Un tuffo nella moda del passato: il Museo del Costume e della Moda Siciliana

La moda italiana è apprezzata in tutto il mondo perché dotata di un’eccellente sartoria, che lavora tessuti pregiati, e di stilisti dalle menti creative. Essa è una forma d’arte che rappresenta la storia, le tradizioni e le radici culturali di un popolo.

La moda è in continua evoluzione, e magari chi tra di noi è appassionato dell’argomento potrebbe aver avuto il desiderio di analizzare dal vivo i costumi siciliani del passato. Questo oggi è possibile grazie al Museo del Costume e della Moda Siciliana, situato a Mirto (ME).

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Il logo del Museo del costume e della moda siciliana -Fonte: museodelcostumesiciliano.org

La location

Il museo consente di ammirare al suo interno una ricca collezione d’abiti tipici del modo di vestire nella Sicilia dei secoli precedenti, dai ceti più agiati alle classi popolari. È stato inaugurato nel 1993 all’interno dello storico Palazzo Cupane, di proprietà comunale, per volere di Giuseppe Miraudo, direttore del museo, il quale donò per primo parte della sua collezione privata di abiti e accessori.

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Esterno del Museo – Fonte: letteraemme.it

Lo stabile è diviso in sezioni in base all’epoca,  partendo dal basso, con la sezione di abiti popolari che comprende costumi etnici utilizzati durante le feste popolari e religiose. Vi sono esposti anche antichi strumenti per la lavorazione tessile e oggetti di uso casalingo.

 

Gli abiti

Al primo piano troviamo costumi d’abbigliamento tipici dello stile siciliano, datati dal XVIII al XX secolo.

Al secondo piano troviamo la biancheria intima con i famosi corpetti, costumi da bagno, corredi, capi infantili settecenteschi e abiti da sposa. Inoltre sono presenti anche pezzi di moda anni ’20 del ‘900.

Il museo è dotato di un cortile immerso nel verde.

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Abito in seta verde del 1860, primo piano del Museo – Fonte: letteraemme.it

Nell’ingresso del primo piano troviamo diversi abiti ottocenteschi borghesi di importanti famiglie sicule. Per esempio un abito in seta verde del 1860, capi in seta del 1870 donati da Ferlazzo Natoli di Patti, diversi corpetti, e un Frac maschile dello stesso decennio.

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Sezione abiti anni ’20 del Museo – Fonte: scomunicando.it

Il salone è utilizzato inoltre per conferenze e dibattiti. Nella sezione dedicata agli anni ’20 è presente un pezzo d’abbigliamento raro, un Fortuny recentemente restaurato dall’Istituto di Restauro del tessuto di Palermo.

Nella stessa sezione ci sono cinque abiti in tulle interamente ricamati con pailettes jees, un abito dal disegno futurista della famiglia Vilardi di Mirto, un vestito da sposa ricamato su tulle, diversi corpetti liberty, un abito laminato Florio, e due grandi vetrine donate dalla professoressa Teresa Pugliatti, contenenti cappelli e accessori del periodo.

Tramite le sue stanze il museo testimonia anche fatti storici: sono presenti, ad esempio, le camicie rosse dei “picciotti” garibaldini e gli abiti serali che le dame indossavano durante le serate danzanti organizzate dai “gattopardi” nei primi del ‘900.

 

Il contributo di Maria Grazia Cucinotta

Ha dato ulteriore lustro al museo Maria Grazia Cucinotta. L’attrice messinese, infatti, ha visitato lo stabile al termine delle riprese del film “Miracolo a Palermo”, di cui Miraudo è stato scenografo. La Cucinotta, accettando simbolicamente il ruolo di “madrina” a titolo gratuito, ha concesso di utilizzare la sua immagine, volutamente in abito d’epoca, così da divenire testimonial ufficiale.

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La nota attrice Maria Grazia Cucinotta come testimonial per il museo di Mirto – Fonte: palermotoday.it

 

Un tuffo nel passato!

Antecedentemente all’emergenza sanitaria il museo organizzava spesso sfilate ed ospitava eventi.

