Messina nel 1780: il quartiere “Piazza Duomo”

Ritorna l’appuntamento dedicato al viaggio nella Messina del 1780. L’architetto Giannone oggi ci accompagna in uno dei punti nevralgici della nostra città: il quartiere di Piazza Duomo.

L’area divenne uno dei principali centri della vita cittadina a partire dal XII , quando venne consacrata la Cattedrale normanna, ma fu solo nel corso degli anni ’50 del 1500 che da slargo medievale l’area si trasformò in una moderna piazza rinascimentale, fulcro del potere religioso e politico della città.

Mappa del quartiere “Piazza Duomo” – Fonte: “Messina nel 1789. Viaggio in una capitale scomparsa” ©Luciano Giannone, 2021

Duomo di Santa Maria La Nova

La Cattedrale di Messina, denominata Duomo di Santa Maria la Nova, ha una lunga storia, funestata da diversi terremoti ed incendi che ne hanno fatto un cantiere a cielo aperto sino ai giorni nostri: la prima costruzione venne realizzata in epoca bizantina, intorno al 530 a.C., durante l’era dell’imperatore Giustiniano.

La nuova Cattedrale, consacrata nel 1197 alla presenza dell’imperatore Enrico VI e della consorte Costanza d’Altavilla, seguì il modello delle grandi chiese normanne: impianto a croce latina rivolta ad Oriente, tre navate, tre absidi mosaicate, la facciata romanica, l’alto campanile posto a sinistra. 

Nel corso del XVI secolo si ebbe la maggiore attività del cantiere del Duomo che interessò il rivestimento marmoreo della facciata, il coro ligneo intarsiato in avorio e madreperla, la creazione di dodici cappelle del superbo apostolato marmoreo, la pavimentazione a tarsie.

Nei primi anni del 1600 venne completata la decorazione delle cappelle del SS. Sacramento e della Sacra Lettera e fu realizzato un ricchissimo baldacchino in bronzo.

Danneggiata dal terremoto del 1638, fu oggetto di vari restauri; in particolare gli interni, a partire dal 1682, vennero decorati in stile barocco dall’architetto Andrea Gallo.

Il successivo terremoto del 1783 distrusse il campanile e la parte superiore della facciata, mentre il terremoto del 1908 causò il crollo di gran parte della struttura: solamente la zona absidale, la cripta e la parte inferiore della facciata rimasero in piedi. 

Campanile del Duomo

La prima torre campanaria è della stessa epoca della chiesa giustinianea. Il campanile vero e proprio, risalente alla successiva epoca normanna, fu restaurato e ricostruito dopo i danni causati da un fulmine, raggiungendo la quota di circa 92 metri di altezza, misura abbastanza singolare per l’epoca.

Questo campanile, raffigurato in tantissime viste ed incisioni dell’epoca, era diviso in cinque livelli collegati al primo tramite una scala a chiocciola. Al di sopra della torre si elevava un altro corpo di fabbrica che ospitava le campane; sulla cima del campanile era presente un angelo in ottone posto su un perno in modo che potesse cambiare posizione in base al soffiare del vento.

Dopo la riconquista spagnola del 1678 il campanile venne spogliato dei numerosi tesori, tra cui le statue di Scipione ed Annibale di epoca romana -di cui si è persa traccia-, e dei documenti custoditi nel primo livello, tra cui molte pergamene attestanti le memorie ed i privilegi della città ed una ricca collezione di manoscritti greci, che furono trasportati a Madrid.

Danneggiato dal terremoto del 1693 e da un fulmine nel 1728, venne in gran parte distrutto dal terremoto del 1783 fino al totale abbattimento nel 1863 a causa di problemi di carattere strutturale che non erano stati risolti dalle varie ristrutturazioni.

L’attuale torre campanaria, con il suo peculiare orologio astronomico, risale agli anni ’30 del secolo scorso.

Visuale dall’alto di Piazza Duomo nel 1780 (ricostruzione) – Fonte: “Messina nel 1780. Viaggio in una capitale scomparsa” ©Luciano Giannone, 2021

Monumento equestre a Carlo II d’Asburgo

La statua rappresenta una raffigurazione allegorica della città ribelle, rappresentata da un’idra, domata dall’imperatore spagnolo; venne eretta nel 1684 nella piazza dove sorgeva il Palazzo Senatorio, che era stato distrutto nel 1678 a seguito della riconquista spagnola.

Il re Carlo, con indosso armatura e stivali, a cavallo di un vigoroso destriero rampante che schiaccia l’idra adornato da una sella e bardature molto decorate, impugna nella mano destra lo scettro mentre con la sinistra il freno del cavallo.

Per realizzare la statua fu usato il bronzo ricavato dalla fusione della più grande campana del Duomo.

