al quale è disposta nella pavimentazione una cospicua raccolta di impronte di mani e piedi delle star. Attrazione non meno rinomata è il Roosevelt Hotel, reso famoso da uno scatto di Marilyn Monroe sul trampolino della piscina. Gli amanti della musica non potranno invece fare a meno di osservare all’esterno uno dei eccezionali luoghi simbolo dell’industria musicale, il palazzo sede della Capitol Records, una torre di 13 piani costruita imitando la forma di una pila di dischi come quelle dei juke box anni ‘50. L’hollywood Boulevard riserva inoltre una scoperta sorprendente. Infatti l’Hard rock cafe contiene una quantità di relique musicali da fare girare la testa: dalla chitarra di Carl Wilson dei Beach Boys, alla giacca di Cass Elliot dei Mamas&Papas, dagli autografi originali dei testi del cantante dei Doors, un rullante di Ringo Starr, la chitarra di Iggy Pop, la batteria dei Metallica, il vestito di Snoopy Dog, il cappelo di Michael Jackson fino ai pantaloni di Jim Morrison (che leggenda vuole non avesse mai lavato per anni).  La vicina Sunset Boulevard è un’altra mecca per gli appassionati. Tra le luminose e folgoranti insegne, che danno il meglio nelle ore notturne, in cui sfrecciano auto di lusso, si trovano librerie dedicate al mondo del cinema e del teatro e negozi dove è possibile trovare tutto il meglio (o quasi) della strumentazione musicale. Di fronte al Guitar Center si può osservare una riproduzione simile alle impronte del Chinese theatre, dedicata però a gruppi e musicisti. I locali storici del rock Roxy Theatre e Whisky a Go Go sono nella stessa strada. Chi ama spulciare dischi, vinili e dvd non potrà fare a meno di passare qualche ora da Amoeba, gigantesco store che ospita chicche musicali e album, generalmente, a buon prezzo. A proposito di shopping, consiglio di fermarsi a dare un’occhiata al Larry Edmunds Bookshop, negozio specializzato sul cinema dove è possibile trovare libri, poster e persino una copia della sceneggiatura del proprio film preferito.

2)      West Hollywood

Il quartiere di West Hollywood è il luogo ideale per passeggiare in mezzo ai caffè, ai ristoranti e ai negozi di abbigliamento, fermandosi a fare un aperitivo nella centrale Sunset Plaza che nel suo profilo architettonico ricorda una città europea come Montecarlo. Le sue villette eleganti, abitate da gente benestante, sono un assaggio delle ville regali di Beverly Hills. Nei paraggi si può camminare lungo i viali di Melrose Avenue, resa celebre dal telefim, dove ci si può anche fermare a curiosare in mezzo a negozi di tutti i tipi. Nella stessa strada è possibile fare una visita agli studios della Paramount Pictures. Chi insegue le tracce della storia della musica potrà invece fare rotta verso l’Alta Ciniega Motel e entrare e scattare qualche foto, per 20 dollari, nella camera dove il leader dei Doors, Jim Morrison, ha alloggiato per alcuni anni. Nei paraggi si trova inoltre il Pacific Design Center, un grande edificio che ospita, tra le altre cose, una sezione del Museum of Contemporary Art.

3)      Beverly Hills

Insieme a Bel Air, Los Feliz e la zona di Mulholland Drive, il quartiere è famoso per essere l’area di Los Angeles preferita dalle celebrità. La sua strada principale è Rodeo Dr, viale colmo di boutique e vetrine griffate. Nei suoi paraggi si trovano le ville a schiera abitate da famiglie altolocate e personaggi del mondo dello spettacolo. Concessionari Ferrari, negozi di alta moda e ristoranti di lusso sono di casa da queste parti. Oltre a una passeggiata nella zona si può fare un salto al Paley Center for Media, museo dedicato alla radiofonia e alla TV.

