Sanremo 2025: le origini del mito vincono a Sanremo

La 75ª edizione del Festival di Sanremo si è conclusa e ha visto trionfare Olly, con la sua Balorda Nostalgia, seguito da Lucio Corsi, con Volevo essere un duro, e Brunori Sas, con L’albero delle noci.

Questi moderni cantori sembrano incarnare, in chiave moderna, archetipi senza tempo: Olly, come un novello Orfeo, canta la tragedia dell’amore perduto e della dipendenza affettiva; Lucio Corsi, simile a un Ercole contemporaneo, affronta le sfide dell’identità e della fragilità; mentre Brunori Sas, come un saggio Dedalo, esplora le paure e dubbi di un padre di fronte le sfide della vita.

Olly/Orfeo – La “balorda nostalgia” della perdita

Dopo la perdita di Euridice, Orfeo si trova intrappolato in un dolore che non riesce a superare. Incapace di immaginare un futuro senza di lei, il musicista mitologico vede la propria esistenza svuotarsi di senso. Il suo amore si trasforma in un’ossessione che lo spinge oltre ogni limite, trascinandolo in una spirale di disperazione. Quella che avrebbe potuto essere una storia di rinascita si tramuta così in una tragedia senza ritorno.

Scende negli Inferi armato solo della sua musica struggente, capace di commuovere dèi e ombre. Il suo viaggio è un atto di speranza e disperazione, mosso dall’illusione di poter riabbracciare l’amata.

Allo stesso modo, il protagonista della canzone di Olly è avvolto da una nostalgia profonda, come se il ritorno a un passato idealizzato potesse colmare il vuoto lasciato dalla perdita, come se la sua identità fosse inscindibilmente legata a un’altra persona.

Tornare a quando ci bastava ridere, piangere, fare l’amore.

Come Orfeo, anche Olly canta per colmare il vuoto lasciato dall’assenza. L’intero testo è un tentativo di evocare la persona amata, proprio come Orfeo prova a riportare Euridice tra i vivi. Ma c’è un tragico dubbio che incombe:

Magari non sarà nemmeno questa sera la sera giusta per tornare insieme.

Questo verso riecheggia il destino di Orfeo, il cui amore è condizionato da un vincolo insormontabile. La scena in cui il protagonista della canzone continua a cercare tracce dell’amata:

Ti cerco ancora in casa quando mi prude la schiena, e metto ancora un piatto in più quando apparecchio a cena.

Qui non c’è un inferno mitologico, ma una casa che risuona di assenze e abitudini spezzate.

 

 

E infine, la rassegnazione:

Magari è già finita, però ti voglio bene ed è stata tutta vita.

Se Orfeo, devastato dal dolore, rinuncia alla vita e si lascia morire cantando, Olly accetta, seppur con sofferenza, che l’amore possa sopravvivere alla fine di una relazione.

Il parallelismo con Orfeo mette in luce il rischio di smarrire se stessi all’interno di una relazione, quando l’altro diventa l’unico riferimento per la propria esistenza.

La canzone esplora con intensità una sorta di dipendenza affettiva, delineando un desiderio insaziabile e mai del tutto soddisfatto. La ripetizione insistente di “vorrei” diventa il simbolo di un bisogno incessante, mentre l’altro viene idealizzato come unica fonte di appagamento. Ne emerge un’illusione pericolosa: quella di un amore vissuto come unico significato dell’esistenza, in un equilibrio fragile tra passione e smarrimento.

Lucio Corsi/Ercole – L’arte di essere invincibili

Nel brano sanremese, Lucio Corsi mette in scena un profondo conflitto interiore, dando voce a una tensione universale: il desiderio di incarnare un modello di forza imposto dalla società e la consapevolezza della propria vulnerabilità. Il protagonista della canzone aspira a essere un “duro”, un individuo invulnerabile e sicuro di sé, sulla scia degli eroi mitologici e degli stereotipi maschili dominanti. Tuttavia, nel corso del brano, il sogno si scontra con la realtà. Alla fine, il personaggio si arrende all’evidenza: l’immagine idealizzata di sé è irraggiungibile. Con un’ammissione sincera, riconosce la propria autenticità, accettando la fragilità come parte integrante della sua identità:

Non sono altro che Lucio.