Nel 1707 Filippo V ordinò la rimozione dell’idra e fece cancellare le scritte offensive per la città di Messina.

Durante i moti risorgimentali del 1848 la furia popolare smembrò la statua.

Di essa non si ebbero più notizie certe: si narra che sia stata fusa per ricavarne dei cannoni; altre fonti, invece, sostengono che i suoi resti  furono portati a Napoli.

Ricostruzione di Piazza Duomo con in primo piano il Monumento equestre di Carlo II – Fonte: “Messina nel 1780. Viaggio in una capitale scomparsa” ©Luciano Giannone, 2021

Palazzo della Regia udienza

Sede della Corte Stratigoziale fino al 1679, l’edificio fu restaurato dopo il 1783 per divenire il Palazzo dell’Appalto. Sede della Biblioteca Comunale e degli uffici dei tribunali, fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1908 e quindi abbattuto nel 1914.

Di esso rimangono numerose fotografie ed incisioni che mostrano un edificio imponente, con quattordici aperture sulla piazza molto decorate, con abbinamento di balconi e finestre sugli stessi poggioli, ed un grande portone, con colonne in marmo, anch’esso sovrastato da un balcone finemente decorato. Un cornicione in stile dorico coronava l’edificio. 

Fontana di Orione

La Fontana di Orione, progettata e realizzata dall’architetto Montorsoli, tra il 1550 ed il 1553, è considerata una delle più belle fontane rinascimentali.

La fontana, in marmo di Carrara, si compone di tre parti: il basamento dodecagonale, la grande vasca ed il candelabro. Vi sono quattro statue che raffigurano i fiumi Nilo, Eufrate, Tevere e Camaro, diversi mostri marini ed otto bassorilievi che narrano episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio.

Il candelabro risente della filosofia neoplatonica: i quattro fiumi sono ascrivibili al primo livello cosmologico insieme ai mostri marini, sirene e tritoni, posti nella parte inferiore del candelabro. Al livello successivo troviamo le Naiadi che annunciano il passaggio dalla materia alla forma. Il terzo livello, l’Anima Cosmica, è rappresentato da putti e figure angeliche che cavalcano delfini. L’ultimo livello, la Mente Cosmica, è rappresentata dal gigante Orione con il fedele cane Sirio.

Ricostruzione della Fontana di Orione, la Statua equestre e il Palazzo della Regia udienza – Fonte: “Messina nel 1780. Viaggio in una capitale scomparsa” ©Luciano Giannone, 2021

Le altre chiese

Nell’area di Piazza Duomo sorgevano anche due importanti chiese: la Chiesa di Sant’Agata e la Chiesa di San Lorenzo.

La prima, eretta nel 1126, fu danneggiata gravemente del terremoto del 1783 e definitivamente distrutta da quello del 1908.

La seconda, parte dell’ampio progetto di ricostruzione e riorganizzazione della piazza ad opera del Montorsoli, fu
completamente distrutta nel 1783.

Alla prossima!

Terminata la nostra seconda tappa, vi diamo appuntamento alla prossima puntata, in cui “visiteremo” il quartiere Quattro Fontante/Purgatorio.

 

Marta Cloe Scuderi

Fonti:

Luciano Giannone, Messina nel 1780. Viaggio in una capitale scomparsa, Giambra Editori, Terme Vigliatore (ME), 2021.

 

Quando “nacque” Piazza Duomo: il ruolo della fontana di Orione

La piazza è per definizione luogo di ritrovo e riunione per i cittadini e favorisce l’incontro, un aspetto importante tutt’oggi negato dalla pandemia. Ogni messinese può dirsi legato alla piazza principale della sua città, Piazza Duomo, ma è curioso sapere come questa per moltissimo tempo fu sottovalutata proprio dai suoi cittadini: era chiamata chianu (letteralmente pianura) e considerata luogo informe, senza coerenza architettonica. Questo proprio perché piazza è anche

“area libera (…) limitata da costruzioni, spesso architettonicamente importanti” (Treccani).

Fino al 1500, invece, questo spazio mancava proprio di unità architettonica e di stili ed era privo di un disegno prospettico.

Un cambiamento importante in questo senso si deve a un religioso, scultore e architetto rinascimentale italiano: Giovanni Angelo Montorsoli. Il frate infatti, giunto a Messina nel 1547, realizzò un progetto che avrebbe finalmente dato una dignità architettonica – su stampo rinascimentale – alla città e che avrebbe visto protagonista una delle sue opere più importanti: la fontana di Orione.

©Luciano Giannone – La fontana di Orione – Messina, 2019

Messina ai tempi del Montorsoli

Ma qual era il contesto in cui si trovò a lavorare il Montorsoli?