4)     Santa Monica Mountains

Per godere una delle viste più belle e mozzafiato sulla città di Los Angeles, l’ideale è andare sulle colline che sovrastano Hollywood al tramonto o nelle ore notturne. Qui, specialmente nei pressi di Mulholland Drive (se siete a caccia di star ne troverete molte da queste parti), e nei dintorni del Griffth Park, si respira finalmente un’aria immersa nel verde. Oltre alle stelle del cinema e della musica, il luogo è una tappa da non perdere per raggiungere un altro tipo di stelle, quelle del cielo, grazie ai telescopi del Griffth Observatory. Il maestoso edificio regala una visuale eccezionale dall’alto sulla città di Los Angeles. Al suo interno si trovano un planetario e alcune interessanti installazioni. Sulla collina, in una zona non troppo distante (ma le distante a L.A, anche quelle brevi, prevedono il ricorso a Uber!) ci sono gli Universal Studios. Chi ha intenzione di visitarli dovrà prevedere di spendere almeno mezza giornata per avere una panoramica sui set e le maggiori attrazioni. Gli appassionati della camminata tra la natura potranno invece raggiungere a piedi l’Hollywood Sign.

5)      Exposition Park

Le famiglie, i bambini, ma anche gli appassionati di astronomia e scienze naturali, potranno prevedere una tappa di mezza giornata a Exposition Park. Sede dei giochi olimpici del 1984, nell’area trovano posto numerosi musei. Se avete un po’ di tempo a disposizione vale la pena visitare soprattutto il California Science Center, dove oltre alle stelle marine, le navicelle spaziali e gli animali esotici, si trova una sala che conserva lo Space Shuttle della NASA, famoso per le sue missioni intorno alla terra.

6)      Downtown

Los Angeles non è soltanto palme e costruzioni basse, il suo nucleo storico anzi si trova proprio qui a Downtown, all’ombra di enormi grattacieli. La zona è molto estesa ed è a sua volta suddivisibile in vari quartieri, raggiungibile grazie alle fermate della metro. Può essere ripartita in almeno 4 aree: Chinatown, abitata da circa 15.000 asiatici,  Little Tokio, disseminata da vari musei e grattacieli (dove si possono trovare anche dei meravigliosi giardini zen), un’area che corrisponde grosso modo al centro storico in cui trovano posto l’Union Station (la principale stazione ferroviaria di Los Angeles), El Pueblo de Los Angeles, quartiere dove sono presenti palazzi storici della città, City Hall, edificio di 27 piani a forma piramidale, sede del municipio, la Cattedrale (costruita nel 2002), i futuristici edifici del Music Center e della Walt Disney concert Hall e, infine, la strada di Broadway, principale arteria del centro storico. L’ultima area, quella della finanza, ha il fulcro a California Plaza, che si raggiunge attraverso una pittoresca funicolare costruita nel 1901. Nel quartiere si trova la Los Angeles Central Library, il Westin Bonaventura Hotel, l’albergo più famoso della città, un grattacielo lussuoso con ascensori a vista, utilizzato per le riprese di numerosi film. Attrazioni imperdibili sono il MOCA (museo di arte contemporanea) che contiene opere di Mark Rothko e Andy Warhol e una  visita al 70 esimo piano del U.S Bank dove si può ammirare una vista a perdita d’occhio.

7)      Venice Beach e Santa Monica

La costa di Los Angeles meriterebbe una trattazione più dettagliata. Il litorale della metropoli californiana è  un susseguirsi di piccole città e borghi: da Pacific Palisades, Malibu, Marina del Rey, fino a South Bay e Long Beach. Non è possibile, in una vacanza di pochi giorni, farsi un’idea completa del suo immenso lungo mare. Si può scegliere di dormire qualche notte solo in alcune delle località. Per fare una capatina a Malibu, nelle sue belle spiagge limitrofe alle ville delle celebrità e poi una sosta a Huntington beach o Surfrider per osservare i surfisti che cavalcano le onde, una passeggiata tra le imbarcazioni del porto di Marina del Rey o una visita alla Queen Mary di Long Beach e all’ acquario, nella stessa giornata, servirebbe il teletrasporto! Una soluzione può essere quella di andare a cogliere i colori, gli eccessi e le stranezze  di Venice Beach, tratto carico di good vibration. Chiunque passeggi o noleggi una bicicletta in questo tratto di mare, in un pomeriggio di sole, non potrà fare a meno di sorridere. L’Ocean front walk è il regno degli artisti di strada, dei ragazzi sugli skate e sui rollebrade, della vita da spiaggia della California. Se poi le batterie sono ancora cariche si può decidere di camminare fino a Santa Monica e lì vedere il famoso molo con la ruota panoramica piena di luci e il tratto dove finisce la route66. 

   

Writer e Ph:  Eulalia Cambria

Thanks to Saverio Paiella

La fine del divario tra indie mainstream. Un’analisi della trap


Chiunque si trovi in una precisa fase della vita, in cui la smania di correre dietro a proposte musicali distanti da quelle coltivate fino ad oggi nel proprio orticello, a meno che non lo faccia per mestiere, ha la peggio su anni di memorie sonore accumulate tra le pile di compact disc rovinati, si troverà in seria difficoltà a maneggiare una materia come questa. Ammettiamo pure che tra i 25 e i 30 anni può dirsi forse quasi avviato al termine anche l’ultimo, sfavillante, stadio della post-adolescenza, per cui approcciare un fenomeno di massa relativamente nuovo, almeno qui in Italia, come la trap, subendo condizionamenti e pregiudizi di sorta, è un rischio palpabile.

Ho passato, ad essere sincera, gli anni della mia giovinezza sui banchi di scuola inseguendo l’idea romantica di accostarmi alla musica senza prescindere da tutto quello che avesse a che fare una mia personale visione delle cose, a costo di non essere bene aggiornata su cosa andava di moda in quel momento e non avere una percezione chiara di quello che accadeva intorno una volta messo via dallo stereo un album come Odessey and Oracle degli Zombies del ’68. A questo punto vi sarete chiesti perché in questo primo editoriale, considerato il divario dai miei ascolti consueti, abbia voluto toccare proprio il tema della musica trap. Quello che fin da subito vale la pena osservare è, in barba alle premesse, la notevole capacità che ha il fenomeno di fungere da collante tra individui appartenenti a generazioni diverse. Non è (soltanto) il mondo degli adolescenti a subire l’onda d’urto, ma anche il pubblico dei trenta-quarantenni, una fetta dei quali continua imperterrito ad affollare i concerti indie.  

Le esperienze della dura vita di strada, lo stato di malessere e di miseria, la criminalità e soprattutto lo spaccio di sostanze stupefacenti sono i temi preminenti contenuti nei testi di questo genere costola del southern hip pop, nato ad Atlanta, negli Stati Uniti, intorno agli anni ’90. Trap house era il nome degli ambienti collocati in alcuni sobborghi dove veniva preparata e poi venduta la droga. In origine il fenomeno ha una connotazione socio-culturale, e solo successivamente si collega a un fermento musicale, nella cui scena spiccano tra gli altri i nomi di Gucci Mane, T.I (che nel 2003 ha fatto uscire l’album Trap Muzik) e Young Jeezy. Non sono mancate nell’ultimo decennio le influenze anche sulla musica pop come in alcune canzoni di Lady Gaga e Lana Del Rey.

L’esplosione in Europa e in Italia arriva dopo il 2011, diventando nel bel paese un fenomeno di successo a partire dal 2016, quando la diffusione dei brani inizia ad assumere proporzioni virali. Ad animare la scena è il produttore Charlie Charles, nella cui orbita gravitano Ghali e Sfera Ebbasta, vincitori di premi e insospettabili conquistatori di vertiginose vette di popolarità. Da questo punto di vista non ci sono dubbi che si sia modificata la fruizione: i dischi sono quasi scomparsi dai tradizionali canali di vendita per essere sostituiti dalle applicazioni di streaming e dall’ascolto su YouTube.

La scena trap si muove in larga parte in un sottobosco, raramente frequentato dai media (nonostante l’ospitata di Ghali da Fabio Fazio) che si nutre di visualizzazioni e follower. La prima caratteristica che balza all’orecchio dell’ascoltatore è il massiccio uso dell’effetto detto “autotune” su tutti i cantati. Per i non addetti ai lavori, si tratta di software creati per correggere eventuali problemi di intonazione vocale. Se la stonatura da correggere è particolarmente pesante si creano degli artefatti che danno al cantato un suono un po’ robotico e balbuziente. Questo che in origine era un difetto da evitare è stato a volte ricercato di proposito (tutti ricordano il famoso ritornello della hit “Believe” di Cher del 1998). Mediamente le basi non presentano una particolare originalità rispetto alle classiche basi rap: se dovessimo trovarvi qualche particolarità potremmo accennare alle velocità leggermente più lente, ai bassi sintetici molto profondi, ai terzinati percussivi e poco altro. Spesso sono affidate a sapienti produttori piuttosto che alla stesse trap-star che si limitano a cantarci sopra i loro testi.

Avevamo pensato che si sarebbe potuto chiamare Trapstar, ma ci sembrava una roba troppo riduttiva. I nuovi trapper sono le nuove rockstar”

https://www.youtube.com/watch?reload=9&v=hReKGfeAtfM

Il principale punto a favore che li rende appetibili presso un pubblico stratificato è la qualità delle registrazioni in termini audio e la cura con cui sono realizzati i videoclip. Negli ultimi tempi la contraddittorietà che è insita a tutto il circuito dell’ indie italiano con il suo mix labile fatto di pretesa di originalità, testi di quotidiana estemporaneità e ritornello facile, li ha resi  i portavoce, in alcuni casi, di un prodotto vicino alla stessa scena, tanto che Calcutta ha voluto il rapper Rkomi per aprire i suoi concerti. Ma come si sa, in questi casi, se si considera ad esempio la presenza di una artista come Francesca Michielin proprio in questi giorni al MI AMI, si tratta di pure etichette vuote di contenuto. Il concertone del primo maggio, che quest’anno è riuscito a svecchiare la sua proposta, d’altra parte, è indice della confusione e della mescolanza che avviluppa il cosiddetto alternative, portando sullo stesso palco, rivolti a un medesimo pubblico, fenomeni trap e cantautori indie. Punta dell’iceberg, accanto al misterioso Liberato, è uno strano personaggio, Young Signorino, autore di testi dadaisti e apparentemente privi di logica, che non si è presentato a suonare al concerto di sabato a Roma al Monk. Un’altra trovata per suscitare hype? Forse. E’ chiaro, comunque, che ormai si è raggiunto il crollo di un certo radical chic sborrone, ed entrambe (l’indie e la trap) sono in corsa per raggiungere i cuori (e gli smartphone) di un numero sempre più elevato di ascoltatori. 

                                                                  Eulalia Cambria

FRU18, buona la prima!

“Quando sono in radio è come se attorno a me si formasse una campana di vetro. Tutti i rumori, gli ostacoli e le difficoltà della vita non varcano la soglia dello studio e più che un lavoro sono due ore di terapia…”

 

Esordisce così Gianluca Vitiello, speaker di Radio Deejay, al Festival delle Radio Universitarie italiane tenutosi a Cagliari dal 10 al 12 maggio. Cos’è il FRU? Semplice. Immaginate di poter praticare la vostra professione passando dalla teoria alla pratica; di mettervi in gioco con dei vostri coetanei che condividono la vostra stessa passione; di comprendere, attraverso il confronto con chi questa professione la mastica da anni, quali sono i sacrifici e gli step da percorrere prima di poter dire: “Ce l’ho fatta!”. Questo è il FRU e…no, forse non sarà così semplice spiegarvi cosa è stato per noi. 

Un continuo riscoprirsi attraverso gli altri, interfacciarsi con diverse realtà radiofoniche universitarie italiane e stupirsi del fatto che quel tuo sogno nel cassetto, prima irraggiungibile e tanto lontano, è diventato un poco più reale, un poco più vicino. Ed è bello guardarsi intorno e scoprirsi circondati da ragazzi diversi, da ogni dove, ognuno con la propria storia, ma tutti col tuo stesso sogno. Ragazzi a cui viene data anche la possibilità di visitare il Bel Paese poiché trattandosi di un festival itinerante, la location (o per meglio dire lochesscion) viene scelta in base alla radio ospitante. E quest’anno è stata la volta di Unica Radio, web radio dell’Università di Cagliari che ha partecipato attivamente per la riuscita della dodicesima edizione del FRU accogliendo nel capoluogo sardo ben 33 radio universitarie e centinaia di speaker e registi da tutta Italia. Anche RadioUniVersoMe, l’unica radio dell’Università degli Studi di Messina, ha preso parte (per la prima volta!) alla tre-giorni per eccellenza per radioamatori. Un’emozione bellissima esser stati invitati ed accolti come se facessimo parte di questa grande famiglia sin dal principio, integrati in questo mondo ideale, quasi utopico in cui si parla una lingua comune e si venera una stessa divinità: la musica.

I luoghi in cui si sono svolte le svariate attività della manifestazione cagliaritana però esistono veramente. Anzitutto non posso non parlarvi dell’Hostel Marina, alloggio per quasi la totalità dei partecipanti; punto d’incontro ed anche studio radiofonico all’aperto per la diretta condivisa gestita dai ragazzi di Unica Radio. Poi ancora l’Auditorium Comunale, il Terrapieno e la fantastica piazza Yenne. Ma proprio come un viaggio, fil rouge e tema di base della kermesse, il festival è volato via in un battito di ciglia. Un susseguirsi di incontri, workshop e tavole di discussione tematiche ci ha concesso di avere un contatto diretto con professionisti del mestiere come i Vitiello, Michele Wad Caporosso, Luca Viscardi, Anna Piras, speaker e giornalisti di rinomate radio e testate giornalistiche nazionali. Eppure le novità ed i colpi di scena non finiscono di certo qui.

