Al chiaro di luna. Riflessioni sulla licantropia in età antica

Erede del fenomeno socio-religioso dello sciamanesimo, che percepiva l’ibrido uomo-animale come il più nobile fine a cui l’uomo potesse ambire, la figura del licantropo occupa una posizione di rilievo nel corpus folkloristico europeo e in altre parti del globo.

Che sia un diretto sviluppo del caso clinico della licantropia o, per l’appunto, eredità culturale dei credi animisti che l’homo sapiens praticò per gran parte della sua esistenza, l’uomo lupo, λúkος ἄνθρωπος, presenta alcune evidenti somiglianze con altre figure leggendarie. Basti pensare agli sciamani aztechi, capaci di trasformarsi in animali, i vampiri che mutano in pipistrelli, i guerrieri norreni úlfheðnar che si trasformano in lupi e tanto altro.

E se la figura dell’uomo che muta la propria forma è pressoché presente in tutte le culture umane, in quella europea l’uomo lupo, in particolar modo, vanta una tradizione millenaria che, tutt’oggi, influenza il gusto cinematografico e letterario dell’orrore.

 

Licantropo al chiaro di luna. Immagine realizzata con IA

 

Petronio e l’amore per l’orrore

La prima attestazione letteraria di questo fenomeno, che si configura essere più sociale che clinico, è contenuta nel Satyricon di Petronio, scrittore e poeta romano del I sec. a.C.
Nel LVII libro del Satyricon è narrata la vicenda di Nicerote, amico di Trimalchione, che racconta la sua storia ad un banchetto per intrattenere i commensali. Il racconto, però, non sarà così tanto allegro come spera l’amico Trimalchione.

Quando era ancora un servo, Nicerote aveva come amante la bella moglie dell’oste, Melissa.

Quando il suo padrone andò a Capua per smerciarvi delle cianfrusaglie, approfittando della prematura morte dell’oste, Nicerote decise di far visita a Melissa e invitò un soldato ad accompagnarlo durante il viaggio.

Arrivati nei pressi di un cimitero e alzatasi la luna splendente in cielo, i due si riposarono tra le tombe, in attesa dell’alba. Quand’ecco che l’ospite, dopo essersi allontanato, si denudò, gettando i propri vestiti a terra. Vi urinò sopra, girandovi intorno, e si trasformò in un lupo. Poi fuggì nel bosco e sparì.

Nicerote, impaurito, si avvicinò ai vestiti e si incupì, ancor di più vedendoli ormai tramutati in pietra. Lo sgomento lo rapì e decise di tornare in fretta e furia alla tenuta di Melissa.

Questa gli aprì la porta e lo informò del recente attacco al gregge della sua tenuta da parte di un lupo. Che fosse il soldato di prima?

La donna, orgogliosa, aggiunse che il lupo avesse sì ucciso tutte le bestie, ma senza passarla liscia. Un servo gli aveva, infatti, trapassato il collo con la lancia.

Nicerote, dubbioso, tornò al cimitero e vide i vestiti, prima impietriti, adesso scomparsi. C’era solo tanto sangue.

Così tornò a casa e vide il medico che stava curando un uomo ferito su un lettino. Era il suo amico soldato, ferito alla gola dalla lancia del servo di Melissa. Nicerote capì allora che il suo amico fosse un lupo mannaro e, sbigottito, promise di non averci più a che fare.

Versipellis. Colui che muta la propria pelle. È questo il termine con cui il nostro Nicerote definì il soldato e con cui i Romani chiamano i lupi mannari. Difatti, è diffusa la credenza che il manto lupino sia nascosto sotto la pelle umana e tirato fuori all’occorrenza.

Non è una trasformazione della pelle, che subisce una crescita repentina di peluria e artigli affilati. È un semplice cambio di vestiti. Un “voltapelle”, dunque.

Credo sia un lupo mannaro

Il racconto di Nicerote costituisce la prima testimonianza letteraria di un caso di licantropia, sebbene essa compaia ben prima del nostro Gaio Petronio.