Nonostante questo momento di crisi e diffidenza sociale, lo stabile resta tutt’ora aperto al pubblico nel rispetto delle misure di sicurezza anti covid19. Nel frattempo è anche online, sul sito internet, il tour a 360 gradi del museo.

E a voi ha affascinato questo piccolo tuffo nella moda del passato? I nostri antenati si vestivano proprio così!

 

Diana Colombraro, Corinne Marika Rianò

 

Immagine in evidenza:

Il Museo del costume e della moda sicilia – Fonte: facebook.com/museomirto

Fast Fashion: il vero costo della nostra maglia comprata a 3 euro

Il male è banale, lo diceva Hannah Arendt. Ed è più che mai vero, se consideriamo quali catastrofiche conseguenze possano avere le nostre “insignificanti” azioni quotidiane. Una delle tante storie dell’incontro tra la banalità dei comportamenti umani e la categoria del male è quella della fast fashion.

Che cos’è la fast fashion?

Il termine “fast fashion”, letteralmente “moda veloce”, indica il cambiamento che ha investito il settore dell’abbigliamento negli ultimi vent’anni dettando nuove regole di produzione: una produzione rapida che renda disponibili capi di abbigliamento diversi ogni settimana e, soprattutto, a basso costo.

Rappresentanti di questo imponente meccanismo di distribuzione della moda low cost sono rinomate catene presenti in tutto il mondo, come H&M, Primark, Zara. Dei paradisi terrestri che sembrano poter esaudire tutti i sogni dei ragazzi del XXI secolo: essere alla moda come Chiara Ferragni ma con quattro spiccioli; soddisfare la mania di sostituzione del vecchio col nuovo acquistando ogni settimana vestiti diversi; sentirsi rassicurati perché “tanto costa 3 euro, se non mi piace più, lo butto”. Oggi in nessun settore così come in quello dell’abbigliamento la logica del consumismo gioca così bene le sue carte.

Fonte: courses.washington.edu

La fast fashion sembra proporre una moda inclusiva e democratica. Probabilmente, questa è la ragione per cui si è radicata a tal punto nella società di oggi. Grazie ai bassi costi, ogni individuo può accedervi esprimendosi, attraverso i vestiti, al meglio e decidendo di volta in volta chi essere: un giorno un po’ hippie, un giorno un po’ punk, un giorno bon ton.

Purtroppo, la fregatura è dietro l’angolo.

Il prezzo pagato dai lavoratori

Basta guardare al prezzo per rendersene conto. Da cosa deriva il prezzo di un prodotto? Dalla manodopera e dalle materie prime impiegate, dai costi di trasporto, dal margine di profitto richiesto dal negoziante. Considerati tutti questi fattori, come può una maglia costare 3 euro? Qualcuno tra gli elementi coinvolti nel processo di produzione deve necessariamente essere trascurato: lo sono, innanzitutto, i lavoratori.

Non si tratta naturalmente dei lavoratori europei o americani che, sebbene nel mercato nero vengano ampiamente sfruttati, sono, per lo meno legalmente, tutelati dalla legge. Un operaio europeo costa troppo se i parametri da rispettare sono prezzi bassi per i consumatori e, soprattutto, un esorbitante guadagno per gli imprenditori.

Che fare? Molto semplice: basta spostare il processo di produzione in luoghi in cui il concetto di “diritto del lavoratore” non è conosciuto neanche lontanamente. Il guadagno è di certo assicurato. Come? Grazie ad un lavoro giornaliero di 12\16 ore, ad una paga di un euro al giorno, alla noncuranza verso le pessime condizioni igienico-sanitarie e verso la fatiscenza della struttura delle fabbriche. Possiamo dirlo a gran voce: si tratta di sfruttamento umano o, se vogliamo, di una vera e propria schiavitù. Ecco qual è il vero costo della famosa maglia a 3 euro.

Uno dei luoghi maggiormente coinvolti in tale meccanismo è il Bangladesh, dove quasi 5 milioni di abitanti lavorano nel settore dell’abbigliamento.

