Il Teatro Vittorio Emanuele: origini e storia

Le origini del progetto architettonico

Il Teatro Vittorio Emanuele, situato tra il Viale Garibaldi e il Corso Cavour, è il primo teatro siciliano in stile ottocentesco. Progettato dal napoletano Pietro Valente e inaugurato nel 1852. In origine fu chiamato Teatro Elisabetta in onore della madre del Re e dopo l’impresa di Garibaldi prese il nome del primo Re d’Italia.

Voluto da Ferdinando di Borbone tra il 1842 e il 1852, il primitivo progetto architettonico consisteva nella comunione di un apparato strutturale esterno e un apparato decorativo interno da far coincidere in perfetta simbiosi in maniera che l’uno diventasse diretta funzione dell’altro.

Nell’opera Lineamenti della storia artistica di Messina, l’autore Francesco Basile scrive:

“La decorazione interna del teatro secondava con felici tocchi, con fine misura ottocentesca, le forme architettoniche
degli ambienti, smorzando ogni crudezza di passaggi con lineari ricami, con sottili e sfumati chiaroscuri. Gli ambulacri i vestiboli i ridotti, avevano una grazia semplice, un calmo splendore.”

Al fine di realizzare il Teatro venne emessa un’ordinanza da Ferdinando II in cui si dichiara la necessità di  spostare i carcerati nel Castello di Roccaguelfonia, una fortezza oggi meglio conosciuta come Tempio del Cristo Re.

Alla presente affermazione ne consegue che il 2 ottobre 1838 il barone Don Nicola Santangelo, reggente il Ministero degli Affari Interni, comunica all’Intendente del Vallo di Messina Don Giuseppe De Liguoro, l’ordinanza di Ferdinando II re delle Due Sicilie. In un passo, si legge:

“[…] desiderando di veder soddisfatto il voto unanime della città di Messina per la pronta costruzione di un teatro, e volendo ad un tempo, che questa nuova opera contribuisca in particolar modo ad accrescere il decoro, ed il lustro di sì bella città, e che soddisfi ancora al bisogno della sua numerosa popolazione […] ha quindi S.M. risoluto, che il Teatro della città di Messina sia costruito nell’edifizio che attualmente è addetto ad uso di prigione centrale di cotesta provincia […]”.

 

Facciata antica del Teatro Vittorio Emanule, Messina. Fonte: teatrovittorioemanuele.it

 

Complessivamente le dimensioni progettate per il teatro erano di circa metri 38 di larghezza e di circa metri 67 di lunghezza con una capienza in platea di 342 poltrone e circa 600 posti nei palchi.

Nel 1857 vengono collocati, sulla facciata del Teatro, i due bassorilievi con scene della vita di Ercole e gli otto medaglioni in marmo con i profili di famosi musicisti e drammaturghi, scolpiti da Saro Zagari. I bassorilievi raffigurano “Ercole che aborrendo dalla voluttà seduttrice, appigliasi alla Virtù ch’è seguita delle Muse” ed “Ercole che per avere scelto la Virtù fatto immortale, è assunto all’olimpo ed ha in sposa Ebe dea della giovinezza”

La sala Laudamo

Nonostante il terremoto del 1908, il teatro rimane in piedi; presenta solo alcune lesioni sui muri perimetrali e il crollo di alcune pareti. Nel 1921 viene inaugurato un progetto di restaurazione con l’idea di ampliare il palcoscenico al fine di ricavarne una sala adibita ai concerti: la sala Laudamo.

La Filarmonica Laudamo è la più antica società di concerti siciliana da cui prende il nome la sala del teatro riservata ai concerti e che ha istituito nel 1948 la scuola di musica “A. Laudamo”, successivamente convertitasi in Liceo Musicale ed oggi definitivamente trasformata in Conservatorio “A. Corelli”.

Negli anni ’40 si è occupata dell’allestimento di stagioni liriche dovute alla mancata attività del teatro Vittorio Emanuele colpito dal sisma del 1908.

 

Il mito di Colapesce

Il soffitto, affrescato nel 1985 dal pittore Renato Guttuso con una rappresentazione del mito di Colapesce è ciò che rende unica l’esperienza visiva in teatro. Si tratta di una leggenda la cui versione più famosa è ambientata a Messina cui protagonista è Nicola, il figlio di un pescatore messinese. Essendo un amante del mare egli è solito raccontare i tesori presenti sul fondale marino. La sua fama giunge all’imperatore Federico II di Svevia che decide di metterlo alla prova. Il re, la sua corte e Nicola, saliti su un’imbarcazione verso il largo dello Stretto di Messina, assistono ad una prova delle abilità di Colapesce voluta dallo stesso Federico II che  gettò in acqua una coppa e chiese al ragazzo di recuperarla.

 

Renato Guttuso: Colapesce, 1985, pannelli dipinti ad olio, Teatro Vittorio Emanuele, Messina. Fonte: pinterest

 

Quando vide ritornare a galla Colapesce con l’oggetto, lanciò la sua corona in un punto ancora più profondo. Anche questa volta però Nicola non ebbe difficoltà a recuperarla. Il re allora fece spostare la barca in un punto ancora più profondo e lanciò il suo anello. Questa volta però Colapesce non tornò più in superficie. La leggenda racconta che Nicola si accorse che la Sicilia era retta su tre colonne. Una di queste però era fratturata e rischiava di rompersi, facendo così sprofondare l’intera isola. Per questo motivo decise di rimanere sott’acqua e reggere da solo il peso della Sicilia.

 

Alessandra Cutrupia

Il coraggio di un uomo che ha trasformato la sua casupola in un Museo: Giovanni Cammarata, il “Puparo”

La casa Cammarata, la casa del cavaliere o semplicemente la casa del puparo è quanto rimane della casa monumentale di Giovanni Cammarata, artista di strada anzi “artista di Maregrosso”, come piaceva presentare se stesso.

Ma partiamo dalle origini.

Biografia

Giovanni Cammarata, conosciuto come “il puparo”, nasce a Messina il 29 giugno del 1914 nel quartiere della Palmara vicino al Cimitero. Sin da giovanissimo si interessa all’arte monumentale che lo porta a frequentare botteghe di grandi artisti occupati nel realizzare sepolcri commemorativi e le cappelle colossali del cimitero di Messina; oggi considerato uno dei più importanti cimiteri monumentali d’Europa ricco di opere d’arte invidiate dal resto del mondo.

Giovanni Cammarata
Giovanni Cammarata. Fonte: outsiderartsicilia.it

Negli anni si forma dapprima come cementiere impegnato a ricostruire la Messina post terremoto del 1908 secondo i criteri urbanistici antisismici moderni, con l’obiettivo di ripristinare la città del passato ricca di opere architettoniche e decorative della tradizione. Grazie a questi anni di formazione Giovanni scopre e affina la sua conoscenza artistica che gli tornerà utile qualche anno dopo.

Soldati italiani al fronte durante la seconda guerra mondiale. Fonte: GoConqr. Ph. Robert Capua
Soldati italiani al fronte durante la seconda guerra mondiale. Fonte: GoConqr. Ph. Robert Capua.

 

Ben presto, negli anni ’30, dovrà salutare i maestri bottegai perché chiamato ad arruolarsi come volontario durante la seconda guerra mondiale. Da questa guerra l’Italia ne esce sconfitta e lo stesso Giovanni, nel 1944,  verrà arrestato dagli inglesi e deportato nel campo di concentramento a Gaza.

Cammarata, costretto a scontare la sua pena detentiva nelle carceri asiatiche, inganna il tempo con ciò che gli riesce meglio fare: dare vita ad una fredda materia prima.

E’ proprio grazie alla costruzione di un castello in argilla che riuscirà a sbalordire le guardie, ammaliare le autorità e così ottenere la scarcerazione.

Il ritorno in patria e all’arte

Finita la guerra Giovanni emigra in Argentina tentando la fortuna, ma presto, nel 1955 , torna a Messina.