Effettivamente, di mutaforma si parla nel famoso mito di Licaone, il sovrano empio trasformato in lupo da Zeus, inorridito dalle nefandezze del re di Arcadia. Le feste in onore di Zeus quivi celebrate erano infatti chiamate Licee, dal nome λύκος (lupo), una delle molteplici forme assunte dal Cronide.

In Grecia pare che la figura del lupo fosse radicata all’interno dei culti locali. Non molto lontano, in Acarnania, il nonno di Odisseo, il famoso Autolico (da αὐτός «stesso» e λύκος «lupo»), era un famoso ladro di bestiame, reso  infallibile da suo padre Ermes.

In diverse situazioni Autolico ruba il bestiame altrui, appropriandosi di quell’istinto predatore tipico dei lupi che attaccano un gregge. Egli preda gli animali proprio come farebbe un lupo, quindi egli stesso è un lupo. Forse è proprio quello che avranno pensato i suoi contemporanei.

Altri elementi di teriantropia, termine indicante l’assunzione di caratteristiche animali da parte di esseri umani, di cui branca è la licantropia, possono essere rintracciati in Aita, o Eita, il dio etrusco dell’oltretomba, che si veste di pelle di lupo, assumendone le forme.

 

La trasformazione di Licaone, di Hendrick Goltzius Un caso di licantropia dei miti classici
La trasformazione di Licaone, di Hendrick Goltzius. Un caso di licantropia nei miti classici

Il lupo della porta accanto

A lungo si è ritenuto che il licantropo fosse un prodotto della fobia cristiana verso i guerrieri pagani, che i barbari coperti di pelli di lupo (gli úlfheðnar sopra citati ne sono un esempio) incutessero così tanto terrore ai monaci cattolici a tal punto da ritenerli un tutt’uno con l’animale totemico.

Eppure, come abbiamo visto, la concezione del mutaforma è già insita nella cultura europea antica, perciò quella descritta dai monaci cristiani ne è soltanto l’evoluzione. Un’evoluzione che, in seguito, ha contribuito alla cristallizzazione della figura del licantropo attribuendogli alcune caratteristiche che conosciamo tutti oggigiorno: legame profondo con la luna, ferocità, insaziabile voglia di carne umana, vulnerabilità all’argento, presenza o assenza, a seconda dei casi, della facoltà di intendere e di percepire il mondo come un normale essere umano.

Si badi bene, però, dal giudicare il licantropo una figura folkloristica che appartiene al passato. Nel Medioevo erano scoppiate vere e proprie “epidemie” di licantropia e sebbene questa isteria collettiva sia stata debellata con l’avvento illuminista, questo non significa che sia un lontanissimo ricordo.

Provate a chiedere ai vostri genitori, o ai vostri nonni, se conoscono qualche caso di licantropia. Vi racconteranno, probabilmente, di quando erano piccoli e sentivano un uomo solitario del paese ululare alla luna.

Questo perché la tradizione folkloristica ha consolidato la figura del lupo mannaro a tal punto da essere presente in ogni regione dell’Italia, seppur con nomi diversi. Lupunaru a Palermo, lunaru nel Salento, lupi minari a Forlì.

Questa notte tutte le forze del male vagheranno libere per il mondo e anche i lupi mannari andranno a caccia. Perciò rispolverate quel vecchio set di posate d’argento che vostra nonna, o vostra madre, tiene conservato con tanta cura.

Sia mai che sentiate tanfo di lupo dietro la vostra porta.

 

Bibliografia:

Marcello come here!

“Marcello è un magnifico attore. Ma è soprattutto un uomo di una bontà incantevole, di una generosità spaventosa. Troppo leale per l’ambiente in cui vive. Gli manca la corazza, certi pescicagnacci che conosco io, sono pronti a mandarselo giù in un boccone”. (Federico Fellini)

Perché parlare proprio oggi di Marcello Mastroianni? Non è il suo compleanno, ma semplicemente i miti non muoiono mai, dopo anni il loro nome ancora riecheggia, perché Marcello era un attore vero, non costruito. Con i suoi film torniamo indietro nel tempo, a quell’Italia in bianco e nero dove vedevi una coppia di innamorati, trasportati dalle due ruote di una vespa che sfrecciava nei vicoli e nelle strade del bel paese.