Il crollo del Rana Plaza e l’Accord on Fire and Building Safety

Il crollo del Rana Plaza – Fonte: www.corpgov.net

Proprio a Dacca, la capitale del Bangladesh, il 24 aprile del 2013, ha avuto luogo il più grande incidente dell’industria del tessile. Il crollo del Rana Plaza, un edificio che ospitava delle fabbriche di abbigliamento legate a marchi europei, per esempio Benetton, ha causato la morte a 1134 persone e gravi ferite a 2500 persone. E no, non si tratta di fatalità, di cose che possono succedere. Infatti, i proprietari sapevano bene che l’edificio non fosse a norma. Nonostante ciò, hanno continuato a far lavorare gli operai, minacciando di licenziarli qualora non svolgessero la loro mansione.

Il tentativo di correre ai ripari è stato tempestivo. Infatti, ecco pronto nel luglio del 2013 l’Accord on Fire and Building Safety, un contratto vincolante tra 70 marche e rivenditori del settore dell’abbigliamento, sindacati internazionali e locali e ONG con l’obiettivo di assicurare miglioramenti delle condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento in Bangladesh.

L’inchiesta delle Iene

Questo accordo è stato negli anni rispettato? A rispondere a questa domanda è stata, nel 2017, un’inchiesta delle Iene. L’indagine ha rivelato che in Bangladesh, anche dopo il crollo del Rana Plaza, esistevano ancora strutture non in sicurezza, messe in pericolo dalle vibrazioni delle macchine da cucire, con dentro 1500 persone, senza rispetto delle norme antincendio. Fabbriche alle quali, nonostante l’accordo del 2013, si appoggiava un noto brand italiano, non nominato dalle Iene.

I giornalisti del programma di Mediaset hanno ceduto la parola ad un sindacalista bengalese che ha rivelato quanto guadagna un operaio del luogo: dai 35 ai 50 euro al mese per 12/16 ore lavorative al giorno. Ha raccontato inoltre della Horizon, una ditta che lavorerebbe anche per un marchio italiano, in cui sono rimaste disabili molte persone a causa di incidenti sul lavoro.

Tra l’altro, l’inchiesta ha portato alla luce un grave avvenimento tenuto fino ad allora sotto silenzio, per lo meno in Italia: l’esplosione, nel 4 luglio del 2017, a causa di un cortocircuito, della Multifab, un’altra ditta del settore tessile.

Perché le cose non sono cambiate?

L’accordo purtroppo non avrebbe mai potuto demolire il cuore stesso del problema: la logica del profitto che opera a vantaggio di pochi e a svantaggio di molti. Se gli imprenditori bengalesi vogliono continuare ad avere rapporti commerciali con le aziende europee, devono necessariamente stare al loro gioco: pagare pochissimo la manodopera per assicurare loro prezzi bassi e, dunque, un enorme guadagno.

Benjamin Powell – Fonte: www.youtube.com

Benjamin Powell, professore di economia alla Texas University, in un’intervista rilasciata per il documentario “The true cost” ha analizzato la questione ponendosi una domanda: “Può lo sfruttamento in Bangladesh essere un fattore positivo?”. Dal suo punto di vista, i bengalesi accettano dei salari bassi perché non hanno alternative, o meglio, le alternative sarebbero peggiori. Lo sfruttamento, in quest’ottica, sarebbe il male minore. Questo ragionamento si muove all’interno di un morbo da cui è affetto il mondo intero da secoli: la “necessaria” supremazia dell’Occidente. Basta andare al di là di questo parametro di riferimento per scoprire che le alternative allo sfruttamento esistono: introdurre leggi, garantire diritti, assicurare vivibilità.

Il prezzo pagato dall’ambiente

Come se non bastasse, la fast fashion ha delle disastrose conseguenze anche sull’ambiente.

L’industria tessile è seconda a livello mondiale per tasso di inquinamento ambientale. Infatti, molte sono le materie prime coinvolte nel processo di produzione, come l’acqua, la terra per far crescere le fibre, prodotti chimici per la tintura dei tessuti.

A questo si aggiunge l’uso, introdotto dalla fast fashion, di tessuti più economici ma altamente nocivi, ad esempio il poliestere, che contribuisce all’inquinamento generato dalla plastica: con un bucato di poliestere vengono sprigionate nell’ambiente 700000 fibre di microplastica.

