Giano Bifronte e gli inizi

Dio degli inizi e delle fini, dei bivi e dei portali, collocato fra il passato e il futuro… Giano è sicuramente una delle figure che, fra quelle appartenenti al pantheon romano, esercita più attrattiva.

È la sua dualità, suggerita dall’epiteto che accompagna il suo nome – per l’appunto Bifronte –, ad essersene in gran parte responsabile. Di fatto, coesistono in lui diverse nature, opposte e complementari insieme, come anche confermato dalle sue molteplici raffigurazioni.

Maestro dei Mesi, Giano bifronte - Nicola Quirico – Museo della Cattedrale, Ferrara
Maestro dei Mesi, Giano bifronte – Nicola Quirico – Museo della Cattedrale, Ferrara

Giano è spesso rappresentato con un volto anziano e uno giovane. Il primo munito di bacchetta, metafora dell’alternarsi delle quattro stagioni; il secondo, invece, con in mano una cornucopia, augurio per l’abbondanza di un nuovo anno.

In altre, lo vediamo, da un lato, impugnare un tridente, mentre, dall’altro, coronato d’alloro. Anche in questo caso, però, si ripresenta l’allegoria del tempo. Il tridente è, infatti, simbolo per eccel­lenza delle sue tre dimensioni (passato, presente e futuro) e la testa coronata d’alloro segno del rinnovamento e della gloria che il dio dovrà propiziare in vista di un’età nuova.

È chiaro, alla luce di tali considerazioni, l’intrinseco legame che Giano stabilisce con il tempo.

Un concetto che è possibile rintracciare all’interno della stessa etimologia del termine. Secondo alcune interpretazioni, il nome Giano avrebbe la base in *ey, “andare”, e rimanderebbe, quindi, ad un’idea di movimento, di passaggio. Una tesi molto accreditata, in quanto coerente con una delle sue funzioni principali: quella di intermediario.

Con “passaggio” si fa riferimento ai due movimenti di apertura e chiusura spazio-temporale che il dio opererebbe dal punto di vista del cardine immobile, del presente da cui si origina l’inizio e la fine di ogni cosa.

In virtù di ciò, Giano, patrono di tutto ciò che si produce nel processo di mutazione da una condizione a un’altra, sarebbe il gran creatore. Fonte del genere umano e divum pater, padre degli dèi.

Romano o straniero?

Nel 1945, Pierre Grimal, filologo classico e latinista francese, avanzava l’ipotesi che Giano potesse essere straniero, l’adattamento romano di una divinità di origine orientale. Sono varie, infatti, le tesi che lo accostano all’indiano Siva.

Tale congettura non sarebbe, però, plausibile se considerata la preponderante rilevanza che il dio rivestiva nei rituali e nel complesso culturale di Roma.

Come ci sovviene dall’analisi di Gaio Calpurnio Pisone, sarebbe stato il re Numa Pompilio ad istituirne propriamente il culto.

«La più antica divinità indi­gena d’Italia» stabiliva, poi, Erodiano, storico greco antico vissuto secoli dopo.

«Il primo degli antichi dèi che i Romani chiamava­no Penati» aggiungeva Procopio.

«La Grecia non ha nessun Nume pari a te» scriveva Ovidio nei suoi Fasti, smentendone, quindi, una derivazione ellenica.

Tutte affermazioni che chiariscono in modo irrefutabile la maternità italica.

Il fatto che Giano sia patrono degli accessi, delle vie e dei vani ne fa, inoltre, l’eccelso custode delle porte di Roma. Fra queste, una ne prende perfino il nome: lo ianus Augustus, eretto in Betina.

Forse alludendo al suo ruolo di iniziatore, il dio detiene anche un primato liturgico, aprendo la lista degli adorati nella formula della devotio.

Il mese di Giano

Illustrazione di Giano, conservata al British Museum, Fonte: https://media.britishmuseum.org/media/Repository/Documents/2014_10/8_21/74e4d108_eed8_4d3d_a53d_a3be015f856e/mid_00470390_001.jpg
I due volti di Giano e la metafora dell’anno nuovo
Fonte: British Museum

Fu sempre Numa Pompilio ad inserire all’interno del calendario romuleo, nel 713 a.C., un nuovo mese proprio a lui dedicato. Da quel momento in poi, infatti, l’anno sarebbe cominciato con Januarius.

