Messina scende in PISTA

Il car sharing è un servizio utilizzato in tantissime città italiane e, finalmente, anche Messina vanta questa rivoluzione urbana grazie al progetto ”PISTA’’. 

Come nasce? Nasce per favorire l’accesso al servizio di mobilità, in modo da consentire di rinunciare all’auto ma non alla flessibilità delle proprie esigenze di mobilità. 

Come funziona? Per usufruire del servizio basta solo un’applicazione che permette di geolocalizzare la posizione dell’auto, posteggiata in determinati punti della città.  

Dopo aver prenotato la macchina, scannerizzando un codice con la telecamera del dispositivo cellulare, l’utente potrà mettersi alla guida pagando in base al tempo di utilizzo (circa 30/38 centesimi al minuto) Finito il proprio tragitto, la vettura andrà riportata in uno dei parcheggi, dove può essere prelevata e utilizzata da un nuovo utente.  

Quante vetture ci sono a disposizione? Il numero è stato calcolato in base al rapporto tra superficie della città, estensione e numero di abitanti, ed il coefficiente è di 120. 

Agevolazioni universitarie. Il progetto prevede innanzitutto il coinvolgimento degli universitari della città, che potranno sottoscrivere degli appositi abbonamenti, con tariffe agevolate.  

Sedi universitarie. Saranno le sedi dell’Università da “poli” strategici per gli spostamenti, consentendo agli studenti, messinesi o fuori sede, di muoversi da una parte all’altra della città con la possibilità di condividere il mezzo per abbattere le spese. 

Ma il mondo universitario è solo il primo step di un progetto che mira ad espandersi in gran parte dell’area urbana (e non), con nuovi parcheggi nelle sedi delle aziende partner, nelle strutture ospedaliere, nel centro cittadino e nelle principali infrastrutture di trasporto, dal Cavallotti alla rada San Francesco,passando dal Porto di Milazzo all’aeroporto di Catania.

 

Jessica Cardullo

Pietro Castelli: il docente che fondò a Messina il più antico Orto Botanico in Sicilia

Pietro Castelli. Questo nome, riferito al contesto messinese, in un primo momento evoca nient’altro che il nome di una via o quello dell’Orto Botanico cittadino. Eppure, soprattutto noi studenti, dovremmo sapere che il signore in questione è stato uno dei più illustri Professori del nostro Ateneo.

http://www.ortobotanico.messina.it/home_page/storia_dell_orto/00000192_PIETRO_CASTELLI__1580_1661_.html

Romano, nato intorno al 1570, è stato un medico e un botanico. Studiò medicina nella sua città, sotto le direttive di Andrea Cesalpino, di cui fu discepolo. Presso la stessa università di Roma cominciò ad insegnare sul finire del secolo. In quegli stessi anni diresse, all’interno degli Orti farnesiani (considerati il più antico orto del mondo occidentale, che sorse per volere della famiglia Farnese sul Palatino), l’orto dei semplici, ossia quella superficie ove venivano coltivate le piante medicinali per la preparazione dei farmaci. A quel periodo, precisamente al 1625, risale Hortus Farnesianus, una descrizione delle piante presenti in quell’orto, corredata da realistici disegni. Tale opera fu stampata sotto il nome del medico e direttore degli Orti farnesiani Tobia Aldini, ma in realtà secondo molti studiosi fu scritta interamente da Castelli.

Al 1631 risale il suo trasferimento nella città dello Stretto; qui, nel ruolo di Professore dell’Università, fin da subito sollecitò la realizzazione di un orto in cui fossero presenti le varie tipologie di piante medicinali. Scrisse egli stesso: «Arrivato che qui fui, considerando quanto era necessario l’Horto de’ semplici [] ne feci più volte istanza all’Ill.mo Senato; finalmente fui inteso nell’anno 1638 [] E mi fu consegnato il fosso fuori delle mura, tra i due ponti, lungo canne 72 et largo 24 et oltre il ponte canne 200…». Nacque così a Messina, nel 1638, il primo Orto Botanico della Sicilia, che successivamente verrà intitolato proprio al suo fondatore. In esso, cominciarono ad essere coltivate tantissime specie vegetali, provenienti da tutta Italia, dalla Sicilia (specialmente dalla zona dell’Etna) e anche dai vicini paesi africani. Innovativo fu anche il modo in cui Castelli procedette a dividere le varie specie, attraverso dei criteri che riflettevano le sue idee in merito alla classificazione degli organismi vegetali. In poche parole, la suddivisione da egli operata si basava sulla parentela tra le piante, che era dedotta paragonando le caratteristiche dei fiori e dei frutti di ognuna di esse. Un metodo sistemico-filogenetico, insomma, che diventò poi il punto di partenza per l’organizzazione degli orti botanici moderni.

Nel 1640 Castelli volle mettere nero su bianco quanto aveva creato e così pubblicò un’opera, dal titolo “Hortus Messanensis”, in cui descrisse minuziosamente l’orto e in particolare la suddivisione che ivi aveva attuato, in quattordici sezioni (“hortuli”) in base appunto al suo metodo di classificazione delle piante. Ognuno di questi hortuli portava il nome di un Santo e a sua volta era diviso al suo interno in numerose aiuole.

http://www.ortobotanico.messina.it/home_page/storia_dell_orto/00000030_Primo_periodo__L_antico_Orto_Botanico.html

 

Pietro Castelli avrebbe vissuto a Messina ancora per oltre un ventennio, finché la morte non lo colse proprio nella città dello stretto nel 1661, non prima però che venisse nominato Nobile della città di Messina dal Senato cittadino che riconobbe certamente i suoi grandi meriti. Dopo la sua morte, l’Orto botanico fu intitolato alla sua memoria e venne affidato alle cure e alla direzione di un altro eminente medico e botanico, Marcello Malpighi.