Marcello e le maschere

Marcello viene considerato come uno tra i maggiori artisti di sempre. Non solo in Italia, ma anche all’estero molti registi lo volevano con sé. Nella maggior parte dei film a cui ha preso parte, ha sempre ricoperto ruoli da protagonista, ha lavorato con cineasti i cui i nomi sono leggenda, tra cui il mitico Federico Fellini. Ha recitato con la bellissima Sophia Loren, Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi. Attore molto versatile, ha indossato mille volti, dai ruoli drammatici fino ad arrivare a quelli comici.

Per tre volte è stato candidato all’Oscar, senza mai portarsi a casa l’ambita statuetta, ma in compenso ha vinto numerosi premi: due Golden Globe, otto Nastri D’argento ( di cui uno postumo), due Premi BAFTA, otto David di Donatello, cinque Globi d’oro e un Ciak d’oro. Nel 1990 ha vinto il Leone D’oro alla Carriera. Insomma il suo talento è stato riconosciuto, (anche se il genio non viene consacrato da un premio ma da ciò che un artista lascia ai posteri e Marcello ha trionfato in pieno).

Marcello Mastroianni in una scena de “La Dolce Vita”. Fonte: Cineriz

Marcello comincia a incamminarsi verso il mondo del cinema dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando inizia a prendere lezioni di recitazione e nel 1948 fa il suo debutto nel film I Miserabili tratto dal romanzo di Victorio Hugo, diretto da Riccardo Freda. Pian piano comincia a interpretare piccoli ruoli teatrali in compagnie di dilettanti, facendosi notare da Luchino Visconti, che gli offre il primo ruolo importante in “Rosalinda o Come vi piace”. Da lì in poi l’ascesa del nostro protagonista non conoscerà mai la parola fine.

Sono tanti e sono troppi i film di Marcello memorabili: oggi avrei voluto parlare di almeno due pellicole che sono entrate nel mio cuore, due opere che racchiudono non dialoghi, ma vere e proprie poesie, ma ci vorrebbe un articolo a parte …

La Dolce Vita (1960)

“Vorrei vivere in una città nuova, e non incontrare più nessuno”

Piccolo tesoro del cinema mondiale, La Dolce Vita è un film diretto e scritto da Federico Fellini e considerato uno dei suoi più grandi capolavori. Ha ottenuto quattro candidature agli Oscar vincendone una, nonché la Palma d’oro al 13º Festival di Cannes. Il titolo del film rappresenta il periodo storico di fine anni ’50 e inizio ’60 e racchiude tutte quelle vite mondane sbocciate in quell’era, tra champagne e hotel lussuosi.

In quelle stanze scintillanti troviamo Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) giornalista di cronaca mondana, il cui sogno però è quello di diventare un romanziere, stanco di quella vita costruita in cui l’immagine viene prima di ogni cosa.

“A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene.”

 

Marcello Mastroianni in “La Dolce Vita”. Fonte: Cineriz

Il nostro protagonista non è così, è un artista, quindi una persona che vede il mondo con occhi diversi. Il suo lavoro l’ha portato a vivere quella vita di eccessi che tanto detesta.

Marcello Rubini è fidanzato e convive con Emma (Yvonne Furneaux), ma la sua natura da “don Giovanni” lo fa passare da una donna all’altra, poi c’è Maddalena (Anouk Aimée), una donna che ama, ma con cui vuole solo un rapporto carnale. Con l’arrivo della bellissima Sylvia (Anita Ekberg), una celebre attrice americana, il nostro giornalista comincerà a provare emozioni nuove.

“Sylvia ma chi sei?”

Lei sembra la salvezza per il nostro Marcello. Quella scena che tanto amiamo della Fontana di Trevi, nient’altro rappresenta che l’illusione di una cambiamento per il protagonista che ormai odia quella vita mondana che Fellini ha messo in scena. Con Sylvia vorrebbe una storia d’amore ma non ci riesce, non si impegnerà nemmeno con Emma e Maddalena, illudendole e trattandole come meri oggetti, come gli ha insegnato la vita da “giornalista mondano”.

