La Casa dei Prosciutti

La notte era gelida e tranquilla, come tutte le notti d’inverno della Val Bodenco. Spighe di grano fluttuavano al vento, rami di pino scrosciavano lenti, fari e lampioni illuminavano i campi e in lontananza un borbottio si approssimava a rompere il silenzio. Le auto sfrecciavano sulla statale, schegge di luce apparivano e sparivano in un istante, poi il buio inghiottiva di nuovo rapido case, siepi e campagne. Il borbottio incombeva ormai su Verrosio, diecimila anime stagliate sulle rive del fiume Multro, attraversando il centro da un capo all’altro, fino a stazionare in cima ad un grande spiazzo nei pressi di una lussuosa villa con un grande cartellone che recitava “La Casa dei Prosciutti”

Qui una luce rossa intermittente iniziò a roteare e il borbottio che s’era fatto boato iniziò ad essere incessante. Un rumore metallico dilaniò la notte e una palla di fuoco si levò al cielo, richiudendosi in una nuvola di polvere grigiastra. Sotto questa non era rimasto altro che un monolite d’acciaio accartocciato tra i carboni ardenti dell’erba bruciacchiata. A quel punto la quiete era tornata su Verrosio. Ma non sarebbe durata a lungo, non sarebbe sopravvissuta all’alba, quando i primi raggi di sole avrebbero mostrato l’entità della devastazione notturna.

Carlo Motta per campare scriveva romanzi, e nel tempo libero si dilettava ad assicurare criminali alla giustizia. Quella mattina era ancora nel letto di casa sua e si era svegliato scarico, privo d’immaginazione e di voglia di vivere. La chiamata del procuratore Angelo Pastore, suo vecchio amico nonché accanito lettore delle sue opere, giunse come una benedizione ad evitargli l’ennesima giornata di autocommiserazione e cibo spazzatura.

Parcheggiò la sua Smart Fortwo bianca nei pressi della sontuosa villa “Casa dei Prosciutti” della famiglia Ferrucci, giungendo sul luogo dell’incidente a piedi dopo aver evitato come la peste ogni possibile contatto con forze dell’ordine e curiosi. Non che fosse una rinomata celebrità, ma il rischio che qualcuno avesse letto le sue opere e riuscisse a identificarlo, c’era. E lui voleva scongiurarlo in ogni modo.

L’elicottero su cui viaggiavano Emilio Ferrucci e il suo pilota era disteso su uno spiazzo erboso, terra e cenere ricoprivano tutto per metri e metri, mentre le lamiere del veicolo si erano conficcate nel terreno rendendo complicate le manovre di recupero dei corpi.

«Questi ricchi hanno ben poco rispetto per la propria vita» disse Motta osservando la scena con le mani in tasca «Perché mai tornare a casa in elicottero? Non sanno che sono delle dannate macchine infernali? Ah, quanti danni che fa l’hybris»

«Alla buon’ora» lo rimbrottò il procuratore Pastore allargando le braccia spazientito.

«Questo sarebbe?» domandò un carabiniere che stava parlottando con Pastore.

«Un ficcanaso» rispose Motta dando una pacca sulla spalla al milite prima di inoltrarsi verso il luogo dell’incidente.

«E’ un mio amico scrittore. Nel tempo libero ci aiuta con le indagini» si giustificò Pastore.

«E’ un do ut des» esclamò Motta mentre il carabiniere e Pastore lo seguivano. «Io do una mano al procuratore e lui in cambio mi fornisce materiale per le mie storie».

«Sta scherzando ovviamente» disse il procuratore sorridendo nervosamente.

«Oh, giusto Angelo, devo ripetere la storiella che faccio tutto questo per dovere civico».

«Siete sicuro che possa esserci utile?» domandò scettico il carabiniere al procuratore mentre i tre si incamminavano nella sterpaglia.

«Avete la mia parola».

Giunti sul luogo dell’incidente Motta si mise le mani ai fianchi, guardò verso la casa dei Ferrucci, poi verso la carcassa dell’elicottero e ancora una volta verso la casa

«Scommetto che il morto è uno dei Ferrucci»

«Acuto osservatore» disse sarcastico il comandante dei carabinieri

«Perché, è così ovvio?» chiese Motta irritato

«Siamo nella loro proprietà»

«Se per questo tutta Verrosio è una loro proprietà. No, dico che il morto è un Ferrucci perché tutto il paese è venuto qui a curiosare»

«Si» confermò già esausto il carabiniere «La vittima è Emilio Ferrucci, il proprietario della famosa azienda “La Casa dei Prosciutti”»

«E il pilota?»

«Come scusi?»

«Il pilota dell’elicottero. È sopravvissuto?»

«No ovviamente. È morto nello schianto»

«Allora ci sono due vittime»

«Certo ma…»

«Certo ma il povero disgraziato non conta. Intendevate questo?» lo incalzò Motta a muso duro

«Fa sul serio?» chiese il carabiniere guardando prima Motta e poi Pastore

«Sto scherzando» esclamò lo scrittore esplodendo in una fragorosa risata «Volevo solo fare un po’ di demagogia spicciola»

«Ah ecco» rispose sollevato il comandante sistemandosi il colletto della divisa

«L’altro dov’è?»