L’impatto delle fibre sull’ambiente – Fonte: www.altrogiornale.org

Gravi danni sono causati anche dall’ossessivo e illusorio bisogno, generato dalla fast fashion, di indumenti sempre nuovi, al quale risponde una massiccia produzione di vestiti che ha come conseguenza una maggiore estrazione di risorse naturali a cui si aggiunge l’emissione di gas a effetto serra durante l’estrazione della materia prima, la fabbricazione, il trasporto e lo smaltimento del prodotto. La quantità di vestiti comprati da una famiglia media ogni anno sprigiona la stessa quantità di emissioni che si producono quando si guida una macchina per 6000 miglia e, per fabbricarli, è necessaria acqua sufficiente a riempire 1000 vasche da bagno.

Inoltre, a causa dei rapidi cambiamenti di tendenza, della cattiva qualità dei tessuti che si usurano in breve tempo e della mania di acquistare indumenti di cui non abbiamo bisogno, è aumentato notevolmente il numero di vestiti che ogni anno riempiono le discariche.

 Esistono alternative alla fast fashion?

Di fronte ad un problema che chiama in causa meccanismi a tal punto sedimentati da agire come leggi naturali, come il capitalismo, il consumismo e il materialismo, pensare a delle alternative sembra difficile. In realtà c’è chi l’ha fatto. Per citarne una, l’azienda tessile Manteco di Prato che si è specializzata nella produzione di lana e tessuti sostenibili e rigenerati per i più prestigiosi marchi della moda internazionale, tanto da vincere nel 2018 il premio Radical Green. Un grande passo in avanti per limitare, quanto meno, le conseguenze del problema potrebbe semplicemente essere comprare presso piccoli commercianti o diminuire gli acquisti, soprattutto quelli superflui. Ma fondamentale, prima di ogni cosa, è riconoscere il centro della questione: anche nelle più banali azioni quotidiane, come acquistare un vestito, siamo responsabili di ciò che accade nel mondo che ci circonda.

Chiara Vita 

 

Apritimoda: le grandi griffe aprono le porte dei loro laboratori e atelier

Fonte: milanoweekend.it

Il mondo della moda e dell’artigianato spalancano le loro porte al pubblico. E non è solo un modo di dire, ma pura realtà.

Dopo il successo delle edizioni precedenti, infatti, torna Apritimoda, l’iniziativa che per un weekend- nello specifico il 24 e 25 ottobre – permetterà ai visitatori di entrare gratuitamente negli atelier e laboratori di alcuni dei brand più famosi e scoprire da vicino come prendono vita le creazioni simbolo del nostro Made in Italy.

A differenza degli anni passati, quest’anno, l’evento non si limiterà solo alla città di Milano o Firenze, ma si allargherà a tutta la penisola. Una vera e propria mappa di tesori non conosciuti che si svela al pubblico, con l’obiettivo di disegnare anche un nuovo inizio per una delle più importanti attività economiche del nostro Paese. E non ultima un’occasione per visitare luoghi e palazzi storici che si svelano in tutto il loro splendore.

Oltre i portoni di palazzi storici, dentro cortili incantati, nelle vecchie fabbriche reinventate, il genio, la cultura, la capacità artigianale italiana diventano prodotti dei quali conosciamo solo l’esito finale. ApritiModa ci fa scoprire dove tutto questo ha origine.

I luoghi più vicini a noi

Catania con Marella Ferrara

Nel centro storico di Catania, dove si incontrano piazza Duca di Genova e via Museo Biscari, c’è uno dei più importanti palazzi privati della città, Palazzo Biscari. Costruito alla fine del settecento e simbolo del Barocco siciliano, oggi il sontuoso palazzo ospita la sede di Marella Ferrera Museum & Fashion, che a sua volta racchiude il Museo della Moda, il Museo della Grazia, il Mondo del Fashion e l’atelier d’haute couture della stilista. Acclamata come rivelazione dell’anno ad Alta Moda nel ’93, ancora oggi la stilista catanese trasforma stoffa in arte usando materiali come pietra lavica, ossidiana, terracotta, cristallo di rocca e fili di rame per raccontare la storia della sua isola.

Fonte: apritimoda.it

Mappa per raggiungere il luogo:

Trapani con FENDI hand in hand Platimiro Fiorenza

Il progetto ‘hand in hand’ celebra una collaborazione unica tra FENDI e le eccellenze dell’artigianato italiano. All’interno della storica gioielleria e bottega artigiana Rosso Corallo a Trapani, l’orafo corallaio Platimiro Fiorenza presenta l’inedita Baguette ‘hand in hand’ realizzata in collaborazione con FENDI per il progetto, che vede la creazione di 20 Baguette, l’iconica borsa disegnata da Silvia Venturini Fendi nel 1997, interamente fatte a mano da 20 artigiani, uno per ogni regione d’Italia, con le lavorazioni più peculiari e tradizionali, rendendo omaggio all’artigianato e alla creatività del nostro paese. La borsa Baguette ‘hand in hand’ realizzata da FENDI e Platimiro Fiorenza rappresenta la regione Sicilia.

Fonte: apritimoda.it

Mappa per raggiungere il luogo:

Calabria con il Lanificio Leo

La sede di Soveria Mannelli, in provincia di Catanzaro, è l’ultima di varie località che fanno capo al Lanificio Leo, ma solo qui c’è “una geografia irregolare dove si respira la bellezza semplice della dimensione rurale.” Caratterizzata da grandi macchinari a sessanta fusi, la manifattura del lanificio fondato nel 1873 segue tutto il processo della lana, dal filato, alla tessitura alla finitura, integrando design contemporaneo con maestria artigianale.

Fonte: apritimoda.it

Mappa per raggiungere il luogo:

INFORMAZIONI VISITA E PRENOTAZIONE

Per partecipare è necessario prenotare la visita, utilizzando il form sottostante inserendo i relativi dati selezionando la data di visita e l’orario. Una volta effettuata la prenotazione e avvenuta la registrazione, l’utente può modificare i propri dati e le prenotazioni sino a 48 ore prima dell’evento. L’iniziativa è totalmente gratuita pertanto è gradita l’immediata comunicazione di modifica e/o disdetta della partecipazione.

Durante la visita sarà necessario rispettare le misure di sicurezza anti covid-19,  per qualsiasi ulteriore informazione sono a disposizione sul sito apritimoda.it le FAQ.

Per ulteriori informazioni e per scoprire tutte le sedi ApritiModa visita il sito apritimoda.it .

Scatta la solidarietà del Made in Italy: ecco come le aziende stanno aiutando l’Italia

A fronte dell’emergenza Covid-19 molte aziende italiane hanno deciso di convertire il loro sistema produttivo per arginare la mancanza ormai nota dei presidi sanitari dedicando il proprio operato soprattutto ai medici, alla protezione civile e alle forze dell’ordine che sin dal primo giorno hanno fronteggiato in prima linea questo nemico invisibile anche in condizioni di precaria sicurezza.

Le aziende del made in Italy si sono fatte avanti non solo con donazioni ma hanno mostrato interesse nel venire incontro al sistema sanitario attraverso la produzione di camici, guanti, calze e occhiali a uso sanitario,  oltre a gel disinfettanti.

Il grande gruppo Armani, di Giorgio Armani stilista e imprenditore italiano, ancora una volta stupisce. Fra i più celebri marchi a livello internazionale , la casa di moda ha deciso  di convertire tutti gli stabilimenti italiani nella produzione di camici monouso per la protezione degli operatori sanitari.

Ma non si è fermato qui lo stilista italiano, arrivando a donare ben 2 milioni di euro complessivi agli ospedali Luigi Sacco, San Raffaele, Istituto dei Tumori di Milano, Spallanzani di Roma e gli ospedali di Bergamo, Piacenza e Versilia.

Coronavirus donazioni. Armani, Valentino, Gucci: il cuore grande ...