Nel Cinquecento si diffonde ovunque l’importanza dell’arte e della letteratura e si comincia a parlare di Rinascimento, di una nuova rappresentazione dello spazio – basato su regole geometriche e prospettiva – e di un ritorno ai classici.

In questo periodo la Sicilia è governata da Carlo V d’Asburgo, re di Spagna. A seguito dello sviluppo artistico e letterario nascono qui le prime accademie, spesso segrete poiché non particolarmente apprezzate dalle potenze straniere e dalla Chiesa. Tra queste è importante nominare l’Accademia della Fucina, epicentro della vita intellettuale e politica della città, sostenuta persino dal Senato messinese.

Il motto virgiliano dell’Accademiaformas vertit in omnes (si trasmuta in tutte le forme) – deriva dalle Georgiche e fa riferimento al dio Proteo, inafferrabile perché mutabile. La frase riprende inoltre Ovidio e la rappresentazione del dio etrusco Vertumno, anch’esso capace di mutare la propria forma e sovrapponibile, dunque, a Proteo stesso. Questa scelta potrebbe chiaramente dipendere dalla capacità dell’Accademia di cambiare la sua identità e mantenerla segreta per poter sopravvivere nel tempo.

 

La fontana di Orione

Ritorniamo al 1547 e all’arrivo del Montorsoli a Messina. In quell’anno fu ufficialmente inaugurato un complesso intervento di ingegneria idraulica per condurre le acque del Camaro a servizio della città. La fontana di Orione fu commissionata al Montorsoli proprio dal Senato e dall’Accademia per onorare l’avvenimento.

©Luciano Giannone – Dettaglio della fontana di Orione raffigurante il fiume Camaro – Messina 2019

La fontana può anche essere letta in chiave politica, come esaltazione della potenza locale. Essa riprende infatti simbolicamente l’Accademia della Fucina: i bassorilievi, raffiguranti scene delle Metamorfosi di Ovidio, ci riportano al motto legato alla trasformazione. Troviamo inoltre il dio etrusco Vertumno, legato anche qui al dio marino Proteo, da cui prende il tridente.

©Luciano Giannone – Dettaglio della fontana di Orione raffigurante il dio etrusco Vertumno – Messina, 2019

 

Quando il chianu divenne una piazza

Non sarebbe però bastata la realizzazione dell’opera montorsoliana per far sì che quel chianu divenisse una vera piazza. A Messina il Montorsoli, come detto precedentemente, fu costretto a fronteggiare vari ostacoli e si rese subito conto di quanto fosse importante un progetto che andasse ben oltre la fontana: una renovatio urbis che poteva essere tale solo grazie alla contaminatio (contaminazione) rinascimentale, basata principalmente su regole geometriche e prospettiva.

Per far sì che ciò accadesse sembrava essere fondamentale e necessario l’abbattimento di due delle tre navate di una delle chiese più frequentate del periodo, la chiesa medievale di S.Lorenzo, situata a fianco della Cattedrale normanna (spazio occupato oggi in parte dal Salotto Fellini) e che occupava una sezione dello spazio in cui il Montorsoli avrebbe poi collocato la fontana.

Chiesa di S.Lorenzo e fontana di Orione per opera del Montorsoli – Fonte: Biblioteca regionale universitaria di Messina 

La fontana monumentale guida lo sguardo dell’osservatore verso l’alto: un esempio sono la mano destra di Orione (leggendario fondatore della città) e lo sguardo del cane Sirio che favoriscono il verticalismo. Ma il genio del Montorsoli si nota soprattutto nel legame tra la fontana, la chiesa e un’ulteriore struttura (presente solo nel progetto): il sistema di gradini della fontana tracciava, infatti, gli assi di simmetria di queste strutture. Il Montorsoli aggiunse inoltre dei dettagli alla chiesa medievale – delle colonne ioniche, un timpano e la cupoletta – così da creare una continuità ottica con la fontana.

©Luciano Giannone – Dettaglio della fontana di Orione raffigurante Orione e il cane Sirio – Messina, 2019

 

Piazza Duomo: luogo di incontro e di libertà

Appare dunque chiaro – soprattutto ora che un ritorno alla vicinanza e al contatto è ciò che forse più desideriamo – l’importanza dell’opera del Montorsoli. Lo scultore ci ha donato, seppur oggi vi siano differenze importanti rispetto al progetto iniziale della piazza, quel luogo che conosciamo noi oggi: tappa obbligatoria dei turisti ma ancor più spazio di incontro, quell’area libera che ogni vera piazza dovrebbe essere per i suoi cittadini.