Scelta particolarmente azzeccata: con gennaio, così come con Giano, ha tutto inizio. E fine, essendo così a ridosso dell’anno precedente.

Gennaio è un mese particolare. È legato, sì, alla novità, alle attese ottimistiche per il futuro, alla luminosità scaturita dall’inevitabile approssimarsi della Primavera. Ma è anche inestricabilmente annodato con il passato, con tutto ciò che ha ripercussioni sul presente, che non svanisce né si arresta magicamente con lo scattare della mezzanotte del Capodanno.

Per cui, è anche il mese dei resoconti, dei bilanci.

L’invito che questa autrice si sente di porvi, quindi, è quello di non commettere l’errore di relegare in un capitolo chiuso le vostre questioni in sospeso. Affrontatele, fateci i conti.

In preparazione di tutto ciò che l’anno nuovo vi riserva.

 

Fonti: 

Giano, il dio dai due volti

Il dio Giano, Nuccio D’Anna, 1992 – ISBN-10 ‏ : ‎ 8833781224

Al chiaro di luna. Riflessioni sulla licantropia in età antica

Erede del fenomeno socio-religioso dello sciamanesimo, che percepiva l’ibrido uomo-animale come il più nobile fine a cui l’uomo potesse ambire, la figura del licantropo occupa una posizione di rilievo nel corpus folkloristico europeo e in altre parti del globo.

Che sia un diretto sviluppo del caso clinico della licantropia o, per l’appunto, eredità culturale dei credi animisti che l’homo sapiens praticò per gran parte della sua esistenza, l’uomo lupo, λúkος ἄνθρωπος, presenta alcune evidenti somiglianze con altre figure leggendarie. Basti pensare agli sciamani aztechi, capaci di trasformarsi in animali, i vampiri che mutano in pipistrelli, i guerrieri norreni úlfheðnar che si trasformano in lupi e tanto altro.

E se la figura dell’uomo che muta la propria forma è pressoché presente in tutte le culture umane, in quella europea l’uomo lupo, in particolar modo, vanta una tradizione millenaria che, tutt’oggi, influenza il gusto cinematografico e letterario dell’orrore.

 

Licantropo al chiaro di luna. Immagine realizzata con IA

 

Petronio e l’amore per l’orrore

La prima attestazione letteraria di questo fenomeno, che si configura essere più sociale che clinico, è contenuta nel Satyricon di Petronio, scrittore e poeta romano del I sec. a.C.
Nel LVII libro del Satyricon è narrata la vicenda di Nicerote, amico di Trimalchione, che racconta la sua storia ad un banchetto per intrattenere i commensali. Il racconto, però, non sarà così tanto allegro come spera l’amico Trimalchione.

Quando era ancora un servo, Nicerote aveva come amante la bella moglie dell’oste, Melissa.

Quando il suo padrone andò a Capua per smerciarvi delle cianfrusaglie, approfittando della prematura morte dell’oste, Nicerote decise di far visita a Melissa e invitò un soldato ad accompagnarlo durante il viaggio.

Arrivati nei pressi di un cimitero e alzatasi la luna splendente in cielo, i due si riposarono tra le tombe, in attesa dell’alba. Quand’ecco che l’ospite, dopo essersi allontanato, si denudò, gettando i propri vestiti a terra. Vi urinò sopra, girandovi intorno, e si trasformò in un lupo. Poi fuggì nel bosco e sparì.

Nicerote, impaurito, si avvicinò ai vestiti e si incupì, ancor di più vedendoli ormai tramutati in pietra. Lo sgomento lo rapì e decise di tornare in fretta e furia alla tenuta di Melissa.

Questa gli aprì la porta e lo informò del recente attacco al gregge della sua tenuta da parte di un lupo. Che fosse il soldato di prima?

La donna, orgogliosa, aggiunse che il lupo avesse sì ucciso tutte le bestie, ma senza passarla liscia. Un servo gli aveva, infatti, trapassato il collo con la lancia.

Nicerote, dubbioso, tornò al cimitero e vide i vestiti, prima impietriti, adesso scomparsi. C’era solo tanto sangue.