«L’altro?»

«Non sono i due fratelli a gestire l’azienda Ferrucci? Emilio e Romano»

«Romano Ferrucci è morto l’anno scorso» rivelò il carabiniere

«Ah, molto bene» esclamò sorpreso Motta portandosi le mani alla bocca con fare pensieroso «Andiamo»

«Andare? Dove? Non ci dice nulla sulla scena?» domandò allarmato il comandante

«Un elicottero è esploso in volo»

«In volo?»

«In volo» confermò Motta indicando la sterpaglia

«Aspetti, non è esploso dopo essere precipitato?»

«Oh, nient’affatto, basta guardare i resti dell’elica»

«E dove sono?» chiese il procuratore Pastore guardandosi intorno

«Non ci sono, per l’appunto» rilevò Motta «Se il velivolo si fosse schiantato l’elica sarebbe ancora qui intorno o addirittura ancora attaccata alla carcassa. Invece non c’è. L’elicottero è esploso in fase d’atterraggio, ma prima di toccare terra. E nella deflagrazione i detriti si sono sparpagliati in queste campagne»

«Allora non è un incidente. È un omicidio» esclamò sgomento il comandante dei carabinieri

«O un attentato» ipotizzò Pastore

«Un attentato? Oh no, no no, lo escludo» ribatté Motta

«Perché? I Ferrucci sono ricchi, potenti e molto odiati dopo quella storia della contaminazione degli affettati»

«La ritorsione del familiare di una vittima della contaminazione?» domandò il carabiniere

«Una vendetta»

«E perché non piazzarla all’ingresso della casa?» domandò Motta volgendo lo sguardo verso la sfarzosa villa dei Ferrucci «Perché ucciderne uno solo, quando il nostro terrorista avrebbe potuto ucciderli tutti? E come avrebbe piazzato la bomba sull’elicottero?»

«Magari si è infiltrato nella casa. Forse lavora lì dentro. Un cameriere, un autista, forse un conoscente del pilota»

«La domanda resta» si impuntò Motta con Pastore «Perché ucciderne uno solo quando poteva eliminarli tutti?»

«Era il capo dell’azienda, era un simbolo. Uccidere lui significa uccidere i Ferrucci»

«Ma ai tempi della contaminazione non era lui il capo, bensì il padre, Giovanni Ferrucci»

«Che è morto da anni» ricordò il comandante dei carabinieri

«E quindi di che razza di vendetta stiamo parlando? No, il nostro assassino non voleva uccidere un Ferrucci a caso o tutti Ferrucci, ma questo Ferrucci in particolare»

«Se non è la vendetta, allora il movente può essere passionale» disse Pastore

«Ma non diciamo sciocchezze!» esclamò Motta voltandosi di nuovo verso la scena dell’esplosione «Tuo marito o il tuo amante ti lascia e tu lo fai saltare in aria con dell’esplosivo? Un omicidio passionale richiede…passione! Insomma contatto fisico, se non addirittura visivo. Questo è un omicidio a distanza, compiuto con premeditazione, quindi a sangue freddo, e io conosco un solo movente più forte ma più razionale del sesso…»

«Il denaro» esclamò Pastore

«Esatto. Chi eredita tutta la baracca ora che Emilio è passato a miglior vita?»

«Sarebbe toccato al fratello minore, Romano»

«Che però è morto» disse il carabiniere

«E com’è morto?» domandò Motta

«Durante un lancio col paracadute, che però non si è aperto»

«Ma che famiglia sfortunata. Ancora una morte violenta, ancora un incidente…anzi, ancora un omicidio che si può camuffare da incidente»

«Allora anche Romano è stato ucciso?» chiese Pastore

«Probabile. Aveva figli?»

«Nessuno. C’era solo Lorenzo, ma è morto di overdose anni fa» li informò il carabiniere

«Quindi senza Emilio, Romano e Lorenzo, la società adesso appartiene alla vedova di Romano Ferrucci, cioè Amalia»

«Aveva il movente, aveva i mezzi e conosceva gli spostamenti sia del marito che di Emilio» affermò convinto il procuratore Pastore «Andiamo a prenderla»

Ritrovarono la signora Amalia seduta comodamente nella poltrona di casa sua, a disquisire in tono amabile con alcune giornaliste. Quando i carabinieri che scortavano Pastore e Motta le cinsero i polsi con le manette il suo volto divenne una maschera di cera, i suoi occhi si spensero mentre passavano in rassegna gli uomini che la stavano privando della libertà, ma nemmeno per un secondo ella perse la sua arrogante grandeur aristocratica. Entrò nella macchina della polizia come Maria Antonietta lo fece nella carrozza che l’avrebbe condotta sulla ghigliottina.