Il conflitto tra forza e fragilità trova un interessante riflesso nella figura di Ercole, l’eroe della mitologia greca celebre per la sua forza sovrumana e le leggendarie dodici fatiche. Al di là dell’immagine di invincibilità che lo circonda, la sua storia è segnata da sofferenza, senso di colpa e profonde vulnerabilità, rivelando così il lato più umano di un simbolo di potenza assoluta. Nonostante la sua potenza fisica, Ercole è un eroe tormentato, costretto a espiare le proprie colpe e a confrontarsi con il peso del suo destino.

Nonostante il desiderio di apparire forte, il protagonista della canzone ammette:

Però non sono nessuno / Non sono nato con la faccia da duro / Ho anche paura del buio.

Questa confessione mette in luce la discrepanza tra l’immagine desiderata e la realtà personale. Tuttavia, si rende conto che questi modelli non gli appartengono.

Nel momento in cui smette di inseguire un ideale di mascolinità imposto e accetta la propria identità con tutte le sue sfumature, al di là delle aspettative esterne, emerge qui la sua vera forza, evidenziando come essa risiede nell’abbracciare la propria autenticità.

 

           

Brunori Sas/Dedalo – La responsabilità di essere padre

La canzone di Brunori Sas, L’albero delle noci, affronta temi come la paternità, il passare del tempo e le paure legate alla genitorialità. Questi elementi trovano un interessante parallelo nel mito di Dedalo e Icaro, che esplora il rapporto padre-figlio, l’aspirazione e le conseguenze delle proprie scelte.

Nel mito, Dedalo è un abile inventore e artigiano che costruisce ali di cera e piume per sé e per suo figlio Icaro, con l’obiettivo di fuggire dal labirinto in cui sono imprigionati. Questo atto rappresenta il desiderio di un padre di proteggere e guidare il proprio figlio, fornendogli gli strumenti per affrontare il mondo.

Allo stesso modo, Brunori riflette sulla sua esperienza della paternità, esprimendo sia l’amore profondo, che le preoccupazioni legate al crescere un figlio:

Sono passati veloci questi anni feroci / E nel mio cuore di padre il desiderio adesso è chiuso a chiave.

Dedalo avverte Icaro di non volare troppo vicino al sole per evitare che il calore sciolga la cera delle ali, ma Icaro, preso dall’entusiasmo del volo, ignora il consiglio paterno e cade nel mare.

Questo episodio simboleggia le preoccupazioni di un genitore riguardo alle scelte e ai rischi che il proprio figlio potrebbe affrontare. Brunori Sas esprime un sentimento simile quando canta:

Vorrei cantarti l’amore, amore / Il buio che arriva nel giorno che muore / Senza cadere / Nella paura di farti male

Qui, il cantautore desidera proteggere la figlia dalle oscurità della vita, ma riconosce anche la necessità di permettergli di fare le proprie esperienze, senza lasciarsi paralizzare dalla paura.

 

 

Il mito di Dedalo e Icaro evidenzia come le esperienze condivise tra padre e figlio possano portare a una profonda trasformazione personale.

Dopo la perdita di Icaro, Dedalo è costretto a confrontarsi con il dolore e le conseguenze delle proprie azioni. Analogamente, Brunori Sas riflette su come la paternità abbia cambiato la sua percezione della vita e del mondo:

E tutta questa felicità forse la posso sostenere / Perché hai cambiato l’architettura e le proporzioni del mio cuore.