“Marcello, come here, hurry up”

Il declino dell’uomo contemporaneo ne La Dolce Vita

Come ci insegna Fellini, la dolce vita non può essere eterna, e quel vuoto che attanaglia Marcello rimarrà ancorato ad esso, nei suoi occhi spenti che vediamo alla fine del film. Lo spettatore quasi si arrabbia con Marcello, perché è un uomo che non si impegna e si abbandona a quella vita che dolce non è, arrendendosi a quell’esistenza che disprezza tanto, ma che, allo stesso tempo, non riesce a lasciare: una realtà fatta di donne, tradimenti e materialismo. Fellini, in tre ore di film, riesce a mostrare la decadenza dell’essere umano contemporaneo che tutto ha, ma per inerzia non fa niente per cambiare e migliorare la realtà.

Marcello (Marcello Mastroianni) e Sylvia (Anita Ekberg) nella celebre scena della fontana. Fonte: Cineriz

Che cos’è il Cinema se non l’arte di raffigurare il vero? Cos’è la recitazione se non il modo di mettere a nudo le emozioni umane? Chi sei tu Marcello? Che hai reso grande il nostro paese con il talento e la bontà, che abbiamo visto nei tuoi lavori? E dimmi, Marcello, ti sei mai rivisto in qualche tuo personaggio, ti sei mai rispecchiato in Guido Anselmi o in Domenico Soriano? Te ne sei andato via troppo presto, a soli 72 anni, ma purtroppo – si sa – non tutte le leggende vivono fino ai 100 anni.

“Marcello ritorna da noi!” Il cinema non è più lo stesso senza di te, il perfetto gentleman che ha rubato il cuore di milioni di italiane e che il talento ha consacrato come uno dei migliori attori che la cinepresa abbia mai inquadrato.

Alessia Orsa

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“Il mostruoso femminile”: la paura delle donne tra mito e cinematografia di massa

“La donna è sempre stata un mostro.
La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto.”

Si apre così Il mostruoso femminile, saggio di Jude Ellison Sady Doyle, pubblicato in Italia nel marzo del 2021 ed edito da Tlon. Al suo interno, l’autrice si avvale di molteplici fonti – in primis casi di cronaca nera, letteratura gotica e cinematografia horror – per ricercare i timori alla base delle storie terrificanti che da sempre il patriarcato perpetra sul femminile. La narrazione è suddivisa in tre parti: figlie, mogli, madri – gli unici ruoli che la nostra società legittima per una donna – e pone come fondamento della sua analisi miti e leggende popolari che hanno costituito la materia prima di tutte le opere moderne successive.

La copertina del saggio. Foto di Rita Gaia Asti

Fin dai primi capitoli l’autrice dimostra che le figure femminili demoniache, o in generale sovrannaturali, sono ritratte con connotati mostruosi perché paradossalmente forniscono un ritratto realistico di come sarebbero le donne se lasciate libere di comportarsi da esseri umani indipendenti.
Il primo passo con cui il patriarcato se ne assicura la sottomissione, e dunque la de-umanizzazione, è la repressione della loro rabbia fin dall’adolescenza. Non a caso il nostro contesto socio-culturale alimenta narrazioni nelle quali la rabbia provata durante la pubertà femminile è così disumana da evocare potenze infernali.
E’ il caso de L’esorcista, l’iconico film del 1973 diretto da William Friedkin. Nella pellicola, la dodicenne Regan MacNeil viene posseduta dal demonio e manifesta comportamenti che, a ben vedere, più che una “possessione” sembrano una spettacolarizzazione orrorifica della pubertà femminile:

“Esplode di rabbia, insulta le figure autoritarie e vi si oppone, si fa beffe di Dio e dell’uomo, lanciando inutili provocazioni. Parla ossessivamente di sesso, soprattutto per scandalizzare gli altri. Impreca, urla, odia tutti, e il minuto dopo è l’adorabile bambina che vuole la mamma.”

Regan MacNeil in una scena de L’esorcista. Fonte: Warner Bros Entertainment, Inc

Quando l’autodeterminazione rende la donna disumana

Per il patriarcato è cruciale assicurarsi che fin dalla prima adolescenza la donna percepisca la propria rabbia come anomala e dunque se stessa come un mostro da addomesticare, da controllare dall’esterno, piuttosto che come un essere umano con sentimenti umani, anche negativi. Così può condurla più facilmente verso gli unici due ruoli che ha in serbo per lei: sposa mansueta e madre amorevole.

Tuttavia, anche in epoche remote, poteva capitare che donne sposate, soprattutto se troppo padrone di sé e provviste di una rendita personale più consistente di quella del marito, potessero apparire così anomale da non essere considerate affatto umane, ma creature di un altro mondo. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le fate del folklore irlandese. Queste, scrive Doyle, non solo pretendevano rispetto nell’ambito di una relazione coniugale, ma avevano diritto a lasciare il marito umano se le percuoteva:

“In una delle storie raccolte da Evans-Wentz, l’uomo impara che non deve percuotere più di due volte la moglie senza ragione, e per percossa si intende anche un leggero colpetto sulla spalla.”

Fate dal folklore irlandese. Fonte: amazon.it

Purtroppo un marito violento è solo il prodotto più evidente di una gerarchia patriarcale. Le sue manifestazioni più distruttive gravano invece nel profondo del nostro inconscio ed assumono la forma di modelli inarrivabili.

E’ il caso di Carolyn Perron, la cui vicenda reale dei primi anni settanta ispirò il film L’evocazione – The Conjuring, uscito nel 2013. Carolyn, liberale giovane poetessa atea, costretta di peso a diventare una casalinga conservatrice e cristiana, si convinse di essere perseguitata da una strega di nome Bathsheba.

In realtà, le azioni violente che immaginava compiute dalla strega erano compiute da lei stessa, ridotta in uno stato di disperata prostrazione. Bathsheba altri non era che la rappresentazione di sentimenti a lungo repressi: il rancore per l’abbandono delle sue aspirazioni, sacrificate ai bisogni delle figlie, ed il senso di colpa per non riuscire a rispecchiare quell’ideale di amore incondizionato, da sempre richiesto alle madri, avevano creato il mostro.

La locandina del film L’evocazione – The Conjuring. Fonte: sentieridelcinema.it

Perché leggerlo?

La penna dell’autrice, cruda ed a tratti tagliente, sviscera con cura ogni risorsa a cui attinge. Traccia un quadro meticoloso di ogni forma di violenza che l’uomo ha adoperato nei secoli per assoggettare il femminile. Ne derivano pagine indimenticabili, che risucchiano il lettore nella loro infinita ed illimitata oscurità con lo scopo di guidarlo verso una progressiva quanto necessaria presa di coscienza. Inoltre la bibliografia è arricchita con preziose considerazioni personali dell’autrice su ciascuna fonte menzionata, con l’aggiunta di validi consigli per chi volesse approfondirne il contenuto.

Rita Gaia Asti

 

Tra mito e scienza: le due facce di Messina

La Sicilia è da sempre terra di miti e leggende: ci siamo mai chiesti però cosa ci sia alla loro origine?

Fin dalla notte dei tempi l’uomo si pone delle domande, molte delle quali aventi oggi risposte scientifiche. È chiaro però che lo stesso non accadesse per gli antichi, che trovavano nei racconti mitologici un modo per rispondere a moltissimi quesiti, soprattutto riguardanti fenomeni naturali inspiegabili.

Vediamo insieme come alcune delle leggende siciliane più famose siano proprio nate da un’esigenza di trovare delle risposte e come invece, oggi, proprio queste risposte siano state date.

Scilla e Cariddi

Presenti già nei poemi omerici, queste due figure vengono descritte come mostri marini presenti nello Stretto di Messina. Sulla costa calabra si trovava Scilla, ninfa trasformata dalla maga Circe in mostro marino dalle sei teste, mentre lungo la costa sicula si trovava Cariddi, figura mitologica trasformata da Zeus in mostro marino dalla gigantesca bocca e punita così per la sua voracità. Si pensava che Cariddi ingoiasse le navi per poi rigettarle in mare contro Scilla.