Non smise mai di proclamarsi innocente, e giurò che l’avrebbe ripetuto al processo. Un processo a cui però non arrivò mai. Si uccise mesi dopo tagliandosi i polsi con un cucchiaio di plastica accuratamente affilato. Quando Pastore chiamò Motta per informarlo della tragedia, questi era a casa sua, a scrivere la bozza di un giallo basato sulla vicenda di Emilio Ferrucci e della moglie intitolato “La Casa dei Prosciutti”.

«Povera donna» disse freddamente al telefono Motta a Pastore.

«Forse era davvero innocente».

«Forse. Ma tu ne sei certo, e hai i sensi di colpa».

«A differenza tua, ho una coscienza».

«Sei crudele».

«Per te questo è solo un gioco. Queste storie ti forniscono quei brividi che la tua creatività non riesce più a trasmetterti» disse furioso Pastore.

«Stai dicendo che sono uno scrittore fallito?»

«Sto dicendo che sei uno stronzo! Una donna è morta, Carlo, morta! E a te sembra non importare nulla…»

«Non me ne importa nulla perché non era una brava donna» si giustificò Carlo

«Come fai a dirlo?!»

«Una donna che aiuta il marito a fingere la propria morte, affinché questi elimini il fratello maggiore senza destar sospetti, non è poi una gran perdita per la società, ne converrai»

«Aspetta, cosa?»

«Sono abbastanza sicuro che Romano Ferrucci abbia ingannato anche lei, dopotutto»

«Romano Ferrucci? È Romano Ferrucci l’assassino di Emilio? Ma non era morto?»

«Chissà chi è morto davvero in quell’incidente col paracadute. Chissà se qualcuno è morto davvero quel giorno. L’unica testimone era Amalia. Ed ora anche lei è morta»

«Quindi Romano si mette d’accordo con la moglie, finge la sua morte e poi pianifica quella del fratello maggiore…» disse Pastore unendo i pezzi

«…la moglie eredita tutto e poi raggiunge il marito, con l’eredità dei Ferrucci, nel suo buon ritiro in chissà quale sfavillante isola caraibica» proseguì Motta «O almeno questo è il piano che Romano espone alla moglie per farle accettare il carcere. Lei era consapevole di finire tra i sospettati e di farsi pure qualche mese di galera, ma era certa che Romano sarebbe intervenuto per tirarla fuori. Una volta realizzato di essere stata ingannata, si è tolta la vita. Amava davvero Romano, a tal punto da diventarne complice. E non si è ammazzata per la reclusione, ma per aver compreso che il marito non l’aveva mai amata, che era stata solo una pedina nelle sue mani mentre lei gli era davvero devota»

«Una teoria affascinante, te lo concedo» rispose Pastore «Ma come la dimostriamo?»

«Dimostrare una teoria? Mio buon amico, questa è solo la trama del mio prossimo libro “La Casa dei Prosciutti”! Io non devo dimostrare niente, devo solo creare e scrivere. Ah già, e vendere. Dimostrare teorie è il tuo mestiere, non il mio. Io ti ho solo aiutato in cambio di una buona storia, come faccio sempre»

«E come trasformo la tua “buona storia” in un caso giudiziario? Come faccio ad incastrare Romano Ferrucci?»

«E dove sarebbe il divertimento se facessi io tutto il lavoro? Buona fortuna procuratore, sono certo che prenderai il tuo assassino. E chiamami se hai bisogno ancora di me. Sono sempre lieto di ascoltare una buona storia. Alla prossima!»

 

Giuseppe Libro Muscarà

Tra mistero e luci rosse: cosa è andato storto in Élite 5?

Classico esempio di serie tv di successo portata avanti perché fa tendenza, sebbene le idee sembrano essere terminate – Voto UVM: 2/5

 

Élite, serie tv targata Netflix, è una delle produzioni di maggior successo degli ultimi anni. Uscita per la prima volta nel 2018, è entrata subito nel cuore della gente.

È la tipica serie adolescenziale, ma arricchita di crimini e misteri che avvengono all’interno del liceo d’élite più famoso di Spagna e nelle vite dei protagonisti, attorno a cui ruota la trama di ogni stagione.

Inoltre, tratta temi sociali importanti quali le dipendenze dalla droga e dal sesso, l’ossessione compulsiva, il razzismo, la ricerca della propria sessualità, ma anche la disuguaglianza economica e la fede religiosa, il tutto sul filo di un grande valore ricorrente: l’amicizia

Giallo ed erotismo a Las Encinas

La stagione inizia con il caso irrisolto di Armando de la Ossa, ucciso nel finale della quarta stagione durante la festa di capodanno di Philipe (Pol Granch): ciò che sembrava essere ormai passato, è tornato letteralmente a galla.

Anche questa volta i produttori decidono di lasciarci sulle spine fin dal primo episodio, mostrando scene di una nuova apparente morte. L’identità della vittima verrà svelata solo nelle ultime puntate, sebbene la storia venga lasciata in sospeso e con l’evidente intento di proseguire la serie con la sesta stagione già confermata.

Ma durante tutta la stagione, lo spettatore non è rimasto “a bocca asciutta”:  non sono mancate relazioni tossiche – a tratti passionali – e scene erotiche, che non sembrano più essere un tabù. Il tutto, però, risulta un po’ forzato, come se si volessero accontentare i fan di una serie priva colpi di scena, ma anzi molto prevedibile.

Samuel (Iztan Escamilla), Ari (Carla Diaz), Ivàn (André Lamoglia) e Patrick (Manu Rios). Fonte: NerdPool

New entry: promosse o bocciate?

Non mancano certamente le new entry, pronte a sconvolgere la storia e con l’intento di conquistare il grande pubblico. Ci sono riuscite?

Si tratta di Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia): rispettivamente “l’imperatrice di Ibiza”, ereditiera e proprietaria di molti locali dell’isola, e il figlio di un famoso calciatore.

Entrambi portano scompiglio nella vita dei protagonisti e, tra orgoglio e confusione, risulteranno quasi odiosi all’occhio dello spettatore. Ma alla fine dei conti, si sa, a tutto c’è un perché: lo script approfondirà i loro personaggi man mano, rendendo la loro immagine più limpida, e riuscendo quindi a farli piacere a chi li guarda.

Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia). Fonte: SpettacoloFanpage

The show must go on: Élite 6 confermata

Nonostante sia diventata piatta e banale, il nuovo delitto irrisolto stavolta riguarderà uno dei protagonisti che ci accompagna dalla prima stagione: per cui è proprio il caso di dirlo: lo spettacolo deve andare avanti.

Ad attenderci, però, sarà un cast del tutto nuovo (o quasi) i cui ruoli sembrano essere già stati assegnati, seppur ancora senza alcuna conferma da parte dei sospetti nuovi attori.

A quanto pare, le riprese per la nuova stagione inizieranno a breve a Madrid, mentre la sua uscita è prevista nel corso del 2023. Non ci resta che attendere!

Like o dislike?

Come già detto, la serie sembra continuare per il gusto di cavalcare l’onda del successo, che in ogni caso arriva puntuale tutti gli anni. Infatti, a poche ore dalla sua uscita, Élite 5 è subito entrata nella top ten delle serie più viste del momento nel mondo, a conferma del fatto che i suoi episodi riescono a fare tendenza nonostante gli anni che passano e i vari cambiamenti.

C’è meno adrenalina e le aspettative sono ridotte, d’altronde è raro che una serie tv rimanga bella, originale e appassionante come per la prima stagione, ma questo è uno dei casi estremi.

La trama sembra essere incentrata solo su un tema – o meglio – su più temi strettamente collegati tra loro: sesso, droga, feste e crimine.

Senz’altro ormai si vive Élite per sapere come andrà a finire, con la speranza, però, che nella sesta stagione ci sia una nuova impennata di qualità.

 

Marco Abate

 

Poesie dai confini del mondo. Il soggiorno a Messina di Friedrich Nietzsche

“Alla fine del mese vado alla fine del mondo: se lei sapesse dov’è!”.

Sono queste le parole del filosofo e scrittore Friedrich Nietzsche nella sua missiva dell’ 11 marzo 1882 indirizzata all’amico musicista Paul Gast, in cui annunciava il suo prossimo viaggio verso la terra alla “fine del mondo”, in Sicilia, nella nostra bellissima città di Messina.

Il filoso di Röcken, tormentato dal Föhn (l’afoso vento tedesco), aveva dall’anno precedente intrapreso un viaggio in Italia, alla ricerca di un clima più favorevole alle sue condizioni di salute.

Dopo un lungo soggiorno della durata di sei mesi sulla costa ligure, partì alla volta della città dello Stretto. Un arrivo in sordina quello di Nietzsche: salpato da Genova a bordo di un veliero, toccò le sponde messinesi il 31 marzo 1882 e, battuto dal mal di mare, venne portato in barella fino al suo albergo, nei pressi di Piazza Duomo.

Ma cosa spinse il filoso del “Superuomo” ad andare a Messina?

La citta dello Stretto in un’antica rappresentazione – Fonte: letteraemme.it

Teorie sulle motivazioni del viaggio a Messina

Sappiamo per certo che non si trattò di un colpo di testa, ma di un progetto che lo portò fino in Sicilia, insieme alla possibilità di restarci per qualche anno. Un insieme di eventi conducono a diverse ipotesi.

Ad esempio Koelher nel suo “Nietzsche. Il segreto di Zarathustra” ipotizza una possibile motivazione nella presenza a Taormina del barone Von Gloeden (fotografo tedesco), che in quegli anni stava attuando una propaganda artistica attraverso il concetto di bellezza, espressa dai giovinetti siciliani in pose antico-greche.

Un’altra valida motivazione è che Nietzsche fu spinto dall’amore per Goethe, che nella sua visita a Messina e a Taormina trovò l’ispirazione per la sua “Nausicaa”. Nietzsche aveva di certo letto il “Viaggio in Italia” del suo connazionale, al punto da rimanerne colpito. Qualche tempo prima aveva scritto all’amico Gast:

“Sempre mi aleggia intorno la Nausicaa”.