Così tornò a casa e vide il medico che stava curando un uomo ferito su un lettino. Era il suo amico soldato, ferito alla gola dalla lancia del servo di Melissa. Nicerote capì allora che il suo amico fosse un lupo mannaro e, sbigottito, promise di non averci più a che fare.

Versipellis. Colui che muta la propria pelle. È questo il termine con cui il nostro Nicerote definì il soldato e con cui i Romani chiamano i lupi mannari. Difatti, è diffusa la credenza che il manto lupino sia nascosto sotto la pelle umana e tirato fuori all’occorrenza.

Non è una trasformazione della pelle, che subisce una crescita repentina di peluria e artigli affilati. È un semplice cambio di vestiti. Un “voltapelle”, dunque.

Credo sia un lupo mannaro

Il racconto di Nicerote costituisce la prima testimonianza letteraria di un caso di licantropia, sebbene essa compaia ben prima del nostro Gaio Petronio.

Effettivamente, di mutaforma si parla nel famoso mito di Licaone, il sovrano empio trasformato in lupo da Zeus, inorridito dalle nefandezze del re di Arcadia. Le feste in onore di Zeus quivi celebrate erano infatti chiamate Licee, dal nome λύκος (lupo), una delle molteplici forme assunte dal Cronide.

In Grecia pare che la figura del lupo fosse radicata all’interno dei culti locali. Non molto lontano, in Acarnania, il nonno di Odisseo, il famoso Autolico (da αὐτός «stesso» e λύκος «lupo»), era un famoso ladro di bestiame, reso  infallibile da suo padre Ermes.

In diverse situazioni Autolico ruba il bestiame altrui, appropriandosi di quell’istinto predatore tipico dei lupi che attaccano un gregge. Egli preda gli animali proprio come farebbe un lupo, quindi egli stesso è un lupo. Forse è proprio quello che avranno pensato i suoi contemporanei.

Altri elementi di teriantropia, termine indicante l’assunzione di caratteristiche animali da parte di esseri umani, di cui branca è la licantropia, possono essere rintracciati in Aita, o Eita, il dio etrusco dell’oltretomba, che si veste di pelle di lupo, assumendone le forme.

 

La trasformazione di Licaone, di Hendrick Goltzius Un caso di licantropia dei miti classici
La trasformazione di Licaone, di Hendrick Goltzius. Un caso di licantropia nei miti classici

Il lupo della porta accanto

A lungo si è ritenuto che il licantropo fosse un prodotto della fobia cristiana verso i guerrieri pagani, che i barbari coperti di pelli di lupo (gli úlfheðnar sopra citati ne sono un esempio) incutessero così tanto terrore ai monaci cattolici a tal punto da ritenerli un tutt’uno con l’animale totemico.

Eppure, come abbiamo visto, la concezione del mutaforma è già insita nella cultura europea antica, perciò quella descritta dai monaci cristiani ne è soltanto l’evoluzione. Un’evoluzione che, in seguito, ha contribuito alla cristallizzazione della figura del licantropo attribuendogli alcune caratteristiche che conosciamo tutti oggigiorno: legame profondo con la luna, ferocità, insaziabile voglia di carne umana, vulnerabilità all’argento, presenza o assenza, a seconda dei casi, della facoltà di intendere e di percepire il mondo come un normale essere umano.

Si badi bene, però, dal giudicare il licantropo una figura folkloristica che appartiene al passato. Nel Medioevo erano scoppiate vere e proprie “epidemie” di licantropia e sebbene questa isteria collettiva sia stata debellata con l’avvento illuminista, questo non significa che sia un lontanissimo ricordo.

Provate a chiedere ai vostri genitori, o ai vostri nonni, se conoscono qualche caso di licantropia. Vi racconteranno, probabilmente, di quando erano piccoli e sentivano un uomo solitario del paese ululare alla luna.

Questo perché la tradizione folkloristica ha consolidato la figura del lupo mannaro a tal punto da essere presente in ogni regione dell’Italia, seppur con nomi diversi. Lupunaru a Palermo, lunaru nel Salento, lupi minari a Forlì.

Questa notte tutte le forze del male vagheranno libere per il mondo e anche i lupi mannari andranno a caccia. Perciò rispolverate quel vecchio set di posate d’argento che vostra nonna, o vostra madre, tiene conservato con tanta cura.

Sia mai che sentiate tanfo di lupo dietro la vostra porta.

 

Bibliografia: