Solo: A star Wars Story

Lo spin-off dedicato a Han Solo è probabilmente uno dei capitoli attesi con maggiore trepidazione dagli appassionati e dai fan della saga. L’interpretazione di Harrison Ford ha conferito al personaggio una fama inarrivabile: il suo essere del tutto antitetico rispetto allo stereotipo tradizionale dell’eroe, incarnato dal buon Luke Skywalker, e il suo beffardo, e in larga misura egoistico, approccio alla vita, l’hanno consacrato a uno dei ruoli più amati nella storia del cinema di fantascienza.

L’avevamo visto nell’episodio VII – Il Risveglio della Forza – perire trafitto dalla spada laser del figlio Kylo Ren (interpretato da Adam Driver), convertito al lato oscuro dopo essersi ribellato al suo maestro Jedi. Nel nuovo prequel di Ron Howard (vedi anche: The Beatles – Eight days a week), in uscita nei cinema in Italia dal 23 maggio, ambientato alcuni anni prima dell’episodio del 1977 – Una Nuova Speranza -, trovano invece posto le prime e rocambolesche avventure, elaborate dagli sceneggiatori a partire da alcuni accenni contenuti nei film precedenti (ad esempio la celeberrima “rotta di Kessel in 12 parsec”). Tralasciando gli ovvi motivi anagrafici che hanno portato la produzione a scegliere un giovane attore come Alden Ehrenreich, è notorio che Harrison Ford agli inizi della sua carriera odiasse rimanere imprigionato nel ruolo, mantenendo questo astio nel tempo al punto, infatti, da accettare la partecipazione all’episodio VII unicamente a patto di fare morire il personaggio.

Il nuovo interprete non deve avere avuto vita facile a confrontarsi con la personalità di Han Solo, ma l’interpretazione risulta nel complesso convincente. La storia parte dalla fuga dal pianeta Corellian insieme alla  sua amata Qi’ra (Emilia Clarke) per sfuggire dalle grinfie di Lady Proxima, e dall’arruolamento nelle fila dell’esercito imperiale, per perseguire l’obiettivo di diventare un pilota e quindi tornare a salvare la donna della quale si era innamorato. Questo piano iniziale si guasterà scontrandosi con una serie di imprevisti: l’incontro con tre personaggi in incognito travestiti da militari e il primo contatto con Chewbacca e Lando Calrissian, nonché col Millennium Falcon.

Gli effetti speciali spettacolari e il ritmo forsennato degli avvenimenti conferiscono alla trama una caratterizzazione decisamente action. Le ambientazioni, soprattutto quelle girate sulle Dolomiti, durante l’assalto a un vagone di un treno (topic caro ai film western e a molti war movies), nei pressi delle Tre Cime di Lavaredo, denotano un approccio visivo magniloquente al film. Bella anche la ricostruzione immaginaria dell’avventura all’interno del Maelstrom spaziale, in cui è facile scorgere un richiamo al celebre racconto di E. Allan Poe. A differenza degli altri film del filone principale, dove forte era la componente mistica e l’allegoria giocata sull’elemento della forza, e rispetto all’altro spin-off, Rogue One, in cui era pregnante l’etica del sacrificio in vista di grandi ideali, la trama risulta povera di spunti che vanno al di fuori degli schemi del classico racconto di azione di Hollywood, consegnando un carattere quasi “fumettistico” all’azione. La mancanza reale di colpi di scena, al di là di quelli più che prevedibili, e la freddezza lineare di alcune scene, non ne fanno un film particolarmente memorabile, ma che risulta, in definitiva, un tassello godibile per tutti gli amanti di Guerre Stellari.

                                                                                                                                                         Eulalia Cambria

Big Eyes : grandi occhi per grandi ambizioni.