Un altro avvenimento non meno rilevante fu la presenza in Sicilia dell’ormai ex amico Richard Wagner, che aveva passato l’inverno a Palermo a comporre il Parsifal; il suo arrivo a Messina fu annunciato in pompa magna. È quindi del tutto improbabile che il filosofo non sapesse della visita del Wagner; di un eventuale incontro tra i due, però, non si sa nulla.

Wagner e Nietzsche – Fonte: messina.gazzettadelsud.it

Il mistero messinese

La permanenza in incognito di Nietzsche a Messina fu contornata da un alone di mistero talmente fitto da far arrossire gli stessi biografi del filosofo.

Una cosa è certa: Nietzsche ha amato Messina tanto quanto Messina ha amato il suo illustre ospite, come egli stesso ha raccontato agli amici Gast e Overbeck:

“I miei nuovi concittadini mi viziano e mi corrompono nel più amabile dei modi”.

In particolare, a Overbeck scrive che i messinesi sono amabili e premurosi al punto che gli sfiora l’idea che qualcuno possa averlo preceduto in Sicilia allo scopo di “comprarmi i favori di questa gente”.

Un soggiorno breve ma altamente proficuo, perché proprio nella città dello Stretto il filosofo completò gli “Idilli di Messina” e iniziò la stesura de “La Gaia Scienza”.

Solo dopo poco più di due settimane, il 20 aprile 1882, il filosofo fece rotta verso la “città eterna”, dove ad attenderlo c’erano l’amico Paul Rée e l’affascinante femme fatale Lou von Salomé (l’eterno amore di Nietzsche).

Friedrich Nietzsche – Fonte: gazzettadelsud.it

Gli “Idilli di Messina

Gli “Idilli di Messina” rappresentano un unicum all’interno della molteplice produzione filosofico-letteraria di Friedrich Nietzsche, in quanto unica opera prettamente poetica, pubblicata nel maggio 1882 sulla rivista «Internationale Monatsschrift» qualche mese dopo la sua composizione.

Una forma modificata e composta da sei di questi componimenti farà successivamente da appendice per la seconda edizione de “La Gaia Scienza” (1887).

Gli idilli nascono dall’impossibilità di rappresentare una singola immagine e al suo interno fissare gli stadi dell’incessante accadere.

“Ho la meta e il porto obliato,

Di tema e lode e pena sono immemore:

Ora io seguo ogni uccello nel volo.”

(da “Principe Vogelfrei”)

 

Le poesie seguono un percorso crescente ricco di continui rimandi alla differenza tra essere e divenire, tematiche che il filosofo affronterà in seguito. L’essere che ha la funzione di stato sincronico che può essere colto, si scontra con il divenire che non ha le sembianze di un flusso di coscienza distruttivo (tipico della filosofia nietzscheana), ma di un progetto, scelto e portato avanti, quello dell’oziosa incoerenza del divenire stesso.

Un progetto tale da portare la stabilità dell’essere nel divenire, quello stesso essere staccato da ogni continuazione della personalità. Da qui nasce l’espediente poetico, dove, tolta la devastante e prepotente filosofia nichilista, non resta che un puro gioco letterario piacevole e spensierato che traspare limpidamente nella lirica.

“E le sillabe, in questo verseggiare,

Saltellavano, oplà, l’una sull’altra,

Così che scoppiai a ridere d’un tratto

E risi per un quarto d’ora.”

(da “Giudizio d’uccello”)

 

In particolare, nel “Canto del capraio”, il testo viene modellato da versi ironici e indolenti, da cui traspaiono tutte le impressioni del soggiorno nell’estremo Meridione.

Copertina de “La Gaia Scienza” e gli “Idilli di Messina” – Fonte: maremagnum.com

 

Gaetano Aspa

 

Articolo pubblicato sull’inserto “Noi Magazine” della “Gazzetta del Sud” in data 17/02/2022

“Freedom-Oltre il confine”: William Shakespeare ha origini messinesi?

Avvolto dalla bellezza gotica-monumentale della Basilica Cattedrale protometropolitana di Santa Maria Assunta –conosciuta da tutti come il Duomo di Messina– e del Castel Gonzaga, situato sulla cima del Colle del Tirone -Monte Piselli-, Roberto Giacobbo, conduttore del programma televisivo Freedom-Oltre il confine , arrivato alla sua terza edizione televisiva, è tornato a Messina per una puntata interamente dedicata al drammaturgo William Shakespeare e alle ipotesi che legano le sue origini alla città dello StrettoLa trasmissione è andata in onda ieri -giorno 17 gennaio- sul canale Italia1.

Roberto Giacobbo freedom-oltre il confine
Roberto Giacobbo, conduttore di Freedom-Oltre il confine – Fonte: tpi.it

L’insondabile mistero che avvolge il Bardo alla città

william shakespeare
William Shakespeare- Fonte:librialfa.altervista.org

Non ci sono pervenute tantissime notizie certe sulla vita del poeta drammaturgo  William Shakespeare e ancora più incerte rimangono le sue origini.