Fenomeno dell’Upwelling. Fonte: Tempostretto

Oggi sappiamo che Scilla non è altro che uno scoglio presente nella costa calabrese, mentre Cariddi un gorgo (vortice creato dalle correnti). Infatti, le correnti dello Stretto causavano parecchi problemi alle imbarcazioni più antiche, tali da dare origine alle due figure mitologiche.

Nello Stretto si incontrano il Mar Ionio e il Mar Tirreno, bacini con acque completamente differenti che creano quindi particolari fenomeni idrodinamici: quando l’uno presenta l’alta marea rigetta le sue acque nel bacino vicino, che si trova invece in fase di bassa marea, e viceversa. Questo fenomeno è noto come “Upwelling”.

La fata Morgana

Frederick Sandys, La fata Morgana

Il personaggio, legato alla mitologia anglosassone, è presente anche in una versione Normanna, che vede la fata stabilita proprio nello Stretto di Messina. Si raccontava che questa si divertisse a ingannare tutti coloro che volessero giungere in Sicilia dalla Calabria. Tra questi, un re arabo che si trovava sulle coste calabre quando la fata gli fece credere di poter quasi toccare la terra siciliana facendo anche un solo passo: le coste gli apparvero quindi molto più vicine e il re decise di gettarsi in acqua per raggiungere l’altra sponda finendo così per annegare.

Fonte: Il Messaggero

Questa leggenda si rifà a un fenomeno atmosferico:  quando la temperatura dell’aria vicina al suolo è minore di quella sovrastante si crea una differenza che fa sì che la luce non segua la sua direzione usuale ma venga rifratta, creando così un effetto ottico o miraggio che fa apparire gli oggetti lontani molto più vicini.

Questo fenomeno è conosciuto ancora oggi come fenomeno della Fata Morgana proprio in riferimento alla leggenda normanna.

La grotta dei Ciclopi a Milazzo

La leggenda vuole che sia ambientata proprio a Milazzo la scena dell’Odissea in cui Ulisse incontra Polifemo. Questa credenza veniva confermata sia dalla presenza di una grotta, sia dall’ipotesi che gli antichi abitanti siculi avessero trovato degli scheletri con un foro al centro del cranio, al tempo attribuiti a una possibile origine ciclopica.

In realtà, i crani appartenevano a una particolare specie preistorica, gli elefanti nani. Le dimensioni ridotte rispetto alle altre specie sono dovute al cosiddetto “nanismo insulare”: fenomeno diffuso nelle zone con comunità isolate, nelle quali i continui incroci tra consanguinei sono la regola.  I siciliani del tempo non riuscendo però a spiegarsi a chi potessero appartenere i reperti, scambiarono il foro per la proboscide con l’occhio centrale del ciclope e giunsero a questa bizzarra conclusione.

Colapesce

Soffitto del Teatro Vittorio Emanuele (Messina),  Renato Guttuso. Fonte: Normanno

Un’altra famosissima leggenda è quella di Colapesce, un giovane siciliano, Nicola, che amava trascorrere le sue giornate in mare alla ricerca di tesori. Per questo motivo il re Federico II lo volle mettere alla prova, lanciando in mare oggetti preziosi e chiedendo al ragazzo di riportarli indietro. Durante uno di questi tentativi Colapesce, così soprannominato per la sua abilità nel destreggiarsi in acqua, si accorse che la Sicilia poggiava su tre colonne, una delle quali, vicino a Messina, consumata. Egli rimase dunque in mare a sorreggere quella colonna: si pensava che a far tremare la terra tra Messina e Catania in alcuni giorni fosse appunto il giovane che cambiava il lato della spalla sul quale poggiava la colonna, stanco per la fatica.

Oggi esistono numerosissimi studi sulla sismicità della zona messinese. Uno in particolare, pubblicato su Nature Communications, mostra anche una correlazione tra attività sismica ed eruzioni vulcaniche.

“Le faglie lungo le quali risale il mantello della Tetide”, spiega la coordinatrice della ricerca Alina Polonia,  “controllano anche la formazione del Monte Etna, dimostrando che si tratta di strutture in grado di innescare processi vulcanici e causare terremoti. Queste faglie, infatti, sono profonde e lunghe decine di chilometri, e separano blocchi di crosta terrestre in movimento reciproco”.

