Evemerismo. Quando l’uomo divenne dio

Il XX secolo ha visto la totalità della comunità scientifica impegnata nell’abbattimento dei topoi storici attribuiti, fin dalle prime esperienze della ricerca storica, ai popoli dell’antichità. E sebbene ormai queste catene si siano effettivamente spezzate, ciò non significa che l’uomo ci sia riuscito al primo tentativo.

Comprendere la propria natura e quella della società nella sua evoluzione è stato il principale motore di tutta la ricerca scientifica nel corso dei secoli. Dalla politica all’economia, dalla psicologia alla religione.

In particolar modo, quest’ultima è ormai risaputo sia il riflesso della società che la genera. Ad una società dispotica corrisponde una religione “dispotica”, ad un areale sociale diversificato corrispondono tanti culti diversi e così via.

 E così nacquero gli dèi

Evemerismo in arte: "La nascita di Venere" di William Adolphe Bouguereau, 1879
La nascita di Venere di William Adolphe Bouguereau, 1879

Un primo tentativo laico di comprendere la natura del proprio credo, dunque la demistificazione del proprio patrimonio religioso, fu proposto da uno storico e filosofo siceliota vissuto a cavallo tra il IV sec. a.C. e il III sec. a.C., Evemero da Messina.

La sua teoria, al tempo accolta con scarso successo, fu esposta nella sua opera storica “Ἱερὰ ἀναγραφή”, o racconto sacro, pervenutaci in frammenti dagli scritti di Diodoro Siculo (storico greco del I sec. a.C.) e di Quinto Ennio (poeta e scrittore romano del III-II sec. a.C.). L’opera fu oscurata dalle produzioni contemporanee, ma il pensiero di Evemero rimase, quasi ibernato, nel panorama filosofico del tempo.

Secondo la sua concezione razionalistica, che teorizzava la natura umana del pantheon greco, alcuni uomini, particolarmente potenti, si affermarono sulla popolazione locale tanto da ottenerne la devozione.

L’iniziale rifiuto dell’evemerismo da parte della comunità filosofica greca, in primo luogo Callimaco, è motivato dalla sua spinta razionalistica.

L’evemerismo, più che elevare comuni mortali al rango delle divinità, declassava gli dèi primordiali paragonandoli ai miseri ἄνθρωποι.

Sebbene sia la piccola riflessione di un poco conosciuto filosofo siceliota del IV sec, l’evemerismo riuscì ad influenzare parte della storiografia medievale, in quanto costituì la principale arma dell’opposizione dei logografi cristiani medievali al paganesimo.

Se perfino un pagano aveva confutato la natura divina di quei falsi dei, come si potrebbe non credere al figlio dell’unico e vero dio?

Dinnanzi ad una analisi approfondita, la mancata paternità della teoria evemeristica appare lapalissiana. Evemero non inventa nulla di ciò che dice, tanto meno è il primo a dirlo. Egli, infatti, eredita la tendenza alla razionalizzazione che già esisteva nel mondo greco e che, a fatica, cercava di evitare l’annegamento nella marea del tradizionalismo religioso.

Autori come Erodoto, Eforo di Cuma ed Ecateo di Mileto avevano già accennato una parziale avversione alle imposizioni della tradizione, mitologiche o letterarie che fossero.

 

Al pari di un eretico

E dunque la riflessione di Evemero sulla natura umana delle divinità si inserisce in un quadro ben più ampio di mutamenti filosofici che intaccano il mondo greco al termine della conquista macedone dell’Oriente.

In quella lontana terra l’uomo è avvezzo a elevare comuni mortali al rango di divinità, ad adorarli alla pari degli altri dèi ed accettarne la dominazione.

L’evemerismo, dunque, avverte il cambiamento filosofico del tempo e se ne impadronisce, offrendo una valida alternativa alla secolare convinzione teologica. Confutato dagli “Inni a Zeus” callimachei, celebrato dall’ “Euhemerus” del poeta latino Ennio, le affermazioni del filosofo Evemero rimasero per secoli i costituenti della principale opposizione razionalistica al teologismo religioso fino ai nostri giorni.

Un pensiero conciso, pungente, che travalica i naturali confini del mondo greco, l’Ecumene, giungendo perfino nella remota Islanda.

Altri dei, altri uomini

Ragnarok, crepuscolo degli dèi. Di Johannes Gehrts.

Nel 1120 uno storico islandese, Snorri Sturluson, attuò la più importante opera di sintesi e condensazione dell’intero patrimonio folkloristico scandinavo nella sua opera “Edda in prosa”, la versione in prosa della principale raccolta di testi mitologici norreni, l’Edda.

In questa sua produzione, Snorri affermò che la natura divina delle divinità destinate al Ragnarok fosse una fandonia. Essi non erano dèi, bensì semplici uomini. Uomini che un tempo furono grandi e che da altri uomini furono celebrati come eroi.

L’erudito islandese, infatti, propose la storia dei protagonisti troiani dell’Iliade che, costretti a scappare da Troia per fuggire dalla devastazione del conflitto, si spinsero a Nord, nelle terre scandinave, dove avrebbero ottenuto fama e potere al tal punto da essere divinizzati dalla popolazione locale.

In seguito, è riportato il passo tratto dal Fyrirsögn ok Formáli, primissima parte dell’opera di Snorri Sturluson, in cui viene raccontata la partenza di Odino, dalle terre del Tyrkland (Turchia) verso Nord.

Óðinn aveva il dono della preveggenza, e così sua moglie, e grazie a tale dono essi seppero che il suo nome sarebbe stato glorificato nella metà settentrionale del mondo, superando in fama tutti gli altri re. Perciò egli fu desideroso di partire dal Tyrkland, e fu accompagnato da una moltitudine di gente: giovani e vecchi, uomini e donne, tutti portando con sé una gran quantità di oggetti preziosi. E mentre attraversavano le terre del mondo, molte cose favolose venivano dette di loro, persino che fossero più simili agli dèi che agli uomini. Il loro viaggio non si concluse finché non furono giunti, a nord, nella terra che è ora chiamata Saxland [Sassonia]. Là Óðinn rimase per lungo tempo e prese possesso di un vasto territorio.

Il fallimento della mitologia

Per quanto sia curiosa l’argomentazione portata avanti da Snorri, la sua proposta è altamente vacillante. Eppure, l’esempio dell’Edda in prosa ci permette di comprendere il successo riscontrato da Evemero, secoli dopo la sua morte, con la filosofia razionale e antropocentrica.

Tutt’oggi la filosofia evemeristica è sfruttata nel processo della razionalizzazione della religione, in quanto plausibile spiegazione della nascita dei vari credi sparsi in tutto il globo.

Ai contemporanei di Evemero l’idea di un dio un tempo uomo non piacque molto, perché gli dèi dovevano essere ciò che di meglio era auspicabile. Esempio e conforto nella vita quotidiana. Incarnatori del conflitto eterno tra Kόσμος, l’Ordine, e  Χάος, il Disordine.

Quando l’uomo alzava gli occhi al cielo vedeva la risposta a tutte le sue domande, la risposta al creato. Quando l’uomo, però, capì che il mondo circostante era plasmabile, ecco che egli, occhi al cielo, non vide più un conforto ma un limite da superare.

 

Bibliografia:

Crono: il dio che diede vita a Messina

Gaia per primo generò, simile a sé,
Urano stellato, che l’avvolgesse tutta d’intorno,
che fosse ai beati sede sicura per sempre. […]
con Urano giacendo, generò Oceano dai gorghi profondi,
e Coio e Crio e Iperione e Giapeto,
Teia, Rea, Teti e Mnemosine,
e Foibe dall’aurea corona e l’amabile Teti;
e dopo di questi, per ultimo, nacque Crono dai torti pensieri, il più̀ tremendo dei figli, e prese in odio il gagliardo genitore.

 Esiodo, Teogonia, vv.126-128; 133-138.

Messina ha origini assai remote e sono molteplici le leggende che trattano della sua nascita.

Quella più accreditata ne attribuisce il merito a Orione, gigante cacciatore figlio di Poseidone, mentre molte altre, più verosimili perché ancorate ai fatti storici, riconducono la fondazione della città ad alcune antiche popolazioni greche.

Esiste, però, un’ulteriore ipotesi, da non molti vagliata e quasi sconosciuta: quella di Crono.

 Scopriamola insieme!

Il mito di Crono

Figlio della Terra e del Cielo, Crono – nella mitologia romana Saturno – è una divinità preolimpica, titano della fertilità, del tempo e dell’agricoltura.

Secondo il mito, il padre Urano, considerando i figli delle mostruosità, cominciò a trangugiarne i corpi, spingendo l’accorata madre Gea ad architettare il suo omicidio.

Costruendo dapprima una falce dentata, Gea decise di affidare l’arma all’ultimo e il più tremendo dei suoi pargoli, proprio Crono, istigandolo, una volta avvicinato il genitore, a colpirlo.

Così avvenne: Crono tagliò il suo phallo e questo cadde sulla terra. Il sangue che ne fuoriuscì bagnò le coste siciliane, rendendole d’allora fertilissime, e generò la dea Afrodite.

Saturno e Urano
Giorgio Vasari e Cristofano Gherardi, Saturno o Crono mutila il cielo Urano, 1555 ca, olio su tavola, Firenze, Museo di Palazzo Vecchio. [1]

La falce di Crono e Zancle

Il mondo, come abbiamo appena appreso, deve i suoi natali ad un’evirazione.

Sembra, però, che Esiodo non abbia l’esclusiva su questa versione: anche la teogonia ittita, quasi nove secoli prima, raccontò di uno scontro primordiale fra divinità ancestrali, conclusosi con una castrazione. In esso, però, fu protagonista una taglierina di rame.

Che quella di Crono fosse una rivisitazione?

 

Dove si trova?

Qualunque sia la reale fonte del mito, ciò che in tanti, nel corso dei secoli, si sono chiesti è: dov’è finita la falce?

Gli Ittiti dicevano di averla nascosta al sicuro sul Monte Hazzi, dimora del dio della tempesta Teshub e sacro luogo di culto.

Ai tempi, però, erano in molte le località che prendevano il nome di drepanon, ovvero falce. Ciò, come nel caso di Trapani, di Cipro, di Corinto e di Istanbul, era dovuto alla loro morfologia, caratterizzata da promontori ricurvi e una chiara similitudine con l’utensile. Il fatto è abbastanza rivelatorio e indicativo.

Si dà il caso che anche la stessa Messina rientrasse nel novero delle città con questa denominazione.

Essa era stata chiamata dai greci Zancle, che significa proprio falce, e il suo paesaggio, esattamente nel porto e in prossimità del Braccio di San Ranieri, ne rappresentava e ne rappresenta tutt’ora una perfetta e naturale riproduzione.

A riprova di ciò, le monete con la raffigurazione di Crono, coniate nella colonia di Imera, e il poema Aitia, di Callimaco.

In esso, l’autore, riportando la testimonianza della musa della storia Clio, narrò di come i fondatori di Zancle avessero eretto torri di legno attorno all’area falcata, in quanto proprio lì la falce, con la quale Crono aveva reciso gli attributi del padre, era stata conservata.

Un primato di cui poterci fieramente vantare!

Braccio di San Ranieri e Forte del San Salvatore
 Il Braccio di San Ranieri e il Forte San Salvatore, luogo che secondo le leggende custodisce la falce di Crono [2]

La tomba di Crono

Ribelle, salvatore e, a sua volta, divoratore di figli.

Il destino di Crono era stato predetto dal suo stesso padre: avrebbe replicato i suoi errori e da un suo discendente sarebbe stato privato del trono e sconfitto.

È una storia che, fra orrore e curiosità, tutti noi abbiamo imparato a scuola.

Sapevate, però, che la tomba del crudele titano Crono pare trovarsi, anch’essa, a Messina?

Esattamente a Fiumedinisi, presso il Monte Scuderi, legato al toponimo Mons Saturnius.

Tra Monte Scuderi e il Braccio di San Ranieri esiste anche un collegamento visivo: da entrambi, infatti, è possibile osservare la falce..

Monte Schuderi e tomba di Crono
 Monte Scuderi, dove si troverebbe la tomba di Crono [3]

Valeria Vella

 

 

 

Fonti: https://giannibonina.blogspot.com/2015/07/la-falce-di-crono-e-sotterrata-messina.html

Ignazio Caloggero, Culti Miti e Leggende dell’Antica Sicilia, Centro Studi Helios, 2018

Immagini: 

1 – https://eclecticlightdotcom.files.wordpress.com/2020/06/vasarimutiliationuranus.jpg

2 https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/1/19/Hafeneinfahrt_Mariendenkmal%40Fort_San_Salvatore_Messina_20171018_02.jpg/800px-Hafeneinfahrt_Mariendenkmal%40Fort_San_Salvatore_Messina_20171018_02.jpg

3 – https://www.naturalmentesicilia.it/images/riservafiumedinisi.jpg

Funerea e luminosa: la figura di Arianna nella mitologia e nel mondo moderno

Il Minotauro, Teseo e Arianna, questi nomi rievocano in noi i ricordi di storie sentite durante l’infanzia. Il Minotauro, il mostro metà uomo e metà toro, è forse la figura più vivida, seguita da quella di Teseo, l’eroe ateniese che entra nel labirinto di Creta per ucciderlo; ma la loro storia è legata indissolubilmente a quella di Arianna, la principessa cretese che aiuta Teseo ad uscire dal labirinto porgendogli un gomitolo di filo. Giorgio Ieranò nel suo libro Arianna: Storia di un mito edito da Carocci editore ripercorre la sua storia attingendo ad un vasto corpus di fonti archeologiche, pittoriche e letterarie.
Lasciata da Teseo sull’isola di Nasso, Arianna diventa emblema di tradimento ed abbandono: questo è il suo aspetto più conosciuto. Ma Ieranò ci dimostra che quella di Arianna è una narrazione millenaria, ricca di varianti; un mondo arcano, nonché una foresta di simboli.

Tra amore e morte, la Signora del labirinto

Una proto-Arianna fa la sua comparsa in una delle tavolette d’argilla d’età micenea ritrovate a Cnosso, su cui figura un’incisione dedicata ad una misteriosa Signora del labirinto tra le divinità a cui portare un’offerta.
Quel labirinto di cui conosce i segreti, coi suoi meandri tortuosi che atterriscono e disorientano, era spesso identificato con l’aldilà. Ciò le conferisce un legame con la sfera degli inferi:

Vi sono aperte parecchie porte, che traggono in errore chi cerca di andare avanti e fanno tornare sempre agli stessi percorsi sbagliati.

Scrive Plinio il Vecchio a proposito del labirinto egizio sepolcro del faraone Mendes.
Edifici reali chiamati labirinti erano noti in tutto il mondo antico, ma la parola labirinto in sé poteva anche riferirsi ad una condizione metaforica: una transizione.
In una versione della leggenda Arianna, abbandonata da Teseo, si impicca; nell’oltretomba la passione non consumata per un amante impossibile la terrà per sempre sospesa in un limbo tra la dimensione infantile virginale e quella della sessualità adulta.
Durante le Antesterie – celebrazioni che cadevano ad inizio primavera – le giovani ateniesi eseguivano L’Aiora: un rituale nel quale si dondolavano su un’altalena. Il dondolio, simulando l’impiccagione originaria, assumeva significato ambivalente; di morte, in relazione all’adolescenza che dovevano lasciarsi alle spalle; di nuovo inizio, in rapporto all’erotismo al quale avrebbero avuto accesso come spose adulte.
Per il suo legame con gli inferi e con festività di morte e rinascita della natura, si pensa che Arianna fosse in precedenza una dea dei morti e della vegetazione come Persefone, poi declassata ad eroina del mito.

Skyphos raffigurante una donna spinta sull’altalena da un satiro – www.wikiwand.com

Una gioia ultraterrena nella volta celeste

Ma oltre che funerea, Arianna può essere anche luminosa. E’ nipote del dio Sole da parte di madre; sposa del dio Dioniso che, venuto a salvarla dopo l’abbandono a Nasso, immortala il suo amore per la principessa trasformandone la corona in costellazione:

La corona di Arianna che si muove tra le stelle e corre insieme al sole, compagna di viaggio dell’Aurora figlia del mattino.

(Nonno di Panopoli; Le Dionisiache)

Le sue origini celesti, il suo ruolo di sposa di un dio e la sua assunzione in cielo come stella ne favoriscono la popolarità anche nel mondo romano; come dimostrano gli affreschi pompeiani presenti nella celebre Villa dei Misteri, dove l’immagine della coppia formata da Arianna e Dioniso spicca sulle altre.
Nel Rinascimento i due allietano i carnevali fiorentini e la corte ferrarese; diventando, oltre al simbolo del rigoglio della natura, un invito a vivere ogni attimo con gioia ed intensità:

Quest’è Bacco e Arianna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ‘l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.

(Lorenzo de’Medici; Il Trionfo di Bacco e Arianna)

L’affresco di Villa dei Misteri con raffigurati Dioniso ed Arianna – www.indaginiemisteri.it

Arianna ed il mito nella modernità

I miti sono storie senza tempo, concepiti nel passato, ma alimentati dalle suggestioni del presente.
Così Goethe, ispirandosi all’amante Faustina che ancora addormentata poggia la testa sul suo braccio, compone l’elegia XII:

Maestose le forme, nobilmente disposte le membra.
Se così bella era Arianna nel sonno potevi, Teseo, fuggire?
Un solo bacio a queste labbra! O Teseo, allontanati!
Guardala negli occhi, si sveglia! – Ti tiene stretto in eterno.

La narrazione cambia ancora, Teseo, che nella versione canonica l’abbandona a Nasso, è indotto a rimanere; incatenato dai suoi occhi.
Nell’Ottocento e nel Novecento, con l’introduzione della psicanalisi e dell’antropologia, l’identità diventa un concetto sfuggente, ed altrettanto ambigui sono i ruoli ricoperti dai personaggi della mitologia. Le loro vicende subiscono delle riletture anche paradossali, come nel dramma Los Reyes di Julio Cortázar.
Arianna, di solito innamorata di Teseo, parteggia per il Minotauro: ha con lui un rapporto viscerale. D’altro canto il Minotauro non è qui un mostro feroce, ma una creatura triste e buona. Il suo legame con Arianna rappresenta un mondo infantile e primitivo contrapposto a quello cinico ed asservito a logiche di potere dei re Teseo e Minosse.

Ariadne di John William Waterhouse 1898

Signora degli inferi, emblema di gioia sovrumana, voce dei sospiri e delle inquietudini di ieri e di oggi.
Nonostante sia poco più che un’ombra del passato, Arianna ci somiglia. Il suo lamento sulla spiaggia di Nasso rispecchia la paura di scoprirci soli in un luogo ostile, mentre l’arrivo di Dioniso il sogno di una felicità perenne. Finché esisteremo, la sua storia riecheggerà negli anfratti più profondi della nostra anima.

Rita Gaia Asti