Margaret Ulbric (Amy Adams), una giovane artista, decide di trasferirsi a San Francisco insieme alla figlia Jane per intraprendere una nuova vita lontana dal marito.
Artista di professione, cerca invano di trovare un’occupazione nel suo ambito ma pur di non abbandonare la sua passione e sfruttare il suo talento, si adatta diventando un’artista di strada dipingendo ritratti commissionati dai passanti firmati con il suo marchio di fabbrica, nonché tratto distintivo: grandi occhi. Lei non è la sola a dipingere e proprio nella stessa strada del suo lavoro, Walter Keane (Christoph Waltz), altro artista, rimane incantato dalla bellezza della donna e senza pensarci troppo, avvia un approccio.
I due, fra giornate spese all’insegna della spensieratezza e scambi di opinioni artistiche, finisco per innamorarsi a tal punto che Margaret si convince a divorziare dal marito e a sposare Walter, nonostante lo conosca da non molto tempo.
Poiché i due coltivano una grande passione per l’arte da volerla trasformare in professione, cercano in tutti i modi di allestire una galleria con i loro quadri, sia per farsi conoscere ed entrare finalmente nel mondo dell’arte ritagliandosi un loro spazio, sia per racimolare del denaro e poter vivere dei loro lavori. Dopo numerosissimi tentativi e fallimenti riescono nel loro intento, riuscendo addirittura a vendere dei loro quadri. Tutto sembra andare per il meglio. O forse no…

Big Eyes” è un film del 2014 prodotto e diretto da Tim Burton con la cura della sceneggiatura affidata alla penna di Scott Alexander e Larry Karaszewski.
Inevitabile aspettarsi lo stile controverso, cupo, psichedelico e caratteristico di Burton in ogni sua pellicola, ma non è questo il caso.
Infatti questa volta il buon Tim si dedica ad un film biografico, legandosi alla realtà anziché alla sua classica e pazza fantasia. E forse è questa aspettativa pregiudiziosa che rende Big Eyes un buon lavoro, ma deludente se legato alla figura del regista.
La scena è caratterizzata costantemente da coerenza, una linea guida continua e poco pathos, lasciando la pellicola quasi anonima e lo spettatore, con l’amaro in bocca.
Benché questo possa essere un giudizio legato al singolo, il vero problema è la spettacolarizzazione, fondamentale se si parla di cinema. Infatti Big Eyes sembra quasi “evitabile”, o meglio, basato su una storia particolare giusta da conoscere ma forse non abbastanza per il cinema.
Complessivamente, al contrario, si rivela essere ben studiato, curato e sicuramente piacevole da guardare, magari anche in compagnia.

   Giuseppe Maimone

Thor: Ragnarok delusione o capolavoro?

La critica e le recensioni oltre oceano lo definiscono uno dei film più belli del MCU (Marvel Cinematic Universe) e il più divertente prodotto finora dagli studios di casa Disney.
Gli incassi sono notevoli e, dopo una sola settimana di programmazione, è al primo posto nel Box Office italiano.
La domanda sorge spontanea: è davvero così straordinario? La risposta è Nì.
Il film è ispirato molto vagamente alle saghe fumettistiche Ragnarok e Planet Hulk, ma non aspettatevi una trasposizione fedele, se siete fan dei fumetti.

Vedendo il trailer ci si aspetta un film caciarone, divertente, pieno di azione, e in effetti lo è.
La Marvel ha sempre inserito battute, a volte puerili, per creare prodotti fruibili a un pubblico vasto, ma forse stavolta ha esagerato.
Con questo non voglio dire che non intrattiene, anzi, il film è davvero esilarante in diverse parti e le due ore di proiezione non si sentono nemmeno; ma a volte questo umorismo è preponderante, stemperando eccessivamente la tensione in momenti in cui, probabilmente, sarebbe stato il caso di soffermarsi un po’ di più.
Questo film è davvero fatto bene tecnicamente. La regia di Taika Waititi è davvero attenta e mostra con chiarezza ogni singola scena di azione; tra l’altro il regista interpreta anche Korg, un personaggio davvero simpatico.
Gli effetti visivi sono veramente belli, compiendo citazioni per omaggiare Jack Kirby (disegnatore della Marvel), ma ricordano un po’ troppo l’estetica di Guardiani della Galassia; questo a volte risulta un po’ decontestualizzante rispetto al personaggio di Thor, legato al cosmico, ma anche, e soprattutto, al lato epico e mitologico, che comunque nell’ultima parte traspare molto di più.
La colonna sonora è azzeccatissima, sottolinea i momenti salienti della pellicola e, ammettiamolo, sentire Immigrant Song dei Led Zeppelin gasa moltissimo.

Un difetto del film? la sceneggiatura.
Un po’ squilibrata, perché vediamo molto di ciò che accade sul pianeta dei Gladiatori. Scene fantastiche tra Hulk e Thor, indubbiamente; nel frattempo, ad Asgard imperversa Hela, la dea della morte (interpretata da una Cate Blanchett che, nonostante la scrittura un po’ povera del suo personaggio, col suo talento, riesce a dare una caratterizzazione ad una villain altrimenti scialba), ma ci viene mostrato poco.

Hulk, finalmente, si vede un po’ di più e non solo nei panni di Bruce Bunner (interpretato da Mark Ruffalo, in entrambi i casi).

Loki, interpretato da Tom Hiddleston, è diventato un po’ una macchietta, ma non c’è Thor senza il fratellastro dio del Caos e anche grazie a lui il dio del Tuono, interpretato come sempre da Chris Hemsworth, raggiunge la piena maturità (e non sveliamo di più).

Per la macrotrama, in attesa di Infinity War, che uscirà il prossimo anno, questo film non aggiunge nulla, o quasi. L’ultima parte è indicativa e soprattutto una delle 2 scene post credits fa un grosso collegamento (ma ovviamente non si fa spoiler).

In definitiva, Thor: Ragnarok è un capolavoro o una delusione?
Non è un capolavoro, ma nemmeno una delusione. E’ promosso insomma. Se vi piace la Marvel, se volete passare due ore di intrattenimento, se volete vedere un film fatto discretamente bene o semplicemente vi incuriosisce, guardatelo e fateci sapere cosa ne pensate.

Saveria Serena Foti

 

 

 

 

 

“Mongoli, uniti!”

E’ il 1192 e Temüjin è solo un bambino.
Un giorno insieme al padre Yesugei, Khan della propria tribù (tipico capo delle tribù mongole) accompagnato da altri membri della stessa, si dirigono verso il villaggio dei Merkit attualmente in una situazione di contrasto nei loro confronti poiché anni prima, proprio lo stesso Yesugei, rapì la moglie del loro Khan per renderla sua, inimicandosi inevitabilmente l’intera tribù.

Infatti la soluzione è Temüjin che compiuti i nove anni di età, è costretto a scegliere una moglie, per cui la scelta migliore ricade su una bambina della tribù nemica, così da poter “medicare i rapporti”.
Il viaggio è molto lungo dunque viene presa la decisione di fermarsi ad un villaggio di mezzo dove il Khan di esso è un buon amico di Yesugei e qui Temüjin farà la conoscenza di Borte, una bambina di dieci anni che, venuta a sapere della ricerca di una moglie da parte del bambino, gli proporrà la sua persona e nonostante Temüjin conosca bene le intenzioni del padre e che la sua sposa non debba essere di questo villaggio, chiede a quest’ultimo se possa comunque fare una “prova” nell’eventualità che la sua sposa si trovi qui.

Prevedibilmente Borte è la protagonista della decisione di cui Yesugei era assolutamente all’oscuro, ufficializzando le nozze che dovrebbero avvenire fra cinque anni, quando i bambini saranno cresciuti. Benché il padre del ragazzo non approvi la sua scelta, che inevitabilmente alimenterà maggiormente il contrasto con la tribù Merkit, accetta la situazione.
Nel tragitto di ritorno il gruppo decide di accamparsi per riposare, ma nello stesso luogo vi sono alcuni nemici del Khan che decide di fermarsi nel punto prefissato nonostante tutto. Fra i due gruppi avviene uno scambio di offerte consistenti in alcune dosi di cibo e bevande, che per tradizione devono essere necessariamente consumati sotto gli occhi dell’offerente.
Consapevole del fatto che questo possa essere un grosso rischio poiché la bevanda potrebbe essere avvelenata, Yusegei decide di ingerirla comunque perché “le tradizioni sono importanti e vanno rispettate” .
Tornati sui loro passi il Khan accusa dei malori e cade da cavallo in fin di vita, affidando al figlio Temüjin la sorte della sua tribù rendendolo il nuovo Khan. Da questo momento la vita di Temüjin sarà completamente stravolta.

Mongol è un film del 2007 diretto da Sergej Vladimirovič Bodrov che racconta le vicende storiche e personali di Gengis Khan, ricevendo la Candidatura agli Oscar come Miglior Film Straniero nel 2008.
Fatta una doverosa premessa specificando che il film, per alcuni tratti si lega più al fattore “protagonista” mettendolo in buona luce anziché ad una funzione pedagogica, si comporta piuttosto bene.
Nonostante il lavoro di ottima regia, costumi curati, trucco ed effetti speciali da non sottovalutare (che oggi possono sembrare scarsi, ma bisogna considerare l’anno di produzione e uscita del prodotto), il film parte bene, ma non mantiene i buoni propositi.
Infatti, soprattutto nella fase avanzata della pellicola, essa risulterà piuttosto sottotono con una narrazione necessaria per lo svolgimento corretto della storia, ma che sarà difficile seguire con pieno entusiasmo.
Da apprezzare è anche la sceneggiatura che, se lo spettatore non avrà conoscenza della figura e storia di Gengis Khan, non gli renderà un lavoro facile al fine di fargli comprendere che si tratti di lui. Complessivamente il lavoro di Bodrov è sicuramente lodevole e ben fatto, ma Mongol non è il film perfetto.