Via delle Belle Arti n°20. Fonte: Lettera Emme
Via delle Belle Arti n°20. Fonte: Lettera Emme

Fa la conoscenza di una bella e giovane donzella, Paola, e la sposa. Insieme a Paola e i tre figli vanno a vivere in quella che d’ora in avanti sarà battezzata dallo stesso Giovanni, Via delle Belle Arti n°20.

In poco tempo la dimora di Giovanni e Paola, sita in Via delle Belle Arti, diverrà una vivente galleria d’arte, fatta di storia e passione conosciuta negli anni come la casa del puparo.

Museo Cattolico Giovanni Cammarata

Opere di Giovanni Cammarata. Fonte: Le Scalinate dell'Arte. Credits: Dall'Archivio Sovrintendenza per i BB.CC.AA. di Messina (1999)
Opere di Giovanni Cammarata. Fonte: Le Scalinate dell’Arte. Credits: Dall’Archivio Sovrintendenza per i BB.CC.AA. di Messina (1999)

All’interno della sua casetta, si trovavano sculture colorate e fiabesche, ciottoli e vetri che immortalano sulle facciate di casa mosaici colorati.

Murales di Giovanni Cammarata. Fonte: istituto euro arabo. Ph. Sergio Todesco
Murales di Giovanni Cammarata. Fonte: istituto euro arabo. Ph. Sergio Todesco

L’artista trasformò l’ingresso di casa con figure rappresentanti l’antico Egitto, imprese eroiche della mitologia,  protagonisti omerici e illustrazioni sacre, un vero e proprio “Museo Cattolico Giovanni Cammarata”– così il cavaliere ( in onore delle armi) aveva ribattezzato la sua casa- con l’intenzione di risanare, trasformare quell’aria invasa dai rifiuti e poco illuminata, in una meta per turisti e in un mondo magico per  i più piccoli.

Giovanni combatte per difendere ciò che ama

L'interno della casa del Puparo. Fonte: Le Scalinate dell'Arte. Credits: Dall'Archivio Sovrintendenza per i BB.CC.AA. di Messina (1999)
L’interno della casa del Puparo. Fonte: Le Scalinate dell’Arte. Credits: Dall’Archivio Sovrintendenza per i BB.CC.AA. di Messina (1999)

Il sogno nel cassetto di Giovanni era quello di trasmettere agli altri il suo patrimonio artistico, proprio come fecero con lui i maestri delle antiche botteghe messinesi, e così maturò l’idea di istituire una scuola d’arte per i giovani. Ma il sogno di Giovanni non fu mai realizzato.

Purtroppo, negli anni ’70 si assiste ad un primo intervento regionale di sbaraccamento e il Cavaliere Cammarata riceve un duro colpo. La casa del Puparo occupa il suolo abusivamente e  gli viene ordinato di sgomberare l’area in cui ha abitato per oltre cinquant’anni ma, il coraggioso Cavaliere Giovanni, il Puparo, non cede e si batte; addirittura più volte si frappose tra la ruspa e le sue sculture vive, zampillanti di veemenza, intensità di affetti e di passioni.

Nel 2000 l’antropologo Sergio Todesco invita la Soprintendenza di Messina ad effettuare un’esplorazione fotografica delle opere di Giovanni Cammarata – ancora oggi queste foto fanno il giro del mondo – ma il tentativo del Dott. Todesco non andò a buon fine.

Ricognizione Fotografica, il Puparo e il suo castello. Fonte: Fonte: istituto euro arabo. Ph. Sergio Todesco
Ricognizione Fotografica, il Puparo e il suo castello. Fonte: Fonte: istituto euro arabo. Ph. Sergio Todesco

Qualche anno dopo, ormai alla soglia dei 90 anni, esattamente nel 2002, l‘associazione Mamertini si presenta a Giovanni offrendogli una tutela artistica. Ma il Puparo non arriva in tempo a godersi alcun intervento di salvaguardia,  morirà lo stesso anno e assieme a lui anche il suo museo; la casa verrà distrutta per fare spazio a quello che poi sarà il parcheggio di un esteso supermercato.

Iniziative in onore del Cavalier Puparo Cammarata

L’inatteso finale dall’amaro in bocca, ci descrive una pagina di storia del Puparo che ha combattuto per la sua arte e che lo vide sconfitto come il giorno in cui, al fronte combattente per l’Italia, venne arrestato. Sarà poi presto rivendicata dai numerosi interventi ed iniziative promosse per tenere in vita il suo ricordo.

Nel 2007, grazie alle manifestazioni del Machine Works e al Commissario Straordinario del Comune di Messina Gaspare Sinatra, si avvia un provvedimento di tutela contro i vandali per ciò che rimane nel marciapiede della zona, come testimonianza prepotente di una volontà che voleva a tutti costi proteggere l’arte da chi non la ama.

Nel 2011 un collettivo composto da sociologi urbani, storici d’arte e architetti  incrementa l’opera di tutela, proseguito nel 2012 dal collettivo Zonacammarata con l’associazione Lalleru, dando avvio ad un’opera di ricerca e divulgazione tra i cittadini attraverso convegni, lezioni e libri; a tutto ciò ha contribuito anche la scelta di stabilire nella Galleria d’Arte Moderna di Messina, due dei tre esemplari di giganti elefanti gialli costruiti dal puparo e ritrovati da Pier Paolo Zampieri e Mosè Previti.

Elefantini Gialli. Fonte: Osservatorio Outsider Art
Elefantini Gialli. Fonte: Osservatorio Outsider Art

Nel 2015 prendono avvio i lavori di restaurazione e nel 2016, grazie ai finanziamenti dell’Università di Messina, Zonacammarata e dell’Associazione Lalleru, si inaugura una campagna di Street Art con la realizzazione di quattro murales di artisti nazionali.

Mostra “Io Cammarata Giovanni l’artista di Maregrosso” a cura di Mosè Previti e Pier Paolo Zampieri. Fonte: Mutualpass
Mostra “Io Cammarata Giovanni l’artista di Maregrosso” a cura di Mosè Previti e Pier Paolo Zampieri. Fonte: Mutualpass

 

 

Di recente, nel 2019 il progetto “Dintorni – Luoghi Circostante per l’arte 2019” inaugura a Palermo una mostra “Io Cammarata Giovanni l’artista di Maregrosso” a cura di Mosè Previti e Pier Paolo Zampieri.

 

La tua arte è l’eredità di un mondo incantato

Ancora oggi passando da quella via si rimane catturati dagli ormai resti architettonici della casa del Puparo,  ornata dai murales, dai ciottoli e schegge di vetro colorate, da qualche castello ancora intatto che emula il ricordo di un giovanissimo Giovanni liberato dalle carceri asiatiche proprio grazie ad una scultura come quella.

Il Puparo. Fonte: LetteraEmme
Il Puparo. Fonte: LetteraEmme

Sicuramente il Cavaliere non avrebbe mai pensato un finale così drammatico per le sue creazioni, e chissà se invece sapeva bene che il popolo messinese non lo avrebbe mai dimenticato.

Cavaliere Cammarata,  la tua arte è un’eredità inestimabile senza tempo e attraverso essa, tu vivi ancora.

 

 

Elena Zappia

Fonti:

https://www.mutualpass.it/post/1082/1/a-palermo-la-mostra-io-sono-cammarata-giovanni-l-artista-di-maregrosso

http://www.lescalinatedellarte.com/it/?q=node/1764

 

Il “Castellaccio”: fra storia e misteri

A 150 metri sul livello del mare, a vegliare la città di Messina da un arcano nemico vi è il misterioso Castellaccio, una delle fortezze più antiche della città e luogo pregno di misteri e di storia.

La storia 

Di grande importanza strategica, in quanto punto di controllo e di avvistamento, il forte prende nome dalla sottostante vallata di Gravitelli, in passato zona impervia ed isolata.