In fila per l’emergenza Coronavirus scende in campo anche Prada. Oltre le donazioni, ha fatto saper che, su richiesta della Regione Toscana, ha avviato la produzione di 80.000 camici e 110.000 mascherine da destinare al personale sanitario della regione con un piano di consegne giornaliere che termineranno il 6 aprile. In funzione di ciò Il Prada Montone (a Perugia) è stata l’unica struttura rimasta aperta adibita alla produzione di camici e mascherine.

Armani produce camici, Herno mascherine, Gucci lancia un ...

Generosa anche l’iniziativa della maison fiorentina Gucci, preparando nei suoi stabilimenti oltre un milione di mascherine e 55.000 camici per gli ospedali italiani. Inoltre, in seguito alla lettera firmata dal presidente e Ceo di Gucci, Marco Bizzarri; e Alessandro Michele, direttore creativo , la casa di moda si è attivata insieme alla propria community globale con due donazioni a favore di due specifiche campagne di crowdfunding, per complessivi due milioni di euro: in Italia a favore del Dipartimento della Protezione Civile in collaborazione con Intesa Sanpaolo; e a livello globale, a favore del COVID-19 Solidarity Response Fund a supporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità attraverso la campagna di matchmaking di Facebook.

Seguono  Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti Foundation che hanno donato 1 milione di euro per sostenere la lotta contro il Coronavirus a beneficio del Columbus Covid 2 Hospital, nuova area interamente dedicata all’emergenza sanitaria nel Policlinico dell’Università Agostino Gemelli di Roma. L’ospedale Columbus Covid 2 è stato inaugurato il 21 marzo .

“In un momento così drammatico per tutto il mondo, abbiamo voluto dare il nostro contributo per vincere questa battaglia cruciale contro questo nemico invisibile, ma terribile – hanno commentato lo stilita e il suo partner storico. La nostra più profonda gratitudine va a quelle donne e uomini che combattono giorno e notte per salvare vite umane nei nostri ospedali. Non saremo mai abbastanza grati per l’amore e la dedizione che stanno dimostrando in un momento così drammatico”. 

Si aggiungo ai volti noti dell’industria italiana, anche Ramazzotti, azienda liquoristica italiana nata nel 1815 e parte del gruppo Pernod Ricard.

“In questi giorni ci siamo chiesti come dare una mano, ed ecco la nostra risposta: abbiamo imbottigliato dell’igienizzante mani nella nostra distilleria di Canelli (Asti) e lo doneremo alla Croce Rossa Italiana, alla Protezione Civile, ai Vigili del Fuoco e alla Municipale di Canelli. Con la speranza di tornare presto a dire ‘Bella La Vita'”, hanno scritto in un messaggio i responsabili dell’azienda.”

Coronavirus, adesso l'Amaro Ramazzotti produce disinfettante per le mani

La produzione di disinfettante è stata avviata quando ancora la situazione non era così drastica, con le prime bottigliette distribuite al personale della distilleria e degli uffici di Milano. L’azienda non è stata riconvertita completamente, per rispettare  le scadenze di consegna soprattutto con il mercato estero, ma ha dedicato alcune linee alla produzione e all’imbottigliamento del disinfettante. Il processo prevede che ogni bottiglietta venga riempita manualmente, e in più nella miscela di disinfettante venga inserita anche una parte di distillato di scorza d’arancia, lo stesso usato nell’amaro, per differenziare con un tocco innovativo e caratteristico il prodotto.

Anche il Gruppo tessile veronese Calzedonia ha riconvertito da ieri alcuni dei propri stabilimenti alla produzione di mascherine e camici, a seguito della grande  richiesta in relazione all’emergenza Coronavirus . L’operazione, fa sapere l’azienda, è stata promossa dal presidente, Sandro Veronesi, che dall’inizio dell’emergenza ha dapprima chiuso tutti i punti vendita delle zone rosse e successivamente quelli di tutta Italia, anticipando i decreti del governo.

Questo nuovo assetto prevede un piano riguardante la produzione di 10.000 mascherine al giorno nella fase iniziale, con un incremento previsto nelle prossime settimane. La consegna delle mascherine è iniziata lo scorso lunedì 23 marzo con le prime 5.000 donate al comune di Verona. La conversione è stata possibile sia grazie all’acquisto di macchinari speciali per la creazione di una linea semi-automatica, sia formando le cucitrici al nuovo tipo di produzione.

Queste sono solo alcune della lunga lista di iniziative portate avanti dalle industrie italiane, consapevoli più che mai, che adesso è il momento di fare la differenza dimostrando solidarietà e appoggio all’intero paese.

Nonostante l’industria della moda sia stata la più influente in termini di donazioni e mobilitazioni, resta comunque uno dei settori maggiormente colpiti dal Covid-19. Il peso delle ripercussioni non è lieve, se si considerano diversi fattori tra cui l’arrivo del virus in concomitanza con la settimana della moda, la mancata presenza di acquirenti provenienti dalla Cina e dal Giappone (mercato di riferimento per l’esportazione italiana) ed un consumo diminuito drasticamente a livello globale. Le nuove stagioni, soprattutto quelle primavera-estate 2020 saranno le più colpite dalla crisi, ma anche quelle di autunno 2020 avranno ripercussioni negative. Insomma, nonostante il calo vertiginoso delle vendite e una situazione drammatica nel made in Italy, l’intero settore della moda – e non solo – sente la responsabilità sociale (oltre che la necessità) di rimettere in piedi l’Italia.

Eleonora Genovese

 

Fashion Week 2019

Fashion Week 2019: Un nome, una settimana all’ultimo grido che annuncia la moda in grande stile. 60 sfilate, 81 presentazioni e 33 eventi per la città di Milano, con una nuova collezione autunno/inverno di tutti quei marchi che hanno fatto sognare, non solo le mura di Milano, ma di tutta Italia. Con i migliori stilisti che hanno reso possibile l’impossibile.

A partire da Prada con il suo stile romantico in chiave dark, ironicamente gotico e pieno di rifermenti ai classici dell’horror, ispirandosi al gotico della famiglia Addams con la sua caratteristica inconfondibile: le trecce lunghe della protagonista Mercoledì. Ma quest’anno non tutti gli stilisti erano concentrati in questo grande evento, anche nel mondo della moda il nero si fa avanti, con la grande perdita di Karl Lagerfeld, sarto tedesco, stilista e fotografo, definito come: “il leggendario Kaiser della moda”… Keiser Karl, così veniva chiamato nel mondo della moda.

Un uomo che è stato fino a poco tempo fa un emblema per tutte le modelle, e a confermarlo è stata proprio una di quest’ultime, alla quale Karl ha fatto aprire gli occhi su ciò che si stava perdendo dietro la sue timidezze da ragazzina, aiutandola sempre di più per diventare una fotomodella piena di carisma. Essa dichiara che Karl ha fatto di lei una topmodel che oggi vedremo sulle passerelle con sicurezza e determinazione facendole scoprire non solo la bellezza di questo mondo, ma insegnandole la moda così come stile per sopravvivere nel mondo del “Look all’ultimo grido”. Proprio con queste ultime parole si esprime con un post su Instangram Claudia Schiffer, ricordando lo stilista: “Quello che Andy Wharhol era per l’arte, lui lo era per la moda…Colui che rendeva il bianco e il nero pieno di colore – aggiunge la Schiffer – Uno stilista che non ha mai camminato con un solo colore, cercando di farne combaciare più di uno”. Ecco come inizia una settimana ricca di colore con qualche sfumatura di bianco e nero, con il ricordo di Karl Kaiser che si fa spazio nella mente delle modelle e con le passerelle che si fanno più grandi per i loro prossimi stili.

Dalila DeBenedetto

L’involuzione chiamata “Black Friday”

Lo scorso fine settimana anche il “Belpaese”, come il resto del mondo, è stato travolto dall’ondata sensazionalistica del “Black Friday”, per i meno anglofoni “Venerdì nero”.

Dopo la consacrazione di questa promozione commerciale a  fenomeno sociale nel 2017, l’interesse dei consumatori per il 2018 è perfino aumentato.

I dati generati dalle analisi dell’E-commerce parlerebbero chiaro: le ricerche online riguardanti le super offerte del Black Friday sarebbero aumentate del 29%, peraltro con un correlato incremento degli acquisiti pari al 20%.