                                                                                                                                              Giuseppe Maimone

Pirati dei Caraibi: la vendetta di Salazar

“Non vado in cerca di guai”
“Che orribile stile di vita ! “

Chi è che ad oggi non ha mai visto questa famosa e fortunatissima saga cinematografica?

Chi non ha mai subito il fascino dello stravagante e carismatico Capitan Jack Sparrow (Johnny Depp)? E chi non ha mai desiderato di trovarsi al suo posto e vivere le sue stesse avventure, oltremodo fuori dal normale?

Per tutti coloro che, dopo aver sospirato per la storia tra Sparrow e Angelica Teach (Penelope Cruz) in quello che sembrava essere l’ultimo capitolo, si sono chiesti se fosse davvero finita lì o ci sarebbe stato un seguito…beh, eccovi accontentati!

A distanza di ben sei anni, esce nelle sale italiane, il 24 maggio 2017, il quinto attesissimo episodio della saga: “La vendetta di Salazar”.

Jack Sparrow, più svampito del solito, è come sempre in balia della sfortuna e dei guai: una flotta di pirati fantasma guidati dal vendicativo Capitano Armando Salazar (Javier Bardem), fuggono dal Triangolo del Diavolo, a bordo della Silent Mary, e hanno come obbiettivo quello di ripulire il mare uccidendo ogni pirata, e in particolare vogliono uccidere Sparrow!

L’unica speranza di salvezza del nostro capitano è riposta nel Tridente di Poseidone, capace di spezzare ogni maledizione. La ricerca di quest‘ultimo porterà Jack ad incrociare la propria strada con quella di Carina Smyth (Kaya Scodelario) un’avvenente astronoma ed Henry Turner (Brenton Thwames) marinaio della Royal Navy, nonché figlio di Will Turner (Orlando Bloom) ed Elizabeth Swann (Keira Knightley), coppia che in quest’ultimo film fa il suo grande ritorno.

Saprà il nostro irriverente Jack, a bordo del suo malandato vascello, far fronte a tutti i pericoli che incomberanno e a salvarsi anche sta volta?

Dopo un quasi deludente quarto capitolo, che aveva fatto credere che più niente ci sarebbe stato da raccontare sulla vita di questi “cattivi del mare”, la regia dei norvegesi Joachim Rønning ed Espen Sandberg, si pone come obbiettivo quello di riportare il film ad avere lo stesso successo iniziale. Sono stati gli stessi registi ad affermare di voler realizzare “il miglior film della saga”; e per far ciò hanno voluto radunare, sempre citandoli ”la vecchia gang”.

Ecco spiegato allora il ritorno di Will ed Elizabeth, del figlio Henry e la presenza sempreverde di Geoffrey Rush nei panni di Hector Barbossa e ancora, come non sottolineare la partecipazione di Paul McCartney, anche lui col nome di Jack, ad interpretare lo zio del protagonista?

Protagonista che ci si presenta irriverente, scanzonato, impudente come sempre, insomma…il solito Capitan Jack Sparrow!

Un mix di personaggi vecchi e nuovi, un cast di tutto rispetto che gli conferisce la verve del primo film, quello che ha reso questa saga un cult del cinema fantastico.

Già dalla data di uscita il film è stato apprezzatissimo dai fans e ben accolto dalla critica; questo lascia forse ben sperare in un proseguimento? Lo scopriremo, nel frattempo continuiamo a riempire sale e come sempre… Vita da pirata!

Benedetta Sisinni

Quando girare con un Super 8 era bello da morire

Nel lontano 1979, in Ohio, un giovane ragazzo di nome Joe Lamb (Joel Courtney) perde la madre in un incidente di fabbrica.
super-8-movie-poster
La scena si apre proprio sulla veglia di quest’ultima, con Joe in lacrime, seduto su un’altalena che assiste inerme ad un ospite (Ron Eldard) appena arrivato cacciato dal padre del ragazzo (Kyle Chandler), facente parte del comando di polizia locale.

Passati quattro mesi, Lamb sembra apparentemente aver superato la morte della madre e insieme al suo migliore amico Charles Kaznyk (Riley Griffiths) ed altri suoi compagni di scuola Cary McCarthy (Ryan Lee), Martin Read (Gabriel Basso) ePreston Scott (Zach Mills), decidono di girare un film per un concorso cinematografico, trattando una storia basata su degli zombie e un detective che indaga su di essi.
Charles riesce ad aggiungere al gruppo una ragazza molto popolare a scuola, Alice Dainard (Elle Fanning), per interpretare la moglie del detective. Così, gruppo riunito, si danno appuntamento a mezzanotte per dirigersi verso una stazione ferroviaria per girare una scena precisa del futuro film, approfittando del passaggio del treno per rendere la scena più emblematica.
Tutto tranquillo finché Joe nota un pick-up dirigersi verso le rotaie in direzione del treno. Nel momento stesso in cui avvisa i suoi amici, avviene l’impatto devastante, talmente impetuoso da far deragliare il treno e far letteralmente volare tutti i vagoni che si disperdono nella zona circostante. Verificata la situazione di tutti i componenti della “produzione”, per fortuna interamente illesi, si dirigono verso il pick-up, dove trovano alla guida un loro professore scolastico, Thomas Woodward(Glynn Turman) che puntandogli una pistola contro gli intima di scappare e di non parlarne con nessuno, pena l’incolumità loro e delle loro famiglie.

Stasera-in-tv-Super-8-di-JJ-Abrams-su-Italia-1-8Con “Super 8”, per chi non ne fosse a conoscenza, si intende un tipo di formato cinematografico nato nel 1965. Ed è proprio da questo che il noto regista J.J. Abrams prende il nome per il suo film del 2011, prodotto anche da Steven Spielberg.
Perché proprio “Super 8”? Fondamentalmente al centro delle vicende c’è proprio la cinepresa e la necessità di creare un film, per cui sebbene si marginale, è proprio essa ad essere la protagonista ed il motore del film.
Il lavoro di Abrams è pieno del suo stile, tratti caratteristici ed altre componenti che lo rendono assolutamente particolare. Per i più, sembra ricordare lavori quali “Lost”, intramontabile e leggendaria serie tv curata proprio dal suddetto regista. Scindendo dalle componenti fondamentali come fotografia e regia, che sono senza dubbio curate e discutibili solo con note positive, la narrazione nonostante tratti temi che almeno in teoria potrebbero risultare contrastanti, riesce a creare un connubio perfetto rendendo ciò che sembra impossibile, quasi plausibile.
Un lavoro egregio che, sicuramente, non renderà Super 8 un film perfetto, ma assolutamente un opera piacevole e bella da vedere. Che, in sostanza, questo è ciò che importa.

 

Giuseppe Maimone

 

Collateral Beauty: 90 minuti di bellezza (non) collaterale

collateral_beauty_posterC’è stato l’anno di Eddie RedMayne, poi di Leo Di Caprio. Che questo sia, finalmente, l’anno di Will Smith?

Collateral Beauty, candidato all’Oscar insieme al suo attore protagonista, è un film che presenta diverse realtà di dolore e confronto con la vita.

Lo si può descrivere come una re-interpretazione in chiave contemporanea di ‘’Il canto di Natale’’ di Charles Dickens. I fantasmi, però, non rappresentano il passato il presente e il futuro ma l’amore, il tempo e la morte. E Scrooge non è cattivo, non lo è mai stato, è solo stato irrimediabilmente (?) investito dal lato peggiore della vita.

Curato nei minimi particolari è un film che, dal primo minuto all’ultimo, trascina nella trama con un finale a sorpresa che solo chi aguzza l’intelletto riesce a intuire e lascia assolutamente di stucco. Il gusto tragicomico non lo rende un film ‘’pesante’’, anzi, è un film drammatico che lascia il giusto spazio alle risate spontanee.

Il cast? Stellare: accanto Will Smith troviamo Kate Winslet, Keira Knightley, Helen Mirren, Edward Norton, Naomie Harris e tanti altri.

Le capacità interpretative di ognuno di loro sono all’altezza delle aspettative. Il protagonista, Will Smith, come sempre, fa trasparire attraverso lo schermo il dolore del protagonista in maniera sublime. Feticista delle lacrime, ti fa chiedere come possa riuscire a raccontare il dolore così bene attraverso un personaggio che, per la maggior parte del tempo, sta in silenzio.