Come racconta Giuseppe Buonfiglio Costanzo nella sua “Messina Città Nobilissima” (1606) il Castellaccio ha origini antichissime.

Per secoli fu diffusa la convinzione che fosse stato Orione in persona a edificarlo e non senza fondamento dati i reperti archeologici, risalenti all’età preellenica, ritrovati nel sito.

Il vicerè Giovanni De Vega, nel 1547, lo fece ricostruire in fascine e legname e, nello stesso secolo, l’architetto Antonio Ferramolino, autore anche del Castello del SS. Salvatore e del Forte Gonzaga, lo ridusse in forma quadrata.

Nel 1674, durante la rivolta antispagnola, il forte venne preso d’assalto dai messinesi e utilizzato come osservatorio. Da qui il suono di una cannonata preannunciava ai cittadini dei pericoli imminenti.

Durante i moti del ’48, i messinesi lo riconquistarono e mantennero fino al secolo successivo, quando anche il Castellaccio subì il terremoto che devastò Messina un ventennio dopo.

Il secondo conflitto mondiale lo danneggiò ulteriormente e i successivi interventi finirono per stravolgerne irreversibilmente l’iniziale natura architettonica.

È il caso del 1949, quando il Castellaccio divenne sede di Villa Pia e reinaugurato come “Città del Ragazzo”.

Padre Nino Trovato di fronte la Città del Ragazzo, fondata nel Forte Castellaccio – Fonte: gsud.cdn-immedia.net/2021/10/me_citta_ragazzo.jpg

Qui, “orfanelli”, ragazzi e giovani provenienti da famiglie e dai contesti più disagiati, ospitati dal responsabile del progetto, padre Nino Trovato, trovarono nel Castellaccio una casa e un lavoro.

L’edificio, come scrive l’architetto Nino Principato, fu ampiamente manomesso. Al suo interno, inoltre, venne edificata una palazzina con finestre in falso stile gotico, che mal si accordano con il carattere generale della struttura originaria, di cui, ormai, rimane ben poco.

Il castello degno di un horror

I messinesi non apprezzano particolarmente questo monumento e da decenni, complice il decadimento della struttura, credono che il luogo sia maledetto.

A conferma di ciò, il macabro scenario che fa da benvenuto ai visitatori: un pupazzo di Babbo Natale impiccato all’ingresso, simboli esoterici tracciati su porte e pavimenti e, sulla volta della cappella, un pentacolo.

Babbo Natale “appeso” all’ingresso dell’edificio – Fonte: letteraemme.it/wp-content/uploads/2017/03/castellacci012.jpg

Un inquietante presagio di attività paranormale, confermata dalle numerose segnalazioni di rituali occulti e di sconcertanti apparizioni.

Fra queste, quella del fantasma di una suora, di cui circola anche un video sul web, che ha attirato l’attenzione di un gruppo di ricercatori del paranormale, il MAP.

Ghostbusters in azione al Castellaccio – Fonte: messinatoday.it/attualita/nuove-presenze-castellaccio-indagini-map.html

Dalle loro indagini risulta una fitta documentazione, contenente registrazioni che riportano la voce disperata di una donna, sospiri e lamenti, risate e vagiti infantili.

Il 24 novembre 2020, l’emittente britannica BBC ha mandato in onda una puntata dal titolo One night in a ‘haunted’ Sicilian castle”, ambientata proprio al Forte Castellaccio.

Una serie di immagini, interviste e testimonianze raccontano del viaggio all’interno del castello, atto a decretare la veridicità della storia.

Il Castellaccio in poesia 

Il poeta, giornalista e storico messinese Pasquale Salvatore, le cui opere sono sconosciute ai più, enfatizza il valore culturale del luogo nella sua emblematica poesia “Castiddazzu”:

Cu’ carriò la petra e la quacina,

cu travagghiò pi gghisari sti mura,

facènnumi cchiù forti, d’ura in ura,

dormi, e non s’arrispigghia a la matina:

dormi, di trenta sèculi…

O Missina,

tu intantu addivintavi gran signura!

Ma poi ti vosi ‘nterra la svintura,

mentri, cu’ potti, ti mintìu ‘ncatina.

Lu foristeri ora cchiù non ti vanta;

l’aria libbera tò cchiù non cci coli.

Ed oramai di tia nuddu si scanta…

Ma, addritta e fermu, supra sta muntagna,

iò cci cantu, a cù voli e a cù non voli:

Missina cc’era, e Roma era campagna.

 

Panorama dal Castellaccio negli anni ’60 – Fonte: pinterest.it/pin/782711610222408061/

 

Valeria Vella

Fonti:

visitme.comune.messina.it/it/luoghi/castellaccio-di-messina

balarm.it/news/tra-sospiri-notturni-e-risate-di-bambini-a-messina-c-e-un-castello-degno-di-un-thriller-118998

letteraemme.it/lemittente-inglese-bbc-a-messina-in-cerca-di-fantasmi-al-forte-castellaccio/

curiosauro.it/2022/03/12/i-fantasmi-di-forte-castellaccio-a-messina/

Immagine in evidenza:

Il “Castellaccio” – Fonte: profilo facebook “Messina Attività Paranormali”

Sant’Eustochia Calafato

Il centro storico di Messina lodava tesori di varie epoche, molti dei quali erano istituti religiosi spazzati via dal terremoto del 1908 che ha ridotto drasticamente il patrimonio storico e architettonico che era possibile contemplare. Il sisma risparmiò però gran parte della chiesa dove è conservato il corpo incorrotto di Santa Eustochia, una venerata santa messinese, il cui culto viene celebrato annualmente nel Monastero di Montevergine .

 

NASCITA ED EDUCAZIONE

Suor Eustochia, nata col nome di Smeralda Calafato, nacque in una famiglia agiata. Figlia di Bernardo, un ricco mercante messinese, e di Mascalda Romano Colonna, venne al mondo il giovedì santo del 1434 nel villaggio Annunziata, a Messina. La madre, indotta da Matteo di Agrigento, si era affiliata al Terz’Ordine di S. Francesco e trascorreva una perfetta vita cristiana; così Smeralda fu indirizzata verso la pratica religiosa, alla quale lei si sentiva molto attratta. Ma di quest’opinione non era il padre che, all’età di undici anni, la fece fidanzare con un mercante molto più grande di lei; questo morì il giorno precedente della cerimonia nuziale. Il padre, irremovibile, dopo due anni la promise in sposa ad un altro giovane che trapassò ancor prima di conoscerla.

S. EUSTOCHIA SMERALDA CALAFATO COMPATRONA DI MESSINA  Fonte:www.odigitria.org

LA CONVERSIONE

All’età di quindici anni, la giovane Smeralda decise, contro la volontà del padre, di prendere i voti. Entrò in monastero di Basicò e vi rimase per dieci anni con il nome di Suor Eustochia. Una sua preghiera al Crocifisso dimostrava da quale desiderio di soffrire fosse animata: “O dolcissimo mio Signore, vorría morire per lo tuo santo amore, cosí come Tu moristi per me! Forami il cuore con la lancia e con i chiodi de la tua amarissima Passione; le piaghe che tu avesti nel tuo santo corpo, che io le abbia nel cuore. Ti domando piaghe, perché mi è grande vergogna e mancamento vedere Te, Signore mio, piagato, che io non sia piagata con Te”.

 

LA VITA MONASTICA

Decise allora di intraprendere il suo percorso in totale povertà e scelse un sottoscala come cella; viveva in penitenza, dormiva sul pavimento e portava il cilicio. Suor Eustochia era molto risoluta e supponeva che nel convento non si seguisse alla lettera il principio delle Clarisse. Questo la portò ad avere molte divergenze con le consorelle e la badessa; Eustochia decise quindi di progettare una riforma, accolta con un decreto da Papa Callisto III. Grazie agli aiuti economici della madre riuscì a trasferirsi nel nuovo convento di S. Maria Accomandata; insieme a lei si trasferirono la madre, la sorella Mita, la nipote Paola, suor Lisa Rizzo e suor Jacopa Pollicino. Anche in questo convento Suor Eustochia ebbe da ridire nei confronti della badessa e di tutto il clero, e solo Pio II riuscì ad obbligare i frati minori osservanti a seguire la vita spirituale delle suore del monastero.

Montastero di Monevergine  Fonte : www.metemitimeteoriti.myblog.it

 

UN NUOVO MONASTERO

Il numero delle suore si ampliava velocemente e i locali del monastero diventarono inadeguati; grazie così alla generosità di Bartolomeo Ansalone, nel 1463, le Clarisse Riformate si poterono stabilire a Montevergine, in un nuovo monastero tuttora esistente. La beata, per esortare le consorelle alla virtù e all’amore del Crocifisso, scrisse un libro sulla Passione che andò perduto e fu recuperato grazie ad appunti nella sua agenda. Il 20 gennaio 1485 suor Eustochia morì lasciando la sua ultima raccomandazione: “Prendete, figlie mie, il Crocifisso per Padre, ed Egli vi ammaestrerà in ogni cosa” Durante la vita, ed ancor più dopo la morte, si attribuirono alla suora vari miracoli. Il due luglio 1777 il senato della città promise di recarsi ogni anno a Montevergine. Il 20 gennaio e il 22 agosto, nel 1782, infine, la Calafato fu beatificata da Pio VI.

Il corpo della beata oggi Fonte: www.messinareligiosa.it

 

SANT’EUSTOCHIA NELLA CULTURA DI MASSA

L’arcivescovo di Messina, nel 1690, scriveva alla S. Congregazione dei Riti: “Il suo corpo, da me diligentemente veduto e osservato, è integro, intatto e incorrotto ed è tale che si può mettere in piedi, poggiando sulle piante di essi. Il naso è bellissimo, la bocca socchiusa, i denti bianchi e forti, gli occhi non sembra affatto che siano corrotti, perché sono alquanto prominenti e duri, anzi nell’occhio sinistro si vede quasi la pupilla trasparente. Inalterate le unghie delle mani e dei piedi. Il capo conserva dei capelli e, quello che reca maggiore meraviglia, si è che due dita della mano destra sono distese in atto di benedire, mentre le altre sono contratte verso la palma della mano -accenno ad una benedizione che la beata avrebbe dato con quella mano, dopo la sua morte, ad una suora-. Le braccia si piegano sia sollevandole che abbassandole. Tutto il corpo è ricoperto dalla pelle, ma la carne sotto di essa, si rileva al tatto disseccata”.

Ancora oggi si può vedere intatto il corpo della beata ed in piedi nell’abside della Chiesa di Montevergine, esposto alla venerazione del popolo, che in folla vi accorre il 20 gennaio. L’iconografia rappresenta la beata in ginocchio dinanzi al Sacramento e, più frequentemente, con la Croce nelle mani. Il culto per Santa Eustochia è celebrato annualmente nel Monastero di Montevergine il 22 agosto, durante il quale le autorità messinesi offrono 38 libbre di cera lavorata. Infine, secondo alcuni storici dell’arte, lo stesso Antonello da Messina scelse presumibilmente il volto della beata per dipingere la sua “Annunziata”.

Marika Costantino

 

Fonti:

http://wikipedia.org

https://www.facebook.com/SANTA-EUSTOCHIA-SMERALDA-CALAFATO-Clarissa-Messinese-1434-1485-118729339211/

Santa Maria Alemanna… o Iside Germanica?

La Chiesa di Santa Maria degli Alemanni – che tutta la popolazione messinese chiama in realtà Santa Maria Alemanna – è uno splendido esempio di architettura gotica, come pure il suo epiteto sembra volere intendere. Infatti, appartenne all’Ordine Teutonico dal 1220 d.C., prima di subire vicissitudini varie che l’hanno traghettata nel presente.

Un edificio che appare evidentemente gotico parrebbe semplicemente essere stato costruito nel periodo in cui questo tipo d’arte andava in voga; attualmente difatti l’opinione comune dà il sito per “medievale”, e in effetti non ci pervengono prove fisiche di utilizzi più antichi, di antecedenti strutture. Eppure, in un tempo non troppo lontano (fino a un secolo e mezzo fa) era piuttosto diffusa (meno frequente oggi) l’opinione ch’esso – e proprio con alcuni dei particolari che tutt’ora presenta – fosse in origine un tempio dedicato a un culto egizio.

Un chiarimento: per tempio egizio non s’intende un tempio costruito da mano egizia, ma un tempio dedicato a un culto egizio, cosa non infrequente nel periodo ellenistico e romano anche in Sicilia (specialmente Iside era amatissima nella costa ionica). L’ipotesi che una precedente versione del tempio ospitasse tali funzioni risulta perciò tutt’altro che inverosimile.

La teoria nei documenti

Di questa teoria abbiamo dettagliate esposizioni da parti di due grandissimi eruditi messinesi grazie ai quali noi conosciamo in maniera pressoché minuziosa la storia di Messina: l’ecclesiastico Placido Samperi e lo storico Caio Domenico Gallo.

Nell’Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria protettrice di Messina (1644 d.C.) affermò Samperi: “[…] à mio giudicio, è fra gli antichi antichissimo, fin da’ primi secoli de’ Gentili, come si può dagli eruditi agevolmente argomentare dalle orme gentilesche, che sin al presente si scorgono, & in particolare nella porta […], la quale dal lavoro, e dalla scultura dimostra chiaramente la sua antichità. Veggonsi intorno all’arco di essa due ordini di scolpite statuette quasi di tutto rilievo, maltrattate dal tempo, e rotte in diverse guise; nella metà della parte destra dell’ordine superiore, sono alcuni stromenti di suono di quei secoli, e nella metà della parte sinistra dell’istesso ordine le Imagini d’alcuni favolosi numi famosi appresso i Poeti, come di Giove, che uccide Saturno, e simili. Mà nell’ordine inferiore diverse sorti di animali, di Centauri, di Chimere, di Grifi, & altri geroglifici degli antichi Egittij, dal che chiaramente si coniettura, che non da’ Christiani, mà da’ Gentili fosse stato ad alcuno de’ falsi Dei dedicato questo Tempio; e si aggionge di più, che poco meno della metà di questa porta è sepolta nella terra, e nelle rovine, scendendosi per mezzo d’alcuni gradini dentro al Tempio.”.

Negli Annali della Città di Messina Capitale del Regno di Sicilia (1756 d.C.) Gallo riprese e convalidò il predecessore: “Altro Tempio, che ancor si stima essere stato dedicato alle antiche Deità dei Gentili […], il quale per vedersi quasi sotterra la sua Porta Maggiore, che viene adornata da molti Geroglifici Egizj e da figure di diverse antiche Deità favolose, credesi essere stato anche uno di essi.”; e ancòra: “In essa non vi è cosa di singolare se non se le reliquie di una grande antichità, ed i Geroglifici, che ancor si veggono scolpiti sul fregio delle Porte descritte, e rapportate dal Padre Samperi, quali ci dimostrano, che possa essere stato Tempio dei Gentili.”.

Naturalmente non condividiamo alcune affermazioni sgradevoli dei nostri autori verso le antiche religioni (“falsi Dei”, “Deità favolose”), ma comprendiamo che dovettero scriverle per evitare fin troppo facili accuse d’apostasia per non aver criticate le verità alternative al Cristo.

Un tempio più antico…

Sia Gallo che Samperi definiscono Santa Maria Alemanna un “tempio dei Gentili”, cioè grecoromani, non-cristiani. Teniamo presente che questi stessi studiosi e molti altri attribuivano precise dedicazioni d’epoca romana a chiese molto antiche, mentre altre vengono date per costruzioni cristiane, e a questa invece non si azzardarono a dare una dedica nemmeno ipotetica, dunque è abbastanza probabile che le loro affermazioni fossero sincere, non motivate dall’intento di nobilitare detti templi cristiani.

Ora, bisogna comprendere che all’epoca non era facile reperire le informazioni, e oltretutto non si sapeva come leggere i geroglifici, perciò tutte queste affermazioni vanno attentamente vagliate per non cadere nella stessa trappola dei padri. Ecco, ora voi starete già immaginando deità teriomorfe, e giunchi, e serpenti, e tutto ciò che si potrebbe trovare nelle pareti dei templi in Egitto; ma nulla di tutto ciò vedrete, giacché (fortunatamente!) le sculture delle quali parlavano Samperi e Gallo si sono conservate. Il portale di cui si parla è quello che potete vedere in fotografia qui, e di persona se vi recate in posto.

Quelli che vediamo scolpiti sugli stipiti di quell’ingresso sono motivi floreali e animali di chiaro stile gotico, non egizio; per quanto riguarda le figure antropomorfe scolpite sull’arco, vediamo quelli che sembrano essere angeli d’iconografia evidentemente cristiana nell’ordine inferiore, e in quello superiore personaggi sbiaditi ma riconducibili allo stesso periodo; la metà dell’ordine superiore che raffigurava il presunto “combattimento tra Giove e Saturno” invece è andata perduta e non ci è possibile riesaminarla. In buona fede, i nostri dotti sapienti devono essersi confusi, scambiando elementi decorativi d’un passato recente di pochi secoli per quelli di ben duemila anni prima, ma non c’è da stupirsene del tutto: la Stele di Rosetta che diede inizio allo studio della scrittura egizia fu rinvenuta sessant’anni dopo che scrisse Gallo (!), e già dal IV secolo a.C. gli stessi Egizî non sapevano quasi più leggere i geroglifici e d’allora si credette che fossero semplicemente disegni con significato esoterico, oltretutto fino a quel momento l’arte egizia era nota soltanto tramite descrizioni per chi non aveva a disposizione quei rari reperti autentici.

Un’osservazione dei due autori però va presa seriamente in considerazione: entrambi evidenziano nella loro argomentazione che la chiesa risultava sottomessa al piano stradale già quando la vedevano loro (dettaglio che non riportano invece sull’analoga Chiesa dei Catalani, pur essa Tempio di Poseidone), cosa che effettivamente fa pensare che l’Alemanna potesse essere stata ricavata da una costruzione precedente, come tante altre a Messina, ma sfortunatamente non abbiamo ora prove per decifrarne l’identità.

Un Pantheon per tutti i culti

Pare proprio che travisare il significato di un’immagine e reinterpretarla come qualcosa di completamente diverso sia abbastanza semplice, in determinate condizioni, ossia l’assenza del corretto cifrario interpretativo: se non si ricorda più che cosa rappresenta qualcosa ed è caduto il ponte tra noi e il suo significato originario, essa diviene come una cosa nuova. Un antico tempio diviene un chiesa cristiana, che poi viene creduta un tempio egizio. Con ciò si può giungere a una riflessione.

Santa Maria Alemanna è una delle poche chiese sconsacrate di Messina ancòra in piedi (un altro esempio è la Badiazza); attualmente la si usa per conferenze e cerimonie, mai per il culto. Decisamente uno spreco, viste quante sono a Messina le religioni prive d’un proprio luogo di culto, che spesso devono organizzare incontri privati in luogo di autentiche celebrazioni!

Non se ne parla mai, quasi fosse tabù, ma a Messina e nel suo territorio sono molte e anche ben seguite le religioni differenti da quella cristiana (Buddismo, Islam, Mormonismo…). Esse non hanno veri luoghi di culto, e le persone che le praticano dunque riescono a riunirsi soltanto nel privato; una situazione che enfatizza l’esclusione di determinate realtà religiose dalla vita comune e ostacola gravemente la seria e serena ricerca spirituale di chi non si trovi nel Cristianesimo, che a quel punto per raggiungere una diversa spiritualità deve intrufolarsi in un contesto più “chiuso” con tutte le difficoltà del caso.

Sarebbe più che mai opportuno, in una terra come la nostra che da sempre si fonda sulla libertà religiosa, offrire alle nostre religioni (perché sono nostre!) dei luoghi in cui poter celebrare ed essere praticate da chi lo voglia senza impedimenti di natura pratica, anche e soprattutto ricavandoli da vecchie chiese. Infatti, a Messina non è mai stato infrequente che i templi cambiassero religione, molti secoli fa, e questo potrebbe essere fatto anche oggi, senza tuttavia applicare dannose modifiche.

Fintantoché non vengano identificati plurimi spazî di culto per le diverse religioni, sarebbe interessante discutere d’un sistema grazie al quale le varie fedi possano celebrare e riunirsi in giorni diversi nella stessa Santa Maria Alemanna, facendone, a tutti gli effetti, un pantheon dei tempi moderni, che avrebbe il primo esempio al mondo in Messina.

 

Daniele Ferrara

Fonti:

Caio Domenico Gallo, Annali della Città di Messina Capitale del Regno di Sicilia, Francesco Gaipa Regio Impressore 1756

Placido Samperi, Iconologia della Gloriosa Vergine Madre di Dio Maria protettrice di Messina, Giacomo Matthei Stampatore Camerale 1644

Immagine in evidenza:

La Chiesa di Santa Maria degli Alemanni – Fonte: siciliafan.it

 

Il MACHO: l’arte nell’arte di Capo Peloro

Da sempre la Sicilia è stata terreno fertile per la nascita e lo sviluppo dell’arte. Il suo ruolo di mediazione tra Oriente e Occidente le ha permesso di raccogliere sul suo suolo numerose opere d’arte provenienti da ogni parte del mondo.

La Sicilia, però, non si limita all’arte greca o bizantina; l’Isola ama l’arte di qualsiasi periodo e in tutte le sue forme.

Il MACHO e il complesso monumentale

Il MACHO (Museo d’Arte Contemporanea Horcynus Orca) nasce da un progetto di ricerca sulle arti visive dei contesti culturali e geo-politici mediterranei, iniziato contemporaneamente alla nascita della Fondazione Horcynus Orca. Le opere e istallazioni presenti hanno lo scopo di completare la scacchiera artistica del territorio siciliano, inserendo artisti contemporanei da ogni parte del mondo. Questo percorso verso l’arte contemporanea è stato reso possibile grazie a numerosi donatori, tra cui molti artisti stessi entusiasmati dal progetto.

Il museo sorge all’interno di un complesso monumentale ai margini della Riserva naturale di Capo Peloro. Grazie agli scavi archeologici è emerso un manufatto architettonico di epoca romana imperiale, di cui è stato rinvenuto il basamento; sembra si tratti del faro più imponente del mediterraneo. Nei secoli i vari popoli succedutisi nell’area in questione hanno utilizzato la struttura; in particolare si ricorda la presenza degli inglesi nel XIX secolo: da allora la Torre è infatti chiamata “Torre degli Inglesi”.

Le “sale” del MACHO

Il MACHO propone un percorso di visita permanente attraverso le sue otto “sale”, per un totale di circa cento opere e un archivio video di circa cinquecento titoli.

La prima sala è dedicata agli artisti dell’astrattismo italiano, mentre la seconda raccoglie le opere realiste del mondo arabo dal 2000 in poi.

Il percorso continua in un ambiente interamente dedicato al progetto Signes de Rencontrè, una tela a quattro mani che mette a confronto l’astrattismo e la calligrafia araba pura.

La quarta sala racconta il tempo e la memoria attraverso dieci opere in acciaio ossidato, donate dall’artista Ramon de Soto.

La quinta stanza è un puro intreccio tra la storia dell’artista israeliano Geva, la sua passione per l’ambiente e le risorse offerte dalla città di Messina; l’opera “The Bird inside stands outside” è stata realizzata interamente con materiali trovati nella nostra città e poi donata alla Fondazione Horcynus Orca.

La fondazione ha dedicato la sesta e la settima sala all’artista contemporaneo siciliano Emilio Isgrò, che ha donato un’istallazione molto suggestiva, in cui le api siciliane mostrano la sapienza delle grandi culture mediterranee; è presente anche la sua opera “I Pianoforti”, realizzata in occasione del centenario del terremoto di Messina.

L’ultima sala è la sala del viaggio, esperienza a cui la fondazione è profondamente legata: tre donne raccontano diverse concezione di viaggio, tra attraversamenti abusivi, viaggi nel tempo che percorrono le donne durante la loro vita e tragedie di migranti.

La “sala immersiva”

La fondazione ha elaborato un progetto per la realizzazione di una stanza in cui emergono grande suggestione ed attrattività. Stiamo parlando della cosiddetta “sala immersiva”, composta da impianti di emissione interattivi e multicanale a supporto di pareti ricoperte da videoproiezioni, raggiungibili al pubblico – grazie alla tecnologia 3D – tramite sensibilità al tocco.

Il prototipo “Salamare” contiene quattro scenari immersivi dedicati proprio al mare dello Stretto di Messina, proiezioni che permettono a grandi e piccoli di “immergersi” completamente nelle nostre acque. Tali tecnologie infatti non si limitano a  far conoscere un nuovo tipo di linguaggio dell’arte, ma creano anche dei percorsi sensoriali o educativi per bambini.

Il tema del viaggio

Entrare in questo museo ci permette di comprendere a pieno lo scopo della Fondazione Horcynus Orca, che, a partire dal nome ispirato all’omonimo romanzo di Stefano d’Arrigo, ci introduce nel mondo del viaggio: vero, metaforico o sensoriale che sia.

 

Sofia Ruello

 

Fonti:

horcynusorca.it/il-parco/macho/

luoghidelcontemporaneo.beniculturali.it/macho—museo-d-arte-contemporanea-horcynus-orca

Le immagini contenute nel testo e l’immagine in evidenza sono acquisite dai suddetti siti.

 

 

 

 

Santi Pietro e Paolo: un monastero basiliano nell’antica valle fluviale d’Agrò

A poco più di 40 km da Messina, nella natura boschiva dei Monti Peloritani, sulla costa Jonica, sorge nella sua solitudine non ancora intaccata, una chiesa di impianto bizantino e arabo-normanno. Quasi senza dare alcun preavviso di sé appare in mezzo al verde, nei pressi di Casalvecchio Siculo, dopo avere percorso un itinerario che si inerpica su strade di campagna. La valle, abbracciata tutto intorno dal torrente Agrò, uno dei corsi d’acqua maggiori della costa, che deve il nome alla parola αγρός, terra coltivata, grazie alla presenza dei campi è stata frequentata dall’uomo fin dai tempi antichi. Ne sono una testimonianza i ritrovamenti risalenti al neolitico, ma nei secoli molti altri popoli tra cui fenici, greci, bizantini e arabi hanno coltivato e abitato le terre fertili attorno alle sue acque, disseminando nel territorio una serie di centri urbani. Dall’antica Phoinix, emporio dei fenici, al cui posto oggi sorgono i comuni di Savoca e Santa Teresa, furono prelevate anche sei colonne di granito utilizzate per riedificare la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo.

Esito della convergenza nel tempo diversi stili architettonici, il complesso si presenta oggi in discreto stato di conservazione. Dal profilo esterno, osservando la merlatura del tetto, è chiaro che ebbe un tempo il ruolo di fortezza: la sua particolare posizione permetteva ai monaci, fin dall’epoca normanna, di tenere d’occhio la valle che collegava il mar Tirreno allo Ionio. In base all’Atto di Donazione, scritto in greco nel 1116, che fu tradotto in latino da Agostino Lascaris, il conte Ruggero II D’Altavilla, durante un viaggio da Palermo a Messina, incontrò il monaco Gerasimo dell’ordine dei basiliani. Il frate chiese al sovrano normanno il consenso per edificare la chiesa e coltivare i campi nel territorio, ottenendo la facoltà anche di controllare un intero villaggio, dove oggi sorge il borgo di Forza D’Agrò. In seguito a un violento terremoto che colpì la Sicilia orientale nel 1169 la chiesa venne ristrutturata dall’architetto Gherardo il Franco, come si osserva dall’iscrizione in greco che appare nell’architrave del portale dell’edificio.

Le origini della costruzione risalgono però a epoche più remote. Il nucleo della chiesa è bizantino e può essere datato al 560 d.C. Il motivo a spina di pesce e l’alternanza del bianco e del nero delle pietre laviche dell’Etna nelle decorazioni esterne  sono alcuni degli elementi che si possono riconoscere di questo stile, evidente anche nella croce di tipo bizantino incisa nella porta di ingresso. All’elemento arabo, risalente alla fase di conquista islamica, è da ricondurre la forma caratteristica delle cupole e il disegno ad alveoli che sorregge quella che delle due copre il presbiterio. L’abside, rivolto verso est, assume all’esterno la forma di un torrione rettangolare, mentre ai lati dell’ingresso principale compaiono due torri, caratteristica, questa, delle grandi cattedrali normanne, come quelle di Cefalù e Monreale. All’interno invece la pianta si presenta a tre navate, con volta a crociera nelle navatelle e piana nella copertura centrale. Priva di elementi pittorici conservati, appare spoglia e raffinatamente decorata nella struttura in pietra. Pochi ruderi restano invece di quella che fu un tempo la biblioteca che costituiva parte dell’edifico annesso all’abbazia.

L’insieme di più stili, elemento che richiama la storia dei popoli che hanno colonizzato la Sicilia e la sua ambientazione silenziosa, oltre all’atmosfera sacrale che l’avvolge, fanno della Chiesa di San Pietro e Paolo D’Agrò un gioiello dell’architettura siciliana. Dopo che anche una richiesta ufficiale è stata avanzata per l’inserimento tra i siti UNESCO c’è da sperare che si prosegua nell’operazione di valorizzazione e promozione turistica dell’abbazia e del suo comprensorio. Attualmente la chiesa è accessibile al pubblico ed è possibile visitarla negli orari di apertura.

@FOTO DI Salvatore Cambria

Eulalia Cambria

Fiumara d’Arte, un percorso di bellezza e ostacoli tra storia e modernità

Labirinto di Arianna http://labirinti.altervista.org/italo-lanfredini-labirinto-arianna/?fbclid=IwAR2JCjxboAyoWKjWogVxJHaF1dChtUjt5-VXMpE5noZiGSAegs0wJwSpuwI

Nella parte settentrionale della Sicilia, a ridosso delle coste Tirreniche, si estende l’antica Valle dell’Halaesa, situata in quello che oggi è il Comune della città medievale di Tusa, in provincia di Messina. A fare gli “onori di casa” è Castel di Tusa, frazione marina della cittadina medievale che apre letteralmente le porte alla Valle, circondata dalle colline e attraversata dalla Fiumara di Tusa, in un paesaggio pieno di suggestioni artistiche, passate e presenti. Proprio in questo scenario, sospeso tra storia e modernità, natura e scultura, il torrente di Tusa – un tempo fiume che arrivava fino all’antica città di Halaesa – è diventato oggetto di un progetto artistico battezzato “Fiumara d’Arte”, iniziato nel 1982, ad opera di Antonio Presti, mecenate siciliano che decise di dedicare se stesso e il proprio patrimonio personale all’arte, celebrandola attraverso la creazione di una serie di imponenti sculture, commissionate di volta in volta a stuoli di artisti internazionali e dando vita a quello che, ad oggi, è il più grande museo all’aperto d’arte contemporanea d’Europa. Il progetto artistico nasce con l’intento del suo fautore di fare un regalo alla Sicilia, celebrando la bellezza attraverso la rappresentazione dell’impegno civile ed estetico dell’uomo, con la scelta, non casuale, di far nascere il progetto in terreno demaniale, proprio a far emergere lo spirito di condivisione di cui l’arte dovrebbe essere pervasa. Egli stesso spiega: ” Perché io non ho mai voluto possedere l’opera ma soltanto l’idea, in una società in cui tutto è al servizio del denaro ed è subordinato al possesso dei beni“, sottolineando la forte connotazione sociale ed etica di cui è pregna Fiumara d’Arte, pensata allo scopo di creare una coscienza legata alla cultura, attraverso un rapporto differente con la bellezza.

La materia poteva non esserci https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2015/05/Pietro-Consagra-La-materia-poteva-non-esserci.jpg

Il progetto si costituisce di una serie di sculture disseminate lungo il greto del fiume, che sfocia nel mare di Castel di Tusa, in un percorso esplorativo volto a creare una sorta di circuito d’arte, che attraversa le diverse città e i diversi comuni presenti nel territorio della Valle, da Castel di Tusa a Santo Stefano di Camastra.La storia dell’ Associazione Culturale Fiumara d’Arte inizia nel 1982, quando, a seguito della morte del padre, Presti commissiona a Pietro Consagra la creazione di una gigantesca scultura in cemento armato, alta 18 metri. L’opera, che dà il via al percorso d’arte, fu creata nel 1986 e intitolata ” La Materia Poteva non Esserci“. Nello stesso anno venne annunciata la creazione del museo a cielo aperto, su approvazione di tutti i sindaci dei comuni del comprensorio messinese. Di lì a poco il progetto Fiumara d’Arte si amplia, annoverando sempre nuove sculture al suo percorso.

Una curva gettata alle spalle del tempo https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2015/05/Paolo-Schiavocampo-Una-curva-gettata-alle-spalle-del-tempo-1988-Fiumara-dArte.jpg

Lo stesso anno Presti contatta subito un altro scultore, Paolo Schiavocampo, al quale commissiona una scultura da porre al bivio tra la strada che porta a Castel di Lucio e una vecchia strada di campagna. L’opera, inaugurata il 30 gennaio 1988, dal nome suggestivo “Una curva gettata alle spalle del tempo” consiste in un monolite di cemento armato e ferro, collocato ai margini di una curva, che si avvolge su se stessa imitando il movimento di una vela battuta dal vento, situata tra la via antica e quella nuova, simboleggia un punto di unione tra passato e futuro. IL 24 giugno 1989 è la volta dell’opera di Tano Festa, inaugurata un anno dopo la morte dell’artista. L’opera “Monumento per un poeta morto“, dedicata al fratello di Festa, venne ribattezzata dai visitatori “Finestra sul mare” proprio per il suo impatto visivo. Situata sul lungo mare di Margi, una cornice alta 18 metri in cemento armato e ferro, che ricorda, appunto, una grande finestra che incornicia il mare. Colorata di un azzurro interrotto soltanto dalle nuvolette bianche, ricorrenti nei temi dell’artista, e un monolite nero che l’attraversa a ricordare la finitezza dell’essere umano.

Finestra sul mare https://www.flickr.com/photos/marcocrupivisualartist/31080793585?fbclid=IwAR0sHJwm_aA9ZptrIUO_ymaKYnsfy3qweMEA91ar8oc48h208m7KCKeQvso

Consecutivamente vengono inaugurate le opere: “Stanza di barca d’oro” dell’artista giapponese Hidetoshi Nagasawa sul torrente Romei; un vano ipogeo, introdotto da un corridoio sotterraneo di 35 metri rivestito di lastre metalliche, nel quale si evidenzia la sagoma di una barca capovolta rivestita di foglie d’oro, raccordata al suolo dal suo albero maestro in marmo rosa. “Energia mediterranea” di Antonio Di Palma, un manto azzurro che sale e poi scende dolcemente, che idealmente lega la montagna al mare, una grande onda di cemento blu, posizionata sulle montagne di Motta d’Affermo, e “Labirinto di Arianna” di Italo Lanfredini. Il labirinto, è un percorso fisico, ma anche interiore: attraverso un varco naturale si entra nel labirinto e si esce dal labirinto, a simboleggiare il percorso dell’uomo che, nel tempo, entra ed esce dalla scena. Lo scopo dell’opera è quello di far intraprendere al visitatore un percorso spirituale oltre che fisico, spingendolo a porsi delle domande esistenziali in un posto ed in una dimensione a-temporale, in cui è impossibile interrogarsi. Il percorso continua con “Arethusa“realizzata da Piero Dorazio e Graziano Marini, costituita da una coloratissima decorazione in ceramica della caserma dei carabinieri di Castel di Lucio. Una spiacevole vicenda giudiziaria però, intralcia il progetto artistico, costringendolo ad un’importante battuta d’arresto, proprio il giorno in cui viene battezzato. Le numerose opere di Fiumara d’Arte vengono poste sotto sequestro, con l’accusa di abusivismo edilizio, e vengono avviati una serie di procedimenti giudiziari che danno il via all’intricata storia processuale che ne blocca il completamento e che durerà ben 25 anni. Nel frattempo Presti inaugura, nel 1991, L’atelier sul mare, un albergo-museo d’arte contemporanea a Castel di Tusa, destinato a diventare il punto di partenza del percorso Fiumara d’Arte. Le camere dell’Art Hotel sono delle vere e proprie opere d’arte, realizzate da artisti internazionali, proseguendo l’utopia artistica pensata da Presti.

Stanza-opera d’arte http://www.isolaeisole.com/wp-content/uploads/2016/07/unser-art-zimmer.jpg

La fiumara venne difesa da una serie di movimenti da parte di moltissimi artisti e intellettuali. Nel 1991, il mecenate organizza una manifestazione “un chilometro di tela“, che si svolgera nel paese di Pettineo, e convoglierà duecento artisti che dipingeranno la tela, per poi tagliarla in pezzi e darli in dono agli abitanti, le cui case diventeranno “museo domestico”. Nel ’93 Presti invita quaranta artisti ceramisti provenienti da tutta Europa a realizzare un’opera collettiva sul muro di contenimento di una delle strade della Fiumara, che diventa così “Il muro della vita“. Una nuova ondata di mobilitazione generale parte da Roma, un gruppo di artisti e intellettuali sollecita l’intervento del ministro dei Beni Culturali Alberto Ronchey, mentre una petizione firmata da 60 nomi della cultura italiana esorta il governo regionale ad agire per evitare la demolizione. Il 23 febbraio del 1994 la Corte di Cassazione chiude la vicenda annullando l’ordine di demolizione, i provvedimenti della Corte d’Appello e le richieste della Procura di Messina. All’albergo-museo si festeggia con l’apertura di otto nuove stanze d’artista. Quando la situazione si ribalta ed è Presti a denunciare tutti i sindaci e la Regione Siciliana per incolumità civile, interviene all’appello il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e finalmente, il 6 gennaio del 2006, dopo 25 anni di battaglie, viene riconosciuto il Parco di Fiumara d’arte, aiutato dal Governo regionale che ha approvato l’istituzione del percorso turistico culturale di Fiumara d’Arte.

38° parallelo – piramide http://politano-national-geographic.blogautore.espresso.repubblica.it/files/2011/04/piramide480.jpg

Nel maggio del 2007 si assiste alla riapertura dell’opera “La finestra sul mare“, che due anni prima Presti aveva coperto con un tendone scrivendoci sopra “chiuso” in tutte le lingue, per opporre un rifiuto al rifiuto delle istituzioni. Così a distanza di 25 anni dall’inizio della storia travagliata di Fiumara d’Arte, per il progetto artistico comincia una nuova storia, quella “istituzionale”. Alle sculture viene finalmente riconosciuto il diritto di tutela. Nel 2010, Mauro Staccioli crea l’ultima opera destinata a completare la collezione, e così il percorso di Fiumara d’Arte. La scultura “38° parallelo – Piramide” sorge su una leggera altura del territorio di Motta d’Affermo, le cui coordinate geografiche centrano esattamente la consistenza matematica del trentottesimo parallelo. Nominando in tal modo l’opera, l’artista suggella l’intrinseco legame dell’opera alla geografia del luogo. Di forma piramidale cava realizzata in acciaio corten, parzialmente sprofondata nel territorio roccioso, cattura la luce solare attraverso la fessura, registrando nel proprio ventre geometrico i riverberi luminosi dallo zenit al tramonto.

 

Giusi Villa

 

I mille volti della città incastonati nei luoghi della cultura: indagine per immagini e parole nel cuore di Messina

“A Messina la storia e l’arte non vanno “addosso” al visitatore; si lasciano inseguire, si fanno cercare, e si rivelano solo a chi sa dove trovarle”

Gianpaolo Basile

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2016

Che vi troviate soltanto di passaggio, arrivati da poco sulla banchina della stazione marittima o in viaggio sulle rotaie del tram, perduti nelle strade del centro tra la ricerca di una sede universitaria e un luogo dove riposarvi e osservare lo spettacolo del mare che si abbatte sulla Real Cittadella, oppure ci siate nati e cresciuti, avvezzi alla terra vicina e lontana che si offre al di là dello stretto, muoversi in uno spazio non è mai un’attività indifferente. Esplorare è il primo modo per conoscere a fondo ed è soprattutto la misura per rintracciare il senso profondo di un territorio e costruire gli itinerari di una propria geografia mentale. Ogni strada e ogni spostamento – anche nei dintorni – assume nella nostra memoria significati che dalla realtà vengono rielaborati e rapidamente trasferiti verso una dimensione fantastica. Di questa Messina introspettiva, raccontata dalle parole degli scrittori e dei letterati, abbiamo iniziato a tracciare le fila nella rubrica Messina da Leggere; ci siamo spinti alla ricerca dell’autore del Don Chisciotte nei giardini del Grande Ospedale, abbiamo ricordato una storia d’amore dal finale tragico contenuta dentro le novelle del Decameron, allacciato un legame tra Fabrizio De Andrè e il pirata Scipione Cicala, presentato le narrazioni di una raccolta di dieci racconti curata da un collettivo di autori contemporanei.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2017

Ma a indizio dei passaggi storici che il tragico terremoto di un secolo fa non ha cancellato rimane lo splendore dei monumenti e musei che raccolgono i reperti del passato; su Messina da Scoprire siamo partiti per un tour tra le fontane storiche, abbiamo visitato il Museo regionale interdiplinare con la sua collezione di opere di Antonello e di Caravaggio, descritto e mostrato attraverso le immagini la Badiazza, i Santuari della Madonna di Montalto e di Dinnamare fino ai luoghi della Street Art. Abbiamo tracciato le biografie di Personaggi di rilievo sul piano scientifico e artistico e, nella rubrica Messina in Pillole, rispondendo alla domanda “Lo sapevi che…?”, abbiamo trattato di curiosità e modi di dire, di imprese eccezionali, di fenomeni ottici, di lingua italiana e di viaggi sulla luna.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2016

Continueremo a farlo, ma non è finita qui. Il nostro invito a guardare attorno potrete viverlo da protagonisti grazie anche agli eventi e alle iniziative che di volta in volta segnaleremo. In tal senso le Vie dei Tesori, rassegna che sostiene il proposito di custodire la memoria e rafforzare l’identità tramite la scoperta di trenta presidi storico-artistici, insieme alla V edizione del SabirFest, festival di cultura e di cittadinanza mediterranea ospitato dall’Università degli Studi di Messina, hanno offerto un segnale destinato ad arricchire il calendario degli eventi che si spera possa essere, nei mesi a venire, sempre più attraente e più ricco di appuntamenti. Quest’anno una guida e un supporto valido, frutto di un sodalizio con UniVersoMe, arriverà da CASMOB, app sviluppata da Alma Digit, che fornirà un aiuto ad individuare i percorsi e i luoghi della cultura in città, favorendo una ”connessione” attiva con il territorio. Per saperne di più, di questa e altre novità che aggiungeremo nelle prossime uscite, non perdete l’appuntamento settimanale con Cultura Locale.

©GIULIAGRECO per UniVersoMe – 2017

                   

 Eulalia Cambria

 

Tra storia, fede e tradizione: il Vascelluzzo

http://www.messinaweb.eu/features-2/k2/categories/item/693-il-vascelluzzo.html

Ѐ una delle tradizioni più antiche di Messina e si rinnova ogni anno la domenica in cui la Chiesa celebra la solennità del Corpus Domini. Ѐ la processione del “Vascelluzzo”. Si tratta della riproduzione in scala ridotta di un galeone cinquecentesco, in tutti i suoi dettagli: tre alberi, i pennoni che reggono le vele, otto cannoni per fiancata. In legno grezzo ricoperto da lamine di argento lavorate a cesello, il manufatto è lungo un metro e alto due e mezzo e poggia su una base argentea incisa col motivo ad onde marine ornata con foglie e fiori. Fu realizzato da abili mani tuttora ignote, molto probabilmente nella seconda metà del XVI secolo in contemporanea con l’istituzione della Confraternita peloritana di Santa Maria di Portosalvo dei Marinai cui appartiene. Successivamente, a partire dal 1644, subì dei rimaneggiamenti, come testimoniano le date incise sulla struttura.

Portare in processione il Vascelluzzo ha un significato preciso per i messinesi: ricordare e ringraziare la Madonna, protettrice di Messina, per tutte le volte in cui la città venne salvata dalla fame e dalle carestie grazie all’arrivo nel porto di galeoni carichi di grano.

Il Vascelluzzo, adorno appunto di spighe di grano, viene portato a spalla dalla Chiesa di Santa Maria dei Marinai al Duomo; qui, su due dei suoi alberi viene fissato sotto una corona regale sorretta da due puttini alati, un reliquario contenente i “Sacri Capelli” con cui Maria, secondo la tradizione, legò la lettera che inviò ai messinesi. Dal Duomo, in serata, parte la processione: a sfilare per le vie principali del centro, insieme all’ostensorio con il SS. Sacramento, anche il Vascelluzzo. Una volta conclusa, e riconsegnata la preziosa reliquia, il Vascelluzzo è riportato alla chiesa dei Marinai e le spighe di grano vengono distribuite ai fedeli, che le custodiscono in casa in segno di augurale abbondanza.

http://www.granmirci.it/vascelluzzo.htm

Ma quali sono gli avvenimenti storici alla base di questa tradizione? I fatti maggiormente collegati al Vascelluzzo risalgono al 1302 e al 1603.

Nel 1302, Messina era cinta d’assedio per mare e per terra dal duca di Calabria Roberto d’Angiò. Ciò impediva che i rifornimenti di viveri giungessero nella città, che ormai era in preda a una grave carestia. I messinesi dunque si rivolsero ad Alberto, un monaco in odor di santità, e per intercessione delle preghiere di questi alla vergine Maria, vennero soccorsi da navi cariche di grano comandate dal leggendario cavaliere templare Ruggero de Flor.

Nel 1603, una terribile carestia attanagliava la città peloritana. Le navi straniere, sapendolo, evitavano di passare dallo stretto per non essere prese d’assalto dai messinesi affamati. Si narra che un’imbarcazione greca diretta a Napoli osò transitarvi e proprio in quel momento, per intercessione della Madonna, si alzò un forte vento che costrinse la nave a riparare nel porto messinese. In quell’occasione, le 5000 salme di frumento che essa trasportava furono la salvezza dei messinesi.

Altre carestie flagellarono Messina nel corso del XVII secolo: in particolare nel 1636 e nel 1653; tutte risolte grazie all’intervento mariano.

Nel perpetuo ricordo dell’aiuto di Maria concesso alla città, fu fatto costruire il Vascelluzzo come un vero e proprio ex voto. E ancora oggi, dopo secoli, ogni anno Messina rinnova la sua devozione mariana portandolo in processione e tenendo viva la memoria e la tradizione ad esso legate.

Francesca Giofrè