 

In tal senso il Nord-Italia sarebbe più coinvolto rispetto ad un Sud-Italia non ancora avvezzo alle pratiche del “Venerdì Nero”.

Le ultime ricerche sul trend in crescita dell’iniziativa promozionale di matrice americana hanno rivelato anche le fasce più sensibili agli sconti mirabolanti: al primo posto i consumatori tra i 35 ed i 44 anni, al secondo posto i giovani tra i 25 ed i 34 anni, al terzo posto gli adulti tra i 45 ed i 54.

 

La tecnologia in vetta tra le categorie d’acquisto: smartphone, televisori, tablet, pc, smartwatch e console gli articoli più richiesti sul mercato, con una spesa media per consumatore di 124 euro.

Esistere per consumare, comprare per acciuffare una felicità apparente e fuggevole, acquistare per soddisfare il desiderio inappagabile di possesso.

Store, centri commerciali, negozi e boutique dunque invasi non più da persone ma da automi privi di identità in una società frenetica e caotica, condannata dalla sua stessa velocità.

Nella spirale del consumismo ormai usa e getta tutto perde di valore, fascino ed interesse in pochissimo tempo.

Giudicati in base alla capacità di consumare, diventiamo soggetti passivi che sconoscono qualsiasi diversità culturale, riuscendo ad importare dall’estero solo il peggio.

Parallelo al consumismo e molto pericoloso,  è il processo di mercificazione dei valori umani e culturali che dovrebbero essere assolutamente esclusi dalle logiche di compravendita commerciale.

Siamo tristemente attori protagonisti di una farsa che potrebbe intitolarsi: involuzione antropologica.

Antonio Mulone

Qual è il trend della moda autunno inverno 2018-2019?

Molti di noi, amanti della moda,  ogni stagione si chiedono cosa farà tendenza e cosa no. Ed io sono qui proprio per rispondere a questa vostra domanda.

Dunque qual è il trend della moda Autunno Inverno 2018-2019?

In queste ultime sfilate molti stilisti come Versace, Prada e Max Mara hanno scelto di riproporre nelle passerelle delle loro sfilate alcuni abiti in tartan, ma optando versioni di colori più sgargianti e variazioni sulla fantasia.

Innanzi tutto cos’è il “tartan”?

Il tartan è un particolare disegno dei tessuti in lana scozzesi. Il kilt, il tipico gonnellino scozzese, è realizzato in tartan e difatti questo tessuto è considerato un simbolo tradizionale della Scozia.

Alcuni degli stilisti, dunque,  hanno voluto riprendere la fantasia rimanendo molto vicini all’originale, come ad esempio Dior che propone una versione molto simile al kilt, variandone solo i colori e abbinando la gonna ad una camicia e a degli stivali di pelle nera.  Al contrario, altri designer, come Prada, hanno mutato la fantasia ingrandendola e scegliendo colori più brillanti. Max Mara, invece suggerisce una gonna lunga che ricorda la coperta invernale sia per il motivo che per il tessuto.

Sebbene non tutti apprezzano l’alta moda proposta nelle sfilate,  anche nella moda prêt-à-porter, ovvero,  gli abiti realizzati e venduti in taglie standard, troviamo il tartan.  Basta infatti andare in giro o più semplicemente collegarsi in qualche negozio online,  per  accorgersi come questa fantasia si sia intrufolata nella moda di tutti i giorni, dalle gonne più corte, che riprendono fedelmente il kilt scozzese, alla gonna midi e ai cappotti o alle sciarpe.

Se volete qualche consiglio per azzardare un vostro outfit ecco qui sotto una foto con qualche idea a cui potete ispirarvi.

Da sinistra: sciarpa grafica a maglia leggera; a seguire cappotto senape in tartan;maglione con rivisitazione della fantasia scozzese in chiave pop abbinata ad una mini skirt a vita alta navy; giacca in stile smoking dress rossa, con bottoni d’orati; infine, gonna di flanella in tartan blu  con doppia fibbia sul fianco completato da un dolcevita nero.

 

Andrea Sangrigoli