Quello che possiamo confermare con certezza, grazie alle ricerche di tanti studiosi, storici, filosofi e letterati, che William nacque il 23 Aprile del 1564  da una famiglia umile; fu figlio di John Shakespeare, guantaio analfabeta che si sposò giovanissimo e pare che per anni abbia lavorato alla corte della regina d’Inghilterra.

Ma questo non basta a placare la sete di sapere sulle vere origini di Shakespeare. Ad alimentare il mistero attorno alla figura dell’eccellente drammaturgo sono le poche fonti sulla sua persona e sulla sua esistenza.

Questo ha determinato la  nascita di stravaganti teorie sulle sue origini. Tra le più particolari vi è quella che considera William di origini italiane, più precisamente messinesi.

Alla base di questa tesi incantatrice sulle origini messinesi del drammaturgo vi è il Rinascimento Italiano.

In amicizia con il popolo inglese, in quest’articolo vogliamo concentrarci su tre ipotesi che potrebbero ricondurre William alla nostra città.

1a ipotesi: Michelangelo Florio, dalla sua fuga alla fama del figlio John

Florio e Shakespeare: la stessa persona?
Florio e Shakespeare: la stessa persona?- Fonte:italyheritage.com

Nel 1927 uno scrittore proveniente da Scilla, Santi Paladino  scrisse un articolo sul giornale Impero e per la prima volta associò William Shakespeare ad un personaggio italiano, Michelangelo Florio.

Florio fu costretto a  fuggire dalla Santa Inquisizione a partire dal 1550, rifugiandosi  dapprima in Treviso per poi arrivare in Inghilterra.

Proprio durante la sua permanenza in Inghilterra ebbe un figlio, John.

Per alcuni studiosi fu proprio questo l’esordio di quello che poi sarebbe passato alla storia come il più brillante e amato drammaturgo di tutti i tempi.

Si pensa che John Florio, sfruttando l’immensa cultura classica del padre venne accolto dal conte di Southampton insieme ad un giovane attore, Will di Strafford. Fu  proprio il conte di Southampton ad offrire protezione a John Florio, mantenendo l’anonimato, e offrendogli ospitalità e rifugio sicuro presso il suo immenso castello.

Dalle diverse fonti storiche raccolte e dall’analisi delle opere teatrali si arriva alla logica-deduttiva conclusione che il possibile vero autore delle meravigliose opere drammaturghe fosse il messinese John Florio, firmandosi con lo  pseudonimo di William Shakespeare. È, infatti, ormai riconosciuto che molti aforismi all’interno delle opere teatrali di William fossero presi dai sonetti di John Florio. L’elemento più sorprendente, però, è l’estrema somiglianza tra i due personaggi.

2a ipotesi: i riferimenti geografici 

È impossibile concepire le opere di Shakespeare senza una cultura classica ben consolidata.

Romeo e Giulietta: l'ultimo bacio
Romeo e Giulietta: l’ultimo bacio- Fonte: lombardiabeniculturali.it

In più c’è da chiedersi come faceva un ipotetico artista nato e cresciuto nella pianeggiante isola Britannica a conoscere alla perfezione la toponomastica di Messina, così come leggiamo nell’opera “Molto rumore per nulla”, o di Venezia nell’opera “Il mercante”, piuttosto che della città di Verona, che fa da sfondo ai due amanti per eccellenza “Romeo e Giulietta”, o di Padova ne “La bisbetica domata”.

Nelle opere del drammaturgo troviamo ben oltre 800 riferimenti alla penisola italiana, ma l’esempio più sorprendente tra le opere sopracitate è legato alla storia di Romeo e Giulietta, la cui vicenda venne raccontata nel 1524 dallo scrittore Luigi Da Porto con la stessa trama, gli stessi personaggi e lo stesso nome delle famiglie, Montecchi e Capuleti.

William si avvicina sempre più all’Italia.

 

3a ipotesi: Michel Agnolo Florio Crollalanza 

Martino Iuvara
Martino Iuvara Shakespeare era italiano- Fonte: http://www.editorialeagora.it

Nel 2000 Martino Iuvara sosteneva che William fosse siciliano e le sue ricerche partivano da un altro personaggio realmente esistito: Michel Agnolo Florio.

Si ipotizza che lo “Shakespeare italiano” fosse un personaggio realmente esistito, nato a Messina da Giovanni Florio e Guglielma Scrollalancia, di fede calvinista.

Il giovane uomo fuggì dalla Sicilia per arrivare in Inghilterra, a causa di una professione di fede diversa rispetto a quella professata in Italia.

Arrivato in Inghilterra si trovò dinnanzi ad una situazione tragica -quanto fortunata- per il suo futuro: alla morte di un suo lontano parente, attore teatrale di grande fama al tempo, Michel Agnolo Florio pensò bene di sostituirsi a quest’attore, anche se con scarsi risultati, perché fu presto smascherato a causa del suo scarso inglese.

Florio si ritirò e iniziò a scrivere delle opere teatrali dalle quali emergono non pochi elementi somiglianti con le opere che oggi portano la firma di William Shakespeare.