Proprio perché la radio è un mezzo di comunicazione che affianca alla divulgazione informativa intrattenimento e soprattutto musica, alla conferenza d’apertura ha preso parte un cantante sardo di un certo livello della scena rap italiana, Salmo. Il rapper ha presentato il progetto Salmo Academy, una scuola per beatmaker e videomaker, invitando tutti i presenti a non mancare al suo concerto post serata. Il risultato? Spettacolo e divertimento garantito (per quel che ricordo…).

Tante facce nuove, tante le novità e i progetti lanciati durante l’edizione 2018 del FRU, tra cui CineUni, la prima redazione cinema Raduni proclamata punto di incontro per le redazioni e le rubriche che si occupano specificatamente della settima arte, e tante altre iniziative da tradizione che, come tali, vanno sempre portate avanti e rispettate. E anche quest’anno l’eccellenza è stata salvaguardata!

All’interno del Festival sono stati infatti premiati il miglior programma radiofonico prodotto nel circuito delle radio universitarie e la migliore tesi di laurea dedicata al mondo della radiofonia. La scena però se l’è presa lo #SpeakerChallenge! Venti aspiranti speaker di ogni età si sono sfidati a suon di On Air per conquistare il famigerato trono firmato FRU18. Ma è solo una delle molteplici opportunità che Raduni offre ai partecipanti: dalla condivisione di idee ed esperienze, alla possibilità di apprendere nuove tecniche, alla conoscenza di persone che, in qualche modo, faranno sempre parte di te.

Un meeting radiofonico che ci consente di affermare che il ruolo delle radio universitarie è fondamentale per la crescita dei vari atenei e degli stessi studenti, costituendo un luogo di inclusione sociale per i giovani e non solo. Non mi resta che concludere con l’espressione con cui ho iniziato quest’esperienza. Parafrasando Totò “La radio è come una livella: bastano un mixer, un microfono ed un paio di cuffie per ricordarci che, in fondo, siamo tutti uguali”.

Vincenzo Francesco Romeo

 

                                                                                              

Un Diluvio di musica per Messina: Michelangelo Falvetti, compositore dimenticato

Se c’è una categoria di personaggi con la quale la Storia è stata più ingiusta, almeno per quanto riguarda Messina, è quella dei musicisti. Tra i pittori, tutti si ricordano del grande Antonello; tra gli scultori, del Montorsoli; tra i letterati, di La Farina, Cannizzaro, Maurolico, Bisazza; tutti, questi ultimi, “numi tutelari” di altrettanti licei cittadini. Se si parla invece di musicisti, subentra il vuoto più totale: l’unico conservatorio cittadino è intitolato ad Arcangelo Corelli, brillante compositore e violinista del periodo barocco, che con Messina non ebbe mai nulla a che spartire; solo i più colti si ricorderanno di Antonio Laudamo, compositore ottocentesco cui è dedicata l’omonima Filarmonica, nonchè la sala che porta il suo nome al teatro Vittorio Emanuele; a Mario Aspa, contemporaneo e collega, è andata peggio, dovendosi accontentare di una stradina secondaria poco lontana dal teatro stesso.

Un musicista che non ha avuto invece neppure questa fortuna (eppure se ne meriterebbe eccome), è invece Michelangelo Falvetti: compositore sconosciuto e geniale di origini calabresi, operò a

Messina alla fine del Seicento, come Maestro di Cappella della Cattedrale; la recente riscoperta di alcune delle sue opere, proprio risalenti al periodo messinese, ci ha permesso di gettare una luce su questa grande e complessa mente musicale che altrimenti sarebbe rimasta abbandonata all’oblio.

Della vita e delle opere di Michelangelo Falvetti sappiamo veramente poco e quel poco che sappiamo lo dobbiamo soprattutto a due musicologi contemporanei: Niccolò Maccavino e il messinese Fabrizio Longo.

Apprendiamo così che Michelangelo Falvetti nacque nel piccolissimo paesino di Melicuccà, nell’entroterra calabrese, nell’anno 1642. Della sua formazione musicale non sappiamo nulla, anche se possiamo supporre, dato che prese gli ordini sacerdotali, che ricevette i primi rudimenti musicali in seminario, come era comunissimo all’epoca.