 

 

Cristina Lucà

 

Fonti:

Aricò Nicola, Architettura del tardo Rinascimento in Sicilia. Giovannangelo Montorsoli a Messina (1547-57)

Archivio storico messinese 73 

 

Immagine in evidenza:

©Luciano Giannone – La fontana di Orione – Messina, 2019

Artitudine: un viaggio alla riscoperta delle bellezze messinesi

Passeggiando per Messina, osservando con attenzione, è possibile notare diversi segni del passato millenario della città dello stretto. Il problema è che la maggior parte di noi non ha le conoscenze necessarie per interpretarli. Per soddisfare il desiderio di chi vuole gli strumenti per conoscere la storia e la bellezza della città è nato Artitudine. L’associazione culturale ARB organizzerà, nell’ambito del progetto Artitudine-Messina città che parla, delle visite guidate con docenti ed esperti locali, con uno sconto dedicato agli studenti universitari.

Il primo incontro si terrà domenica 18 marzo a cura della professoressa Mariateresa Zagone e riguarderà un tema molto caro all’unità di Cultura locale del nostro giornale, ossia le fontane storiche. Messina è fondata su una miriade di torrenti che hanno sempre fornito alla città una riserva inesauribile di acqua dolce. Questo ha permesso la costruzione di moltissime fontane, alcune delle quali particolarmente rilevanti dal punto di vista artistico a tal punto da essere diventate simboli della città stessa. La visita inizierà presso la sede dell’associazione in via Romagnosi 18 alle ore 9:30.

La prima tappa sarà la splendida fontana montorsoliana del Nettuno, ci si sposterà poi verso la fontana garibaldina, e a seguire fontana della pigna, fontana Falconieri, fontana Senatoria, fontane dei 4 cavallucci, 4 fontane, fontana di Orione e fontana del Gennaro.

La nostra rubrica Messina da scoprire si occupa ormai da anni di abituare i lettori a guardarsi intorno e ad esplorare una città misteriosa e ricca di indizi di una cultura molto interessante. È quindi con immenso piacere che vogliamo promuovere un progetto che mette in atto ciò che fino ad ora abbiamo cercato di trasmettere.

Vi invitiamo quindi a non mancare, prenotandovi subito tramite facebook, attraverso il numero 3357841234 o via mail (info.arb.service@gmail.com) ; se poi non volete presentarvi impreparati potrete avere un assaggio di quello che vi aspetta rileggendo i nostri articoli dedicati all’argomento della passeggiata: 

– Arte, storia e mito nella Fontana di Orione del Montorsoli 

– Messina, signora dello Stretto: la Fontana del Nettuno

– Giochi d’acqua e pietra: le fontane storiche messinesi, parte I

– Giochi d’acqua e pietra: le fontane storiche messinesi, parte II

Renata Cuzzola

ph: Martina Galletta, Giulia Greco

Museo di Messina: l’Italia è fatta, adesso bisogna fare gli Italiani

Il sabato scorso, dopo mesi e mesi di attesa trepidante, ho finalmente potuto varcare la soglia della sede definitiva del Museo Regionale di Messina, che dalle 20:30 alle 22:30 apriva i suoi battenti gratuitamente al pubblico: la prima apertura completa della struttura museale, a distanza di oltre cento anni dalla sua nascita. Insieme a me una folla notevole (lascio ai contabili del giorno dopo la stima dei numeri, per me erano e resteranno sempre “chio’ssai d’i cani i Brasi”, come si dice a Messina) composta da gente di ogni età, ceto e condizione sociale accorsa da tutta Messina e anche da fuori, anche a seguito della notevole campagna pubblicitaria che questa volta ha coinvolto anche le reti televisive nazionali.

Nel mio personale sentire, il Museo Regionale di Messina, fin dalle prime volte in cui lo visitai da piccolo, è sempre stato un luogo speciale, quasi sacro. Uno scrigno della memoria, come ebbi modo di scrivere in un articolo in occasione della apertura parziale di Dicembre. Un grande tempio laico dedicato a Messina. Mi piace pensare che nessun altro museo al mondo possa vantare una storia simile, anche se forse non è così. La sua storia si intreccia indissolubilmente con quella del Terremoto del 1908: prima era poco più che una pinacoteca comunale sorta dal confluire di collezioni private.

Poi accadde il disastro, e secoli interi della storia e del patrimonio artistico di Messina furono cancellati dalla faccia della Terra. Il moderno Museo Regionale nasce da quelle macerie, dal lavoro paziente di tanti messinesi che si misero a frugare in quelle rovine, a tirarvi fuori tutto ciò che potesse avere un qualche valore storico e artistico, ed ad ammucchiarlo, accatastarlo nella antica sede del convento del SS. Salvatore dei Greci, dove si trovava la filanda Barbera-Mellinghoff, che per tanti anni ne è stata la sede provvisoria. Il loro sogno era che un giorno tutto potesse tornare a vivere, che la antica Messina dei secoli d’oro, la Messina che il terremoto aveva sfregiata, distrutta, annichilita, potesse in parte tornare a esistere. Melior de cinere surgo: come l’araba fenice, anche Messina con la sua storia e la sua cultura sarebbe un giorno risorta dalle sue ceneri.

Ci sono voluti oltre cento anni affinché questo sogno divenisse realtà. Oggi, finalmente, Messina ha il suo Museo Regionale. Un percorso espositivo unico, fra i più estesi del Meridione, in grado di raccontarci secoli di storia: dalla Zancle greca al Medioevo arabo-normanno, dal Quattrocento della Scuola fiamminga e di Antonello fino al Rinascimento, Montorsoli, Calamech, Polidoro Caldara, Alibrandi, allievi di Michelangelo e Raffaello. E poi il seicento, Caravaggio e i caravaggeschi, gli splendori del barocco, gli argenti e i marmi a mischio del Settecento, la lenta decadenza dell’Ottocento. Un viaggio nella storia di Messina dalle origini ai giorni nostri attraverso i suoi capolavori più belli e preziosi. 

Insomma, l’Italia è stata fatta (e finalmente, aggiungerei). Adesso, però, si devono fare gli Italiani. L’apertura completa del Museo Regionale è senza dubbio un traguardo: ma deve essere il primo di una lunga serie. Un Museo così grande e importante come quello che ha appena aperto le sue porte rappresenta una risorsa invalutabile per quello che è e che sarà il turismo culturale nella Città dello Stretto e nei suoi dintorni. Non può né deve permettersi di restare confinato al margine della sua vita sociale; deve, al contrario, rivendicare orgogliosamente il ruolo e la posizione di fulcro, di guida e di punto focale per la rinascita culturale della città. 

Questa nuova apertura pone dunque alla direzione grandi responsabilità, apre nuovi orizzonti e offre nuove sfide. Una ad esempio potrebbe essere quella di porre il Museo, da sempre in una posizione periferica rispetto al centro storico, nel posto che si merita all’interno dei già ridotti circuiti turistici della città. La stagione estiva è alle porte, visitatori e croceristi cominciano timidamente ad affollare le vie del centro; se già adesso è difficile che si spingano oltre il “triangolo magico” incluso fra Piazza Duomo, l’Annunziata dei Catalani e Palazzo Zanca, e forse del Museo Regionale ignorano persino l’esistenza, chi li porterà fino al Torrente Annunziata per vederlo?

Insomma, il lavoro è appena cominciato e servirà un rinnovato impegno, e la formazione di nuove sinergie con il Comune e con gli enti pubblici, affinché il nuovo Museo possa sviluppare in pieno le sue potenzialità benefiche per l’intera città di Messina. A noi visitatori resta la speranza che la recente apertura completa si riveli non un comodo letto di allori su cui sdraiarsi a riposare, ma la prima tappa di un lungo percorso di rinascita: un percorso che abbia come obiettivo finale la riscoperta, agli occhi dei messinesi e del mondo intero, di Messina e della sua bellezza. 

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Una luce sul mare: la torre della Lanterna di San Ranieri

Zancle, “la Falce”, la chiamavano i nostri progenitori greci: a testimonianza di come Messina, città antichissima, abbia sempre avuto, fra le sue peculiarità, quel braccio di terra a forma di falce che si protende verso la Calabria e poi si volge di nuovo verso le sue spiagge, definendo così una ampia baia che ai nostri antenati deve essere sicuramente parsa provvidenziale, nel contesto di un mare capriccioso e difficile come lo Stretto. Un posto perfetto per costruirvi quello che sarebbe diventato e rimasto per secoli uno dei porti commerciali e militari più importanti del Mediterraneo. Su quel lembo di terra lambito dalle acque del mare, guardiano dello Stretto, da tempi immemori la Lanterna di San Ranieri continua a fare luce: per anni e anni ha guidato i naviganti, mostrando loro, in quelle pericolose acque, l’imboccatura di un porto sicuro. 

La storia della Lanterna si perde nei secoli passati confondendosi con la leggenda. Così, se la storia ci attesta la presenza di alcuni monaci che risiedevano in questa penisola, sulla cui punta si trovava l’antico Archimandritato del Santissimo Salvatore, già a partire dall’XI secolo, è la leggenda a raccontarci del santo monaco Ranieri (o Rainieri), forse identificabile con quel san Ranieri da Pisa di cui le agiografie riportano un soggiorno a Messina, a metà del dodicesimo secolo. La tradizione vuole che il buon Ranieri si recasse ad accendere ogni giorno fuochi di segnalazione ai naviganti, per proteggerli dalle insidie del pericoloso gorgo detto “Garofalo”, che proprio lì, nelle vicinanze della Falce, mieteva le sue vittime fra i marinai.

Proprio nel luogo in cui secondo la leggenda san Ranieri accendeva i suoi fuochi, fu costruita, negli anni successivi alla sua morte, una cappella dedicata al suo culto, presso la quale si stabilì una comunità di monaci terziari francescani, i “Continenti di San Ranieri”: furono loro, nel 1310, i primi a costruire sulla penisola una struttura adibita a faro, che prende appunto il nome di Lanterna di San Ranieri. 

Della antica Lanterna e della cappella si perdono le tracce nel 1500: è in questo periodo che, a seguito della visita a Messina dell’Imperatore Carlo V, in clima di aperta tensione nei confronti dell’espansione ottomana, su impulso del vicerè Ferrante Gonzaga Messina si trasforma da porto prevalentemente mercantile a imprendibile piazzaforte militare; l’Archimandritato viene distrutto e al suo posto viene edificato il forte omonimo del Santissimo Salvatore, e al posto dell’antica Lanterna, presumibilmente ormai in rovina, sorge la massiccia torre quadrangolare a bugne che tutt’ora scruta silenziosamente, come un vigile guardiano, le acque del mare. 

Sulle vicende riguardanti la sua costruzione molto è stato scritto da parte di storici e studiosi, ma continua ad aleggiare una certa aura di mistero. Una tradizione che origina nell’Ottocento, per la precisione da Giuseppe La Farina, la attribuisce al celebre scultore e architetto fiorentino Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli: ed in effetti Giorgio Vasari, che del Montorsoli fu contemporaneo e biografo, parlando di lui nella sua edizione del 1568 delle sue “Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti” a proposito delle sue opere messinesi scrive in appena mezzo rigo “fu fatta in su la marina, di suo ordine, la torre del fanale”. Quel che è davvero misterioso è come mai tutte le altre fonti storiche fino all’Ottocento, parlando del Montorsoli, trascurano di identificare la Torre tra le sue opere. Ancora, nessun accordo vi è sulla data di costruzione: se una epigrafe, che si trovava affissa sull’edificio e che alcuni storici attribuiscono a Francesco Maurolico, pone la data al 1555, sotto l’impero di Carlo V, altre fonti parlano di una torre che fu restaurata e in seguito demolita nel 1556, altre ancora datano l’edificio al 1566, o ad altre date ancora; lungi dal voler scendere nei meandri un po’ oscuri della storiografia locale, quel che è certo è che, per quanto riguarda la sua costruzione, l’ultima parola non è ancora stata detta. 

Oggi la Torre della Lanterna, che da almeno 5 secoli resiste indenne ai terremoti e alle calamità naturali, è proprietà della Marina Militare Italiana e viene aperta al pubblico solo in particolari occasioni; sormontata da un faro moderno di costruzione successiva, con i suoi tre lampi bianchi ogni 15 secondi continua a segnalare le coste sicule alle navi che transitano nello Stretto, oggi come secoli fa. E anche se adesso il Garofalo non ci fa più paura e le mitiche Scilla e Cariddi, divoratrici di uomini, solidamente incatenate ai piedi del Nettuno nella celebre fontana, non sono più in grado di nuocere alle nostre grandi navi a motore, ogni volta che, passeggiando sulla banchina del Porto, posiamo lo sguardo sulla sua massiccia mole cinquecentesca, non possiamo fare a meno di pensare a quante vite, erranti sul mare, siano state tratte in salvo grazie alla luce soccorritrice della Lanterna di San Ranieri. 

Gianpaolo Basile

ph: Elena Anna Andronico

Un michelangiolesco a Messina: Giovanni Angelo Montorsoli

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Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli. Incisione dal frontespizio della sua biografia, contenuta nelle Vite di Giorgio Vasari.

Corre l’anno 1532 quando Michelangelo Buonarroti, il grande genio dell’arte e della scultura rinascimentale, attivo a Firenze in quel periodo, viene chiamato nuovamente a Roma per dirigere i lavori per la tomba di Giulio II: un lavoro fra i più travagliati del Maestro fiorentino, dato che il primo incarico per questo sepolcro gli era stato assegnato nei primi anni del secolo da Giulio II in persona, e ora quel Papa risoluto e guerriero è già morto da quasi vent’anni. Fra i collaboratori che l’ormai anziano Michelangelo chiama con se c’è un giovane di appena 25 anni, frate dell’Ordine dei Servi dell’Annunziata, che si era già fatto notare per il suo talento durante il soggiorno a Firenze. Si chiama Giovanni Angelo di Michele e viene da Montorsoli, un piccolo paesino dell’entroterra fiorentino.

Inizia così, con la benevolenza di un così importante mentore, l’avventura artistica del Montorsoli, una avventura che lo porterà dai fasti della Roma rinascimentale alla Liguria, per poi approdare sulle coste sicule, proprio a Messina, città in cui vivrà quello che i critici considerano il culmine indiscusso della sua arte.

Nella Città Eterna il Montorsoli può toccare con mano una delle più grandi fonti di ispirazione degli scultori di quel periodo, cioè l‘antichità classica ed ellenistica: e non è un caso se il primo lavoro che gli viene affidato a Roma, dietro suggerimento di Michelangelo, è il restauro delle celebri sculture dell‘Apollo del Belvedere e del Laocoonte, oggi ai Musei Vaticani. Di ritorno in Toscana, Montorsoli continua a lavorare con Michelangelo, poi si mette in proprio; qualche anno dopo è a Genova, dove si mette al servizio della potentissima famiglia dei Doria e lascia numerose opere pregevoli.

Quando rientra a Roma dopo i lavori fiorentini, il Montorsoli è già uno scultore affermato e di successo, come testimonia la biografia del Vasari, che lo cita fra i maggiori dei suoi tempi; è il 1547 e una serie di fortunati eventi portano il grande artista nella città dello Stretto. In quell’anno infatti il Senato di Messina, deciso a celebrare la conclusione dell’acquedotto del Camaro con l’edificazione di una sontuosa fontana davanti al Duomo, manda suoi uomini a Roma a cercare un artista di talento per dirigere i lavori. La prima scelta, racconta il Vasari, cade su Raffaello di Monte Lupo, anche lui della scuola di Michelangelo; ma lo scultore si ammala prima della partenza e il Montorsoli non si fa sfuggire l’occasione di sostituirlo.

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Fontana di Orione, 1553. Messina, Piazza Duomo. Ph: Giulia Greco

A Messina il Montorsoli stringe amicizia con uno dei più acclamati e influenti intellettuali cittadini, Francesco Maurolico: da questo sodalizio nascono quelli che sono considerati senza ombra di dubbio i suoi capolavori. Per le sue opere, Maurolico scrive versi in latino, escogita strutture ricche di complessi riferimenti mitologici e forse contribuisce anche alla progettazione degli elementi idraulici; dal canto suo, Montorsoli trasforma, col suo estro artistico e l’abilità del suo scalpello, in solido marmo le visioni del dotto messinese.

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Fontana del Nettuno, 1557. Messina, via Vittorio Emanuele II (Lungomare del Nettuno). Ph: Martina Galletta

Nel 1553 viene ultimato il primo lavoro messinese del Montorsoli: è la fontana di Orione, ancora oggi fiore all’occhiello del patrimonio artistico messinese e, volendo, nazionale, se pensiamo che lo storico dell’arte Bernard Berenson la definì “la più bella fontana del Rinascimento europeo”. Segue, nel 1555, il monumentale complesso dell’Apostolato che, oggi ricostruito, orna le due navate laterali del Duomo. Nel 1557 invece viene edificata l’altra, magnifica, fontana costruita stavolta per ornare la banchina del porto: è la fontana del Nettuno, solenne e poderosa, un Nettuno ieratico e olimpico come l’Apollo del Belvedere ed echi del Laocoonte, nelle pose contorte e nelle espressioni drammatiche di Scilla e Cariddi, muscolose come i Prigioni di Michelangelo.

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Dettaglio dal complesso dell’Apostolato, 1555, Duomo di Messina. Foto risalente al periodo pre-1908, scattata da Giorgio Sommer.

Oltre a queste, sono documentate numerose altre opere oggi perdute, fra cui il progetto della Chiesa di San Lorenzo, completamente distrutta dal terremoto del 1783; diverse opere minori custodite al Museo Regionale; gli è anche attribuita tradizionalmente, benchè oggi la sua paternità sia messa in dubbio dallo studio delle fonti storiche, la Torre della Lanterna detta una volta del Garofalo, situata sul Braccio di San Ranieri.

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Nettuno e Scilla, originali dalla Fontana del Nettuno, 1557. A destra: “La trinità”, bassorilievo, anni ’50 del ‘500. Messina, Museo Regionale. Ph: Giulia Greco

Tornato a Firenze, nel 1563, dopo che il rigore successivo al Concilio di Trento e alla Controriforma lo aveva costretto a porre fine alle sue peregrinazioni e a tornare alla vita in convento, Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli, muore. Toscano di nascita, forgiato nella culla del Rinascimento e del Manierismo, è a Messina, città dello Stretto nel pieno del suo periodo d’oro, che questo grande scultore lascia i suoi fiori più belli.