Florio stesso, giovanissimo, compose la commedia Tantu trafficu pi nenti” (Molto rumore per nulla), attribuita a William Shakespeare e della quale troviamo una fonte materiale proprio alle spalle dell’immensa facciata monumentale del Duomo di Messina.

targa-shakespeare
Targa dedicata a Shakespeare- Fonte: letteraemme.it

Ciò su cui vorrei spostare la vostra attenzione è il secondo cognome di Michel Agnolo Florio: Crollalanza. È proprio da questo cognome che si diramano le più sorprendenti teorie, a partire dal nome della madre di Michel Agnolo: Guglielma, femminile di Guglielmo, traduzione italiana del nome inglese William.

Ma la cosa sorprendente è l’assonanza tra i due cognomi: Shake (scrollare) – CrollaSpeare (lancia)- Lanza.

 

Verità testamentarie a confronto

Una piccola curiosità aggiuntiva che avvicina William alla persona di John Florio risiede in un documento scritto: il suo “presunto” testamento.

L’elemento determinante dal quale partiamo è la firma del poeta: alcuni studiosi hanno riscontrato sei firme diverse nella calligrafia, tutte riconducibili a William Shakespeare. Una firma in particolare, però, ha catturato l’attenzione dei ricercatori, quella in cui il giovane drammaturgo lascia le sue ultime volontà.

William Shakespeare morì il 23 Aprile 1616 e il testamento ritrovato presenta alcune difformità che alimentano la nostra curiosità. Nel testamento non si fa alcun riferimento al teatro: alcun cenno traspare in relazione alla sua vita teatrale e alcuna menzione agli innumerevoli manoscritti. Parliamo di un testamento probabilmente scritto da terzi e dal contenuto difforme dalla vita condotta dal vero William Shakespeare: una fine sospetta al pari delle sue sospette origini.

Sappiamo che anche John Florio ha lasciato un testamento dal contenuto curioso; pare infatti che abbia concesso l’utilizzo dei suoi manoscritti al solo Conte di Pembroke in Galles. Tuttavia sembra non esserci alcuna traccia di questo testamento, che avrebbe risolto non pochi dubbi, e di cui la famiglia ha negato fino ad oggi il contenuto in riferimento al teatro e ai manoscritti.

Secondo il regista Stefano Reali, impegnato in una fiction -prodotta in Spagna- che narra i rapporti tra Florio e Shakespeare, il motivo della negata verità testamentaria risiede in meri interessi economici: «Il brand Shakespeare – spiega il regista – per gli inglesi vale alcuni miliardi di sterline ed è impensabile che vi rinuncino. Persino gli scrittori elisabettiani, contemporanei di Shakespeare fanno riferimento alla possibile frode, ma nessuno poteva sospettare che era così facile fare soldi con il teatro. Fu Giordano Bruno a consigliare Florio e Shakespeare di costruire un teatro più capiente e smontabile, il Globe. E quando il successo crebbe a dismisura, dopo la morte dell’autore e dell’attore, i Pembroke, pubblicarono il first-folio, capirono che potevano dare in affitto le opere in loro possesso ai kingsman e nacquero così le royalty, il diritto d’autore».

 

Testamento
Testamento – Fonte:iusinitinere.it

Per concludere…

Come direbbe Agatha Christie: <<Un indizio è solo un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova>>.

Che sia una coincidenza artistica o il perpetuante mistero della storia teatrale dei tempi, che si chiami William Shakespeare o John Florio, avvolti dal fascinoso rebus che lega Messina a Stratford-upon-Avon noi messinesi rimaniamo cullati nel sogno che il noto drammaturgo fosse un nostro concittadino.

 

Elena Zappia

 

Fonti:

https://messina.gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2019/03/25/il-mistero-sullidentita-di-shakespeare-forse-era-uno-studioso-originario-di-messina-ec674a68-646e-480e-b5cf-0ec329e9d4e6/

https://www.letteraemme.it/roberto-giacobbo-torna-a-messina-sulle-orme-di-shakespeare/

https://www.notizienazionali.it/notizie/curiosita/28284/william-shakespeare–un-inglese-di-messina

https://www.lettore.org/2017/12/14/william-shakespeare-e-la-citta-di-messina-un-mistero-lungo-quattrocento-anni/

https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/freedomoltreilconfine/messina-origini-italiane-per-shakespeare_F311032501004C05

Argimusco: un posto magico immerso nella natura

Oggigiorno la natura è sinonimo di tranquillità e riflessione. A quanti di noi capita di voler staccare dallo stress quotidiano, magari con una passeggiata all’aria aperta? Fortunatamente, riscoprire il legame con flora e fauna – nonché il dovuto rispetto da portare ad entrambe – è alla portata di tutti.

Ma possiamo affermate di conoscere le bellezze naturali che ci circondano? 

Argimusco: una mistica esperienza nel bel mezzo della Sicilia

A pochi minuti di strada dal Comune di Montalbano Elicona, tra una provola fresca ed una ricotta infornata, si stende l’altopiano dell’Argimusco. Il viaggiatore che vi si reca troverà un cancello di legno, solido e curato, con un’indicazione che, riassunta, dice: “Benvenuto, questo è l’ingresso dell’Argimusco, sei libero di entrare, ricorda solo di rispettarlo e non di sporcare nulla“. Questa frase non fa altro che ricordare all’uomo che egli è parte della natura, e, come tale, avrebbe il dovere di non distruggerla. Ma queste poche parole sintetizzano anche le sensazioni che il viaggiatore proverà dopo una giornata passata in quel posto magico: accoglienza, bellezza, serenità.