Una fonte indiretta ci suggerisce infatti la sua presenza nella città peloritana, nel 1669, a 27 anni: si tratta della dedica fattagli da un suo collega musicista, il violinista Giovanni Antonio Pandolfi Mealli, attivo nella Cappella Senatoria del Duomo di Messina, che nel 1669 dà alle stampe a Roma un libro di sonate, ciascuna dedicata a un suo collega diverso della cappella senatoria.

Nel 1670, Falvetti è chiamato a Palermo, dove diventa maestro di cappella e scrive numerose composizioni, soprattutto oratori. Il suo ruolo nel contesto musicale della città non era affatto marginale, tanto che, nel 1679, lo troviamo tra i fondatori dell’“Unione dei Musici”, una sorta di associazione di mutuo soccorso per i musicisti. In questo periodo è anche documentata la sua presenza a Catania, dove sono eseguiti alcuni suoi lavori.

Nel 1682, Falvetti torna a Messina, succedendo al conterraneo Domenico Scorpione nel ruolo di Maestro di Cappella del Duomo. Certo, Messina non è più quella della sua giovinezza: è appena uscita dalla violenta repressione della rivolta antispagnola ed è una città distrutta, disonorata, umiliata. Forse non è un caso che la sua prima opera del periodo messinese, quella che compose per il proprio insediamento e che è oggi considerata il suo capolavoro, sia un oratorio a cinque voci intitolato “Il Diluvio Universale”; il tema della giusta ma implacabile punizione divina, forse metafora della vendetta degli Spagnoli verso la città, domina l’intero lavoro, che solo alla fine si riapre con uno spiraglio di luce e speranza nella riconciliazione fra la terra e il cielo.

Sono diverse le opere che Falvetti scrive a Messina, ma solo il “Diluvio” e il successivo “Nabucco” (1683) ci sono rimaste per intero e sono ad oggi state eseguite e registrate almeno una volta. Si tratta di un piccolo, ma eloquente saggio delle capacità artistiche di questo brillante compositore: in un periodo storico in cui la musica è quasi una forma di artigianato, Falvetti da sapiente maestro padroneggia tutte le risorse armoniche e contrappuntistiche che la tecnica del periodo gli offre e le sfrutta al servizio di una scrittura estremamente espressiva, drammatica, teatrale in senso lato.

Come spesso accade nell’estetica barocca, tutto è giocato in funzione dell’impatto emotivo, della capacità della musica di rappresentare un “affetto”, una emozione; se i testi abbondano di prosopopee e personificazioni (concetti astratti che diventano personaggi, come la Morte, la Giustizia Divina, l’Idolatria, la Superbia), alla musica va il ruolo di rivestire di “carne ed ossa”, di emozioni umane questi concetti astratti, e di avvicinare il dramma dell’episodio biblico alla comprensione empatica dello spettatore, facendogli provare ciò che i personaggi provano. Anche quando la scrittura musicale vira verso la complessità del contrappunto, non c’è astrazione: tutto è tangibile, concreto, carnale, a volte persino sensuale, come quando il ritmo accenna dei movimenti di danza.

Della vita di Falvetti, passato il 1695, anno in cui cede il posto di Maestro di Cappella, si perdono le tracce. Restano oggi le sue opere, lentamente uscite dalle paludi dell’oblio per andare prima a finire sugli scaffali polverosi delle biblioteche, sotto forma di studi musicologici, e poi, finalmente, a trasformarsi di nuovo in musica, per le orecchie degli ascoltatori. È nel 2010 che il direttore argentino Leonardo Garcia Alarcòn riscopre questi due oratori, li mette in scena la prima volta dopo secoli e li registra, con grande successo di pubblico e critica, soprattutto all’estero.

In Italia questo successo è più lento ad arrivare, e negli 8 anni successivi sono state pochissime le esecuzioni di questo autore. In Sicilia, terra che lo vide fiorire, Falvetti è tornato, dopo 300 anni, solo pochi giorni fa, quando a Palermo al Teatro Massimo è stato messo in scena “Il Diluvio Universale”, a cura di Ignazio Maria Schifani. Da Palermo a Messina il passo è breve: c’è da chiedersi quanto ancora dovremo attendere per sentire le sue note risuonare, di nuovo, nella città del Diluvio…

Gianpaolo Basile