Gianpaolo Basile

Image credits:

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https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Angelo_Montorsoli#/media/File:Sommer,_Giorgio_(1834-1914)_-_n._1743_-_Messina_-_Cattedrale.jpg

Messina, signora dello Stretto: la fontana del Nettuno

Raccontare la storia di Messina è raccontare la storia del suo mare, lo Stretto, quel braccio d’acqua salata largo pochi chilometri che la separa, insieme alla Sicilia, dal resto della penisola italiana. Dal mare, nel corso dei secoli, la città ha tratto la sua linfa vitale, come città di pescatori, marinai e mercanti: dal mare provenivano le sue ricchezze e gran parte del suo potere e della sua importanza. Eppure in tempi ancora più antichi, avvolti nelle nebbie del mito, lo Stretto di Messina era considerato tutt’altro che un mare ospitale per i naviganti; e proprio le sue capricciose correnti, sovente causa di naufragi, diedero ispirazione al mito omerico (tramandato già nell’Odissea) di Scilla e Cariddi, due orrendi mostri marini che ne infestavano le coste e distruggevano le navi dei marinai.

È a questa simbologia che si ispira un monumento conosciutissimo, quasi un emblema della città di Messina: la fontana del Nettuno, immancabile omaggio della Città al suo mare. È opera del Montorsoli, artista rinascimentale collaboratore di Michelangelo ed attivo a Messina nella seconda metà del ‘500, già artefice, nel 1553, della fontana di Orione, di cui abbiamo discusso nella scorsa uscita. Anche quest’opera, conclusa nel 1557, fu commissionata dal Senato della città di Messina, e anche quest’opera vide il Montorsoli affiancato, nella concezione della struttura, dall’onnipresente abate Maurolico, che anche qui fu autore di alcune delle iscrizioni latine; ma se nella fontana di Orione il tema della mitologica origine della città era solo lo spunto per una vivace e frizzante celebrazione in stile manierista, qui la mitologia diventa allegoria della Città stessa, signora dello Stretto e vincitrice sulle insidie del mare. Anche lo stile sembra cambiare in vista di questo nuovo messaggio, e al dinamismo e alla ricchezza decorativa dell’opera precedente si contrappone qui uno stile più sobrio, misurato e solenne, con evidenti richiami michelangioleschi.

Protagonista assoluto è Nettuno, il dio del Mare, riconoscibile dal tridente, suo attributo; ha il braccio proteso in avanti, lo sguardo all’orizzonte, la posa è plastica e l’espressione ieratica ed imperturbabile; domina la struttura dall’alto del basamento su cui è posto, il cui bordo è ornato da mascheroni e conchiglie alternati. Purtroppo si tratta di una copia, realizzata da Gregorio Zappalà nel 1856 per preservare l’originale, che si trova al Museo Regionale. Sulla faccia frontale del basamento fa bella mostra di se lo stemma imperiale di Carlo V d’Asburgo, caricato del collare dell’Ordine del Toson d’Oro e fiancheggiato dalle colonne d’Ercole, mentre gli angoli del basamento sono ornati dalle code di delfino di quattro cavallucci marini, che sporgono verso la vasca sottostante.

 

La calma e la serenità olimpica di Nettuno contrastano in maniera stridente con le due statue laterali, raffiguranti Scilla e Cariddi ridotte simbolicamente in catene, che gridano disperate e si dimenano. Le sembianze mostruose delle due creature, rappresentate con corpi femminili e code di pesce, sono rese ancora più terribili dalle espressioni accentuatamente drammatiche dei volti, mentre nelle pose contorte e nei corpi muscolosi è possibile quasi intravedere l’impronta del maestro Michelangelo. Scilla, a sinistra, è riconoscibile dai volti di cani latranti che le sporgono dalla vita, così come viene descritta da Ovidio nelle Metamorfosi; è anch’essa una copia, stavolta di Letterio Subba, del 1858, dato che l’originale fu danneggiato da una cannonata durante le rivolte del 1848 ed è anch’esso al Museo Regionale.

Oggi l’intero complesso si trova in zona Boccetta, sul lungomare, di fronte al Palazzo del Governo, sede della Prefettura, ed è rivolto verso il mare; prima del terremoto del 1908 invece si trovava più a sud, sul lungomare, ed era rivolto in modo che Nettuno guardasse la città. Il messaggio simbolico è evidente: dopo aver incatenato i due mostri Scilla e Cariddi, Nettuno, dio del Mare, si rivolge alla Città offrendole i suoi frutti. Questo fece nascere però una storiella popolare circa la fontana, secondo cui la statua non raffigurava Nettuno ma un mitico pescatore gigante, “lu Gialanti pisci”, che aveva deciso di catturare i due mostri marini per scommessa con dei pescatori calabresi. La statua avrebbe dunque volto le terga alla Calabria per sbeffeggiare gli eterni rivali sull’altra sponda dello Stretto: ma questa, naturalmente, è solo una leggenda…

Gianpaolo Basile

Ph: Martina Galletta