Anche la colonna sonora merita di essere nominata: Let’s Hurt Tonight dei OneRepubblic, canzone che, si suppone, diventi disco d’oro, d’argento e di qualsiasi altro materiale esistente. O, magari, venga premiata agli Oscar.

Collateral beauty. La bellezza collaterale del film è il fine segno che lascia nei pensieri dello spettatore, che continua a rimuginarci su anche a luci accese, cercando la propria bellezza collaterale.

Elena Anna Andronico

“Carol”

Quando si entra in sala , per quelle due ore ci allontaniamo dalla nostra quotidianità e viviamo altre vite, epoche e mondi. cate-blachett
Capita però qualche volta che il mondo e la storia con cui entriamo in contatto lascino qualcosa dentro di noi, una sensazione, difficile da descrivere e spesso fonte di riflessione.

Ed è per questo che oggi mi prenderò la briga di darvi un consiglio cinematografico che potrà essere utile non solo per apprezzare un bel film ma anche per compiere questa riflessione e, forse, ampliare il nostro punto di vista. Mi permetterò di parlarvi di questo film che si chiama “Carol” del regista Todd Haynes.

Presentato a maggio a Cannes, apprezzatissimo dal pubblico di tutti i festival da Roma a Londra. Ha fatto conquistare a Rooney Mara la palma d’oro a Cannes. Candidato a 5 Golden Globes e 6 Oscar fra cui miglior attrice protagonista e miglior attrice non protagonista.

La storia è tratta dal libro di Patricia Highsmith “The Price of Salt” nel quale si narra l’incontro e l’amore che nasce fra due donne nell’America degli anni 50. Potrei essere più specifica ma vi rovinerei, la sensazione che durante tutto il film si prova. I motivi per cui andare al cinema sono molteplici, non mi soffermerò molto sul fatto che l’interpretazione di Cate Blanchett (Carol) è sublime e coinvolgente , come sempre, e che Rooney Mara (Therese) non sbaglia nessuna delle sue scelte lavorative.

La sintonia fra le due attrici è tangibile, traspare dallo schermo. I soliti malpensanti hanno additato questo a passate e possibili preferenze sessuali delle due, a cui la Blanchett a Cannes , con la tua solita schiettezza che tanto ci piace, ha tagliato corto dicendo “La domanda che mi fu posta , da quel che ricordo, era “ ha mai avuto relazioni con donne?” e io dissi “certo, ma se lei si riferisce a relazioni sessuali la risposta è no.” Ma ovviamente ciò non è stato trascritto. Ma la vera domanda , nel 2015, dovrebbe essere “a chi importa?”.

Todd Haynes , il quale per la prima volta non ha scritto la sceneggiatura del film, con una delicatezza disarmante racconta questo amore, le difficoltà e i tabù degli anni ’50, un’epoca che gli è cara (v. Lontano dal paradiso) , e riconferma di essere uno dei migliori registi del nostro tempo e di avere quella empatia che pochi registi riescono a trasmettere al pubblico.

La bellezza pervade il film: la fotografia e i costumi , compiti assegnati a due “pezzi da 90” come Edward Lachman (Io non sono qui, Erin Brockovich, Il giardino delle vergini suicide,Radio America) che gioca con la luce e sfrutta l’effetto della pellicola in super 16mm con cui è girato il film e Sandy Powell (The Wolf of Wall Street, Cenerentola, The Aviator, Gangs of New York) che trasmette i sentimenti di ogni personaggio con i vestiti e i loro colori.

Un film giocato sui piccoli gesti, i più veri. Sulle mani, mani che sfiorano, che stringono, che danno conforto, in una società rigida, ancorata a tanti preconcetti ed al silenzio, per vergogna per paura di perdere tutto. Il silenzio a cui ci si ribella perchè non si vuole più negare se stessi , per quel sentimento identico per tutta l’umanità che è l’amore.

Tempo storico lontano dal nostro, ma in realtà i punti di contatto purtroppo sono ancora gli stessi. Todd Haynes e le sue due muse narrano con semplicità dell’amore, i sentimenti , i tremori, la passione delle due donne , gli stessi che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita. Ed è proprio questa disarmante chiarezza che ci fa uscire dalla sala soddisfatti, contenti e pensare che l’amore è amore per tutti e dire , forse anche a chi è restio riguardo a questi rapporti, “Who cares?”.

Arianna De Arcangelis