Megalite colossale nella piana dell’Argimusco – © Salvatore Nucera 

Il sito dell’Argimusco è famoso per i megaliti dalle forme animalesche ed antropomorfe, che si stagliano per tutta la sua superficie. Sarà per questo che il nome “Argimusco” potrebbe derivare dalle parole arabe hagar (da leggere asgiar), ossia “roccia”, e mistah, “pianura”. Hagar mistah sarebbe poi stato latinizzato dai bardi medioevali in Argimustus. Non mancano però altre teorie, per cui il curioso nome potrebbe derivare dal greco arghimoschion, ossia “altopiano delle grandi propaggini”, o dal latino agrimuscus, “campo di muschio”.

A prescindere dall’origine del nome, è certo che il luogo fosse frequentato sin dai tempi antichi. Esso è infatti ritenuto d’importanza strategica per vari studi astronomici e per il riconoscimento delle stagioni, da sempre importantissimo per i cicli di coltivazione agricola.

Prospetto megalitico, la donna orante – © Salvatore Nucera

I megaliti ed il paesaggio. L’Etna ed il Bosco di Malabotta.

Tra le varie formazioni rocciose, due delle più suggestive sono quella della donna orante e dell’aquila, forse ricollegata all’omonoma costellazione. Secondo la tradizione, Re Federico III d’Aragona avrebbe incaricato il medico alchimista Arnaldo da Villanova (1240-1313) di realizzare una grande opera di medicina astrale; questo spiegherebbe le curiose forme dei megaliti. Più verosimilmente, l’Argimusco è stato un luogo di passaggio utilizzato dai sovrani di Sicilia, ma anche da altre civiltà del passato, per collegare la sponda Tirrenica con quella ionica.

Prospetto megalitico, l’elefantino – © Salvatore Nucera
Prospetto megalitico, l’aquila – © Salvatore Nucera

È proprio l’ampia vista, di cui si gode dalla cima dell’altura, che permette di scrutare una vasta porzione della Sicilia nord-orientale, ricomprendente tanto l’orizzonte marino con le Isole Eolie, quanto il monte dell’Etna, che d’inverno appare tipicamente innevato. Infine il viaggiatore, dopo aver apprezzato una rapida escursione nel vicino bosco di Malabotta, potrà riposare nella vicina Montalbano, Comune spesosi negli anni per promuovere la bellezza di questi territori.

Montalbano Elicona, Chiesa di San Domenico, Santuario di Maria SS. della provvidenza – © Salvatore Nucera

In questo tripudio di sensazioni, assume una valenza centrale il rapporto tra i vari elementi naturali, favorita dalla personificazione della nuda roccia, quasi a volerci ricordare che siamo un tutt’uno con la Terra. Una giovane amicizia, che dura da circa 2 milioni di anni.

 

Salvatore Nucera

 

Immagine in evidenza: Prospetto megalitico, la vasca sacra – © Salvatore Nucera

Per approfondire:

Orlando A., Argimusco: Cartography, Archaeology and Astronomy, The Light, The Stones and The Sacred, 2017, p.123-155

A Montalbano Elicona: https://amontalbanoelicona.it/le-nostre-tradizioni/argimusco/

 

 

Hill House: la serie TV Netflix sul paranormale

La serie Netflix diretta da Mike Flanagan (regista de “Il gioco di Gerald”) è ispirata da “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson. L’autrice, nella sua opera, proponeva la storia di una casa infestata che catturò l’interesse di fanatici e scienziati, intenti a svelarne i misteri.

Flanagan, decide di sconvolgere la trama del romanzo, riprendendo alcuni personaggi e mantenendo il tema della casa infestata; questa volta ad Hill House arriva la famiglia Crain, composta da Hugh ed Olivia, due imprenditori che vogliono ristrutturare Hill House e rivenderla e dai loro cinque figli Steve, Shirl, Theo, Locke e Nell. La famiglia si traferisce nella casa inconsapevole di ciò che accadrà e del fatto che Hill House non è una casa come le altre.

La serie si muove su due linee temporali, quella terribile estate, dove tutto accadde ed il presente, quando ormai i fratelli hanno preso strade diverse. Le loro vite divenute indipendenti vengono nuovamente sconvolte da un’altra tragedia, la morte di uno dei fratelli che spinge i restanti ad indagare nel passato e a porsi domande che non si erano mai posti prima.

Hill House non è un horror che vuole mettere paura a chi lo guarda, la serie è sottile, fatta di introspezione, suspence, concentrata sul significato della famiglia, sul dolore e sulla consapevolezza che incutono più terrore di qualunque scena di sangue.

https://youtu.be/gTZyG1mpz4k

Sofia Campagna