Nonostante quanto detto trovi ormai una spiegazione scientifica, queste leggende e credenze continuano ad essere raccontate e tramandate: forse perché per secoli hanno contribuito alla formazione di un’identità culturale, o forse perché hanno ancora oggi la capacità di affascinare coloro i quali si soffermino ad ascoltarle.

Cristina Lucà

Giove e le sue Lune: tra Mito e Astronomia

Arrivate dalla sonda Juno le prime immagini di GioveIl 5 agosto 2011, a bordo di un razzo Atlas V alla Cape Canaveral Air Force Station, è stata lanciata Juno, una sonda della NASA, il cui compito è quello di studiare il campo elettromagnetico di Giove.

Il 4 luglio di questo anno, finalmente, questa piccola sonda è arrivata a destinazione e il 10 luglio ha inviato le prime foto del grande pianeta con le sue 3 lune (la quarta è rimasta nascosta, Callisto): Io, Europa e Ganimede.

Il pianeta si riesce a vedere molto bene, per quanto non si hanno ancora documenti in alta risoluzione, con le sue bande orizzontali e la famosa Grande Macchia Rossa.

Finalmente quindi, Zeus e le sue amanti, possono essere visti da tutti noi. I nomi delle lune, infatti, derivano proprio dalla storia greca, dove Io, Europa e Callisto erano le amanti di Zeus (il corrispettivo greco di Giove), mentre Ganimede era il suo cocchiere (e amante).

satelliti-di-giove

Con altre missioni spaziali si sono potute constatare le caratteristiche delle lune: Callisto è il più grande oggetto solare conosciuto, Ganimede è l’unico con un campo magnetico proprio e formato da ghiacci crateri e distesa oceanica salata, Io è l’oggetto solare più geologicamente attivo con colate laviche che gli danno il caratteristico colore giallo e, infine, Europa avente la superficie più liscia di qualsiasi altro oggetto solare. Quest’ultima, inoltre, sembrerebbe essere giovane e provvista di acqua: la qual cosa ha fatto ipotizzare agli scienziati che potrebbe esserci vita su essa.

Dunque, adesso, tocca al Grande Pianeta Rosso, Giove, svelarci i suoi segreti.

Juno ha compiuto un lungo viaggio di quasi 3 miliardi di chilometri e resterà a ruotare sull’orbita gioviana per avvicinarsi gradualmente all’atmosfera del pianeta, impiegando un totale di 53 giorni: intorno al 27 agosto dovrebbe, dunque, attivare la fotocamera ad alta risoluzione per poter inviare sulla terra altre incredibili foto di Giove.

La sonda, al momento, trasporta 9 strumenti scientifici di cui 3 firmati dalla nostra nazione: l’italia, infatti, ha partecipato al progetto con lo spettrometro Jiram (realizzato da Leonardo-Finmeccanica a Capi Bisenzio ) per lo studio delle aurore polari che si sviluppano dall’incontro delle particelle solari con il campo magnetico del pianeta; il KaT (progettato dall’Università della Sapienza di Roma ), che servirà per la mappatura interna del pianeta e, infine, l’AST (realizzato da Leonardo-Finmeccanica), sensore che dovrà cercare di mantenere la sonda sulla giusta rotta dell’orbita del pianeta.Giove

Ma non sono gli unici ‘’passeggeri’’ italiani sulla sonda Juno: a bordo anche la targa con il ritratto di Galileo Galilei, con la sua firma e il testo in cui, il medesimo scrittore nel 1610, descriveva proprio Giove e le sue 4 lune. Inoltre ci sono anche 3 statuine Lego che raffigurano sempre Galileo e, a fargli compagnia, Giove e Giunone.

Non manca nessuno, quindi, in questa avventura nello spazio. Ora bisogna solo avere la pazienza di aspettare i dati che verranno raccolti, durante questi 20 mesi, dalla sonda Juno e conoscere, finalmente, i segreti del pianeta ‘’Gigante’’ già, appunto, descritto da Galileo ma rimasto, fino ad ora, un vero e proprio mistero.

Elena Anna Andronico