 

Gaetano Aspa

 

Fonte: Post Facebook di Nicole Teghini in data 16/02/2025

 

Miti e magia delle isole Eolie nell’incontro con l’antropologa Marilena Maffei

Sì è svolto giorno 12 aprile al Dicam l’incontro con l’antropologa Macrina Marilena Maffei, autrice dell’opera La maga e il velo. Incantesimi, riti e poteri del mondo magico eoliano, frutto della ricerca ventennale della studiosa sul fenomeno del magismo nelle isole Eolie. L’incontro ha visto la partecipazione attiva di studenti, dottorandi e cultori della materia, nonché del direttore del dipartimento di civiltà antiche e moderne Giuseppe Giordano, del professore Mario Bolognari e dell’antropologo Sergio Todesco che hanno aperto l’evento con dei brevi saluti.

Locandina dell'evento
Locandina dell’evento. Fonte: unime.it

A Mauro Geraci,  ordinario di Antropologia Culturale è spettato invece l’onore di introdurre l’intervento dell’autrice, di cui ha tracciato un profilo biografico alquanto interessante.

Laureatasi a Roma nel 1978 con una tesi sugli elementi fiabistici in Basilicata, sua terra d’origine, Maffei non è una studiosa inquadrata nei ranghi dell’ambiente accademico, bensì una ricercatrice che tocca con mano il suo ambito di interesse. Lo dimostra il suo approccio che documenta in maniera rigorosa le testimonianze dirette di un mondo contadino che ancora permea la modernità e a cui nelle sue opere è dedicato ampio spazio.

Nell’incontro con gli studenti del Dicam le dissertazioni astratte hanno lasciato il posto alla voce reale degli abitanti delle Eolie: i documenti sonori raccolti dalla studiosa durante il suo periodo di ricerca hanno intervallato più volte il racconto della studiosa su un mondo apparentemente arcaico e lontano. Un mondo che però, contrariamente a quello che siamo portati a credere, esercita ancora una forza di suggestione così potente negli abitanti delle isole che a un certo punto non è più possibile tracciare un confine netto tra mito e realtà talmente il primo permea la seconda e la asservisce ai suoi motivi.

Il professor Mauro Geraci accanto all’autrice Marilena Maffei. © Angelica Rocca

L’autrice, che prende la parola dopo il professor Geraci, ci parla di “figure fantastiche, oniriche, che raggiungono la densità del reale.” E sono proprio quelle che secondo i racconti popolari, abitano le Eolie, locus amoenus in cui terra e cielo si toccano, ma allo stesso tempo realtà costantemente minata dai terremoti, dai vulcani e fino a non molti anni fa dalla fame e dalla miseria.

Eolie e magia: il libro di Maffei unisce due mondi meravigliosi ed enigmatici che la studiosa ha avuto modo di conoscere tramite quei “cunti” della tradizione che ha portato alle orecchie e all’attenzione degli studenti in un incontro vivace e partecipato. 

Porte per l’aldilà, serpi chiomate e streghe volanti: i miti delle Eolie 

Il percorso tracciato dall’intervento di Maffei parte da un’immagine potente nelle credenze eoliane: il tópos del fuoco e del vulcano come porta per l’al di là. A conferma di questa tradizione che affonda le radici nell’antichità, la studiosa cita tra gli altri Jacques Le Goff che racconta nella sua opera famosa “La nascita del Purgatorio” di un crociato che tornando da Gerusalemme volle far tappa nelle Eolie convinto che qui si trovasse l’accesso agli Inferi. Ma immagine certamente più bizzarra e anche questa trais d’union tra mondo dei vivi e mondo dei defunti è quella della “serpe con i capelli”, caratteristica proprio dell’immaginario eoliano e concepita come reincarnazione di qualche “animicedda”.

Una credenza che trova riscontro anche in altre località meridionali ( basti pensare alla vicina Calabria dove anche qui si raccomanda di non uccidere i serpenti), ma che qui assume una forma particolare e insolita. Perché nelle Eolie queste anime imprigionate nei serpenti avrebbero addirittura capelli umani ( e qualche volta anche volto e mani)? Maffei risponde a questo legittimo interrogativo affermando che il contesto eoliano è talmente fragile e precario che qui la credenza nel mito non basta: diventa necessario allora avere prove, certezze concrete, conferme visibili di quanto si tramanda oralmente.

© Angelica Rocca

La discussione entra nel vivo quando ci avviciniamo a un altro personaggio degno delle migliori opere fantasy: quello della strega eoliana. Quali sono le sue peculiarità rispetto ad altre streghe o “befane” che popolano le leggende del Bel Paese? In realtà qui alla strega, non è associato alcun potere malefico, carattere diabolico o tratto mostruoso.

Nei racconti dei pescatori che hanno avuto la “fortuna” di avvistarle, emergono invece figure femminili bellissime, il più delle volte nude, le cosiddette “majare”, accomunate tutte da una caratteristica: la capacità di volare, ora per cielo grazie ad un unguento speciale, ora per mare su delle imbarcazioni.

Ed è proprio qui che la realtà storica delle isole, quella che viene spesso taciuta e rinnegata, trova uno sbocco nel mito di queste donne libere che volando sfidavano le regole di una società rigidamente patriarcale. Nelle Eolie erano proprio le donne ad andare per mare e a conoscere l’arte della pesca e della navigazione, mentre agli uomini era lasciato il lavoro dei campi. Questa consuetudine è taciuta dalla storiografia ufficiale e dalla tradizione popolare, ma si ritrova eco persino in qualche novella del Decameron ed è stata riportata alla luce proprio da Maffei che si è battuta tanto per farla riconoscere.

Oggi nel 2022 arriva finalmente una “grande vittoria per l’antropologia”: Clara Rametta, una sindaca di Salina, ha deciso di finanziare una statua dedicata alle donne che andavano per mare. Donne prostrate dalla fame e dalla miseria, ma capaci con la loro libertà di incutere timore negli uomini e per questo trasfigurate in streghe. Da qui il potere esorcizzante del mito, la sua capacità di farsi valvola di sfogo delle paure e delle speranze inconsce di un popolo che lo custodisce e lo tramanda ai posteri. Un potere così forte che continua ad affascinare e a incuriosire.

L’opera dell’autrice.© Angelica Rocca

Non sono mancate, al termine della giornata, le domande all’autrice sulla magia e il suo desiderio di dominare la realtà. Perché cosa fa un mago se non cercare di piegare la natura al suo volere? E cosa distingue a questo punto l’incantesimo dall’esperimento, la formula chimica da quella magica se entrambe si basano su un rapporto “causa-effetto” tra i fenomeni naturali? La magia con i suoi miti si può quindi definire la “sorella bastarda” della scienza. Conoscerla ( che non significa praticarla!) può aiutare a capire tanto anche della nostra contemporaneità.

Angelica Rocca

Tra mito e scienza: le due facce di Messina

La Sicilia è da sempre terra di miti e leggende: ci siamo mai chiesti però cosa ci sia alla loro origine?

Fin dalla notte dei tempi l’uomo si pone delle domande, molte delle quali aventi oggi risposte scientifiche. È chiaro però che lo stesso non accadesse per gli antichi, che trovavano nei racconti mitologici un modo per rispondere a moltissimi quesiti, soprattutto riguardanti fenomeni naturali inspiegabili.

Vediamo insieme come alcune delle leggende siciliane più famose siano proprio nate da un’esigenza di trovare delle risposte e come invece, oggi, proprio queste risposte siano state date.

Scilla e Cariddi

Presenti già nei poemi omerici, queste due figure vengono descritte come mostri marini presenti nello Stretto di Messina. Sulla costa calabra si trovava Scilla, ninfa trasformata dalla maga Circe in mostro marino dalle sei teste, mentre lungo la costa sicula si trovava Cariddi, figura mitologica trasformata da Zeus in mostro marino dalla gigantesca bocca e punita così per la sua voracità. Si pensava che Cariddi ingoiasse le navi per poi rigettarle in mare contro Scilla.

Fenomeno dell’Upwelling. Fonte: Tempostretto

Oggi sappiamo che Scilla non è altro che uno scoglio presente nella costa calabrese, mentre Cariddi un gorgo (vortice creato dalle correnti). Infatti, le correnti dello Stretto causavano parecchi problemi alle imbarcazioni più antiche, tali da dare origine alle due figure mitologiche.

Nello Stretto si incontrano il Mar Ionio e il Mar Tirreno, bacini con acque completamente differenti che creano quindi particolari fenomeni idrodinamici: quando l’uno presenta l’alta marea rigetta le sue acque nel bacino vicino, che si trova invece in fase di bassa marea, e viceversa. Questo fenomeno è noto come “Upwelling”.

La fata Morgana

Frederick Sandys, La fata Morgana

Il personaggio, legato alla mitologia anglosassone, è presente anche in una versione Normanna, che vede la fata stabilita proprio nello Stretto di Messina. Si raccontava che questa si divertisse a ingannare tutti coloro che volessero giungere in Sicilia dalla Calabria. Tra questi, un re arabo che si trovava sulle coste calabre quando la fata gli fece credere di poter quasi toccare la terra siciliana facendo anche un solo passo: le coste gli apparvero quindi molto più vicine e il re decise di gettarsi in acqua per raggiungere l’altra sponda finendo così per annegare.

Fonte: Il Messaggero

Questa leggenda si rifà a un fenomeno atmosferico:  quando la temperatura dell’aria vicina al suolo è minore di quella sovrastante si crea una differenza che fa sì che la luce non segua la sua direzione usuale ma venga rifratta, creando così un effetto ottico o miraggio che fa apparire gli oggetti lontani molto più vicini.

Questo fenomeno è conosciuto ancora oggi come fenomeno della Fata Morgana proprio in riferimento alla leggenda normanna.

La grotta dei Ciclopi a Milazzo

La leggenda vuole che sia ambientata proprio a Milazzo la scena dell’Odissea in cui Ulisse incontra Polifemo. Questa credenza veniva confermata sia dalla presenza di una grotta, sia dall’ipotesi che gli antichi abitanti siculi avessero trovato degli scheletri con un foro al centro del cranio, al tempo attribuiti a una possibile origine ciclopica.

In realtà, i crani appartenevano a una particolare specie preistorica, gli elefanti nani. Le dimensioni ridotte rispetto alle altre specie sono dovute al cosiddetto “nanismo insulare”: fenomeno diffuso nelle zone con comunità isolate, nelle quali i continui incroci tra consanguinei sono la regola.  I siciliani del tempo non riuscendo però a spiegarsi a chi potessero appartenere i reperti, scambiarono il foro per la proboscide con l’occhio centrale del ciclope e giunsero a questa bizzarra conclusione.

Colapesce

Soffitto del Teatro Vittorio Emanuele (Messina),  Renato Guttuso. Fonte: Normanno

Un’altra famosissima leggenda è quella di Colapesce, un giovane siciliano, Nicola, che amava trascorrere le sue giornate in mare alla ricerca di tesori. Per questo motivo il re Federico II lo volle mettere alla prova, lanciando in mare oggetti preziosi e chiedendo al ragazzo di riportarli indietro. Durante uno di questi tentativi Colapesce, così soprannominato per la sua abilità nel destreggiarsi in acqua, si accorse che la Sicilia poggiava su tre colonne, una delle quali, vicino a Messina, consumata. Egli rimase dunque in mare a sorreggere quella colonna: si pensava che a far tremare la terra tra Messina e Catania in alcuni giorni fosse appunto il giovane che cambiava il lato della spalla sul quale poggiava la colonna, stanco per la fatica.

Oggi esistono numerosissimi studi sulla sismicità della zona messinese. Uno in particolare, pubblicato su Nature Communications, mostra anche una correlazione tra attività sismica ed eruzioni vulcaniche.

“Le faglie lungo le quali risale il mantello della Tetide”, spiega la coordinatrice della ricerca Alina Polonia,  “controllano anche la formazione del Monte Etna, dimostrando che si tratta di strutture in grado di innescare processi vulcanici e causare terremoti. Queste faglie, infatti, sono profonde e lunghe decine di chilometri, e separano blocchi di crosta terrestre in movimento reciproco”.

Nonostante quanto detto trovi ormai una spiegazione scientifica, queste leggende e credenze continuano ad essere raccontate e tramandate: forse perché per secoli hanno contribuito alla formazione di un’identità culturale, o forse perché hanno ancora oggi la capacità di affascinare coloro i quali si soffermino ad ascoltarle.

Cristina Lucà

Il mito sepolto dei laghi di Ganzirri. Il tempio, la mitilicoltura e la flora selvatica

In questa nuova tappa di Messina da scoprire vogliamo raccontarvi di come i fili che tessono le trame di leggende remote si intreccino alle vicende storiche di pescatori, regnanti Borboni e altri uomini di mare, in un paesaggio unico che si staglia tra le acque dei laghi di Capo Peloro e il litorale di Torre Faro.

Una palude. L’etimologia più accreditata fa risalire il nome dell’area alla parola ghadir, cioè stagno, zona acquitrinosa. I laghi che scorgiamo una volta attraversata tutta la costa del litorale settentrionale della città sono oggi il Pantano Grande (o Lago di Ganzirri) e il Pantano Piccolo (o Lago di Faro). Questo complesso lagunare venne unito attraverso il canale di Margi fatto costruire nella prima metà del 1800 dagli inglesi. Nello stesso periodo furono anche realizzati altri condotti per mettere in comunicazione i due laghi con i mari Tirreno e Ionio, che ancora vengono occasionalmente aperti, soprattutto in estate, per rifornire di ossigeno le acque salmastre. Ma in origine, e fino a poco più di un secolo fa, i laghi erano quattro: esistevano, come fonti storiografiche, a partire da Diodoro Siculo, riportano, anche il Lago di Margi e il Lago Madonna di Trapani, poi affluito nel Pantano Grande. Originati da progressivi insabbiamenti di un’area delimitata da cordoni litorali e plasmata dal moto ondoso marino e dai venti dello stretto, i bacini d’acqua presentano differenti caratteristiche fisico-chimiche. A detenere il primato di salinità e di varietà di specie è il lago di Faro dove vivono orate e anguille e un tempo oltre alle cozze, erano allevate anche ostriche.

La lingua di sabbia. Capo Peloro, punta nord orientale estrema della Sicilia. Da millenni culla delle divinità della mitologia pagana, antica custode di templi, circondata e protetta dai mostri implacabili di Scilla e Cariddi. Ulisse nel XII canto dell’Odissea per sfuggire a Cariddi (colei che “gloriosamente l’acqua livida assorbe”) e al vortice terribile che imperversava nel punto instabile di congiunzione tra i due mari dello stretto, preferì far naufragare la sua imbarcazione sul versante calabro e finire imprigionato nel giogo di Scilla, tra le cui fauci tuttavia alcuni suoi compagni persero la vita. Altre leggende che circondano questo lembo di terra parlano di Pelorias, una sorta di dea madre che risiedeva nel pantano e che personificava lo spirito della natura. La ninfa compare su monete coniate nell’antica città di Messana almeno dalla fine del V sec. a.C. A Pelorias erano associate nella simbologia mitili e conchiglie come la pinna nobilis, ritenuta preziosa e che venne importata dai fenici. E’ l’origine stessa della parola Peloro che in greco (pèloron) significa infatti mostruoso, fuori dal comune a rievocare la stratificazione di leggende che fin dall’antichità hanno influenzato i naviganti di quelle feroci e prodigiose acque. Più in prossimità di Capo Peloro sorge il lago di Faro che, in base a testimonianze, deve il suo nome alle fortificazioni fatte costruire dagli antichi abitanti di Zancle che lo dotarono di un faro a fiaccole per l’orientamento notturno delle navi.

 

Il tempio di Nettuno. Tra Il Pantano Grande e il Pantano Piccolo esisteva, come abbiamo detto all’inizio, il lago Margi o “Maggi”. Le sue esalazioni pestifere non permettevano di raggiungere l’area paludosa che venne bonificata dai Borboni nell’800. Scavi condotti in seguito portarono alla luce una serie di importanti reperti archeologici: vasi, suppellettili e altri antichi resti che rivelarono i gloriosi fasti sepolti di un misterioso tempio pagano. Oltre a Esiodo, lo scrittore romano Gaio Giulio Solino, vissuto nel III sec. d.C nella sua Raccolta di cose memorabili raccontava che su quello stagno melmoso era sorto un imponente tempio dedicato a Poseidone o Nettuno, il dio del mare, protettore ante litteram di Messina, che, stando al mito, separò la Sicilia dal continente con un colpo di tridente. A farlo erigere sarebbe stato niente meno che Orione, suo figlio, che la tradizione volle essere stato il fondatore della città, in onore del quale Angelo Montorsoli nel 1553 costruì la fontana collocata in piazza Duomo. Le colonne dell’antico tempio vennero quindi trasferite in epoca bizantina per permettere la costruzione delle navate del tempio cristiano.
Visioni e città. Al di là del mito, nelle più aleatorie propaggini della fantasia, un’altra storia lega il lago di Faro al folclore locale. Alcuni giurano ancora di scorgere qualcosa in quel fondale. Abbagliati dall’aria immobile del lago c’è chi afferma di sentire qualche volta il suono delle campane e di vedere i muri di un’antica città sepolta dentro le sue acque; Risa, un fiorente centro preellenico che a causa di un cataclisma sprofondò improvvisamente e lasciò al suo posto un fossato dove l’azione protratta delle piogge diede origine al lago. Le immersioni, se non sono riuscite a trovare conferme a questa curiosa leggenda, hanno comunque permesso di recuperare anfore bizantine e i resti di un antica imbarcazione, arrivata forse dal mare dello stretto. Il mare di Messina del resto da secoli confonde, inebria i suoi viaggiatori, e in certe giornate si può incappare nel bizzarro fenomeno ottico della Fata Morgana, quando da Reggio le due coste, siciliana e calabrese, sembrano toccarsi per effetto del riflesso delle abitazioni sull’acqua.

La pesca. Storici ipotizzano che la zona di Ganzirri fosse abitata fin dai tempi del neolitico. Documenti più sicuri testimoniano la presenza di villaggi e insediamenti di pescatori attorno alla laguna almeno a partire dal XVI secolo. Senz’altro la bonifica promossa dai Borboni intensificò l’urbanizzazione, dovuta anche alla necessità di difendere le coste dalle incursioni piratesche, e lo sfruttamento delle risorse offerte dalla varietà di pesci e di molluschi, detti cocciole. L’attività produttiva legata alla mitilicoltura e tellinicoltura caratterizza indissolubilmente il legame dell’uomo con il territorio. La zona, promossa a riserva naturale dal 2001, riveste un notevole interesse sotto questo profilo, tanto da essere annoverata come bene etno-antropologico sottoposto a divieti e restrizioni. L’habitat naturale in ogni caso in seguito al proliferare urbano sempre più massiccio, risulta  oggi compromesso. Recentemente, dopo le proibizioni degli ultimi anni, è ripresa comunque, seppure in misura minore rispetto agli anni ’60-’70, l’attività di allevamento dei frutti di mare. Molti pescatori di Ganzirri inoltre praticano la pesca del pesce spada a bordo delle feluche.

Specie floreali insolite. Nonostante il litorale di Torre faro sia fortemente alterato a causa dell’azione antropica conserva ancora un valore floristico e vegetazionale rilevante, grazie alle numerose specie molto particolari che continuano ad abitarlo, pressoché assenti nel resto della Sicilia, ad esempio la Centaurea deusta subsp. divaricata che cresce solo in questa zona, Anthemis peregrina, e Hypecoum procumbens della quale rimangono pochi esemplari esclusivamente nell’area di Ganzirri. Il sito è attualmente piuttosto degradato per l’intensa urbanizzazione; il lago Grande di Ganzirri e il Pantano piccolo hanno perso gran parte della loro vegetazione naturale, ma si rinvengono ancora specie rare come Cynanchum acutum.

Eulalia Cambria

Ph: Salvatore Cambria