Francesca Giofrè

Messina 1908 – 2018. La storia di un grande evento, il nostro

Orologio fermo alle 5.20, ora esatta dello scatenarsi del sisma della mattina del 28 dicembre 1908 (foto scattata nel già 1909)

Cosa fu, chiese il figlio al padre, aspetta disse il padre al piccolo.

Queste, silenti, brevi e semplici parole alle 5.15 di quella fredda mattina.

Soltanto cinque minuti dopo, nel momento in cui il bimbo stava per riprendere sonno, ad un tratto un boato, eccola, l’ira funesta della madre terra, che sprigionò tutta la sua forza laddove niente fu come prima. 

Tutto diventò altro, un tutt’uno tra inferno e paradiso, tra cielo e terra, tra acqua e fuoco, tra vento e quiete.

Messina subiva quello che noi oggi conosciamo come l’evento sismico più potente della nostra storia recente, uno di quelli che raggiunse il 7° grado della scala Mercalli, uno di quelli che vorresti essere nato in altro luogo del pianeta al solo pensiero.

Carmelo, questo il nome del bambino, si trovò dalla sua cameretta, dove discuteva col padre, a venire estratto dalle macerie della loro casa, del loro plesso, del loro rione. Quelle voci, quelle grida e quei lamenti, Carmelo li sentiva come fossero un sogno vissuto realmente al quale non diede molto peso, tanto in fin dei conti da lì a poco si sarebbe svegliato, pensò in cuor suo, per cui perchè preoccuparsi più di tanto…

Si rese conto nemmeno pochi istanti dopo che non era un sogno ma una realtà viva, attuale, vera più che mai. Lì iniziò a vedere con gli occhi di un bambino, quale lui era, tutto il dramma della vita: corpi riversi sotto i solai, sotto le travi e mobilia, mobilia ovunque, specchi rotti, legna, pietre, tantissime pietre, tutte le pietre del mondo dirà negli anni seguenti nei suoi racconti monotoni per i quali sarà financo schernito dalle future generazioni. 

Particolare degli interni di un appartamento in via Fossata nel 1909

 

Correva l’anno del Signore 1908 in quel di Messina, gia sede di provincia e prima tra le quattro città di distretto configurate nell’ottica borbonica dal punto di vista amministrativo. In ordine di importanza queste le quattro città già demaniali e di distretto in un tempo precedente: Messina, Castroreale, Patti e Mistretta.

Carmelo era figlio di quel tempo, figlio di quella terra ovvero di questa nostra stessa terra, Messina, la Sicilia, la nostra isola.

Diranno alcuni, figlio delle terre al di là del faro.

Così venivano intese infatti tutte le zone della Sicilia che non si trovavano “al di qua del faro” in cui ricadevano, geograficamente parlando, i centri della Calabria. Una dicitura già presente all’epoca borbonica e riportata per abitudine descrittiva nei vari passaggi di regno e/o annessioni territoriali.

Come lui, altre piccole anime, le quali nulla chiedevano, se non vivere a casa loro, in quella che era la loro città, tra quella che era la loro gente. Le Regie Poste, gli uffici amministrativi, abitazioni, statue, rioni, caseggiati, strutture ecclesiastiche e chi più ne ha più ne metta, andarono sgretolati nel giro di soli 37 secondi, interminabili e da nessuno mai pensati.

E’ vero, dirà qualcuno anni dopo, nel corso dei secoli altri furono i terremoti gravi ancor prima del 1908, basti ricordare uno su tutti il cosiddetto “terremoto di Castroreale dell’inizio del secolo 700”, 5.4 della scala Richter che colpì per forza di cose anche la città di Messina o i vari terremoti di Calabria dove ancora e sempre Messina per la vicinanza geografica ne subiva gli effetti non di poco conto.

Tornando al ricordo limpido del piccolo Carmelo, durante i mesi a ridosso del tragico evento cominciò a carpire cosa si stesse facendo e come si stesse operando. Fu preso in carico da alcuni parenti rimasi miracolosamente illesi durante il sisma e con loro alla fine crebbe negli anni successivi, almeno fintanto che non raggiunse la maggiore età e decise di proseguire la sua giovane vita, da messinese, impegnandosi nel sociale e mettendosi al servizio della sua comunità. Altri ancora, che il piccolo Carmelo lo conoscevano bene, dissero che alla fine diventò un infermiere prestando la sua opera in quel che fu poi per tutti la culla della sanità messinese. Carmelo, cresciuto da questi parenti, passava i pomeriggi a guadare come pezzo per pezzo nasceva il già Regio Ospedale Piemonte, per molti inteso Ospedale Civico, che fu interamente finanziato dal comitato piemontese che con la ingente cifra per quel tempo di lire 600.000, contribuì alla costruzione di uno dei primi plessi presenti in città interamente pianificati in cemento armato.

Ospedale Piemonte visto da sud ( il suo retro) anno 1911

 

E’ chiaro che tra le macerie e il legname che regnava in quel periodo, il cemento armato fu subito visto come soluzione risolutiva ai possibili futuri problemi sismici e quale azione lungimirante per un prosieguo di vita “normale” e ancor più vissuta in piena sicurezza. L’ospedale Piemonte, racconterà negli anni ancora il piccolo Carmelo, raccolse l’eredità del Grande Ospedale di Santa Maria della Pietà, edificato a partire dal 1542, sull’area dove oggi sorge il Palazzo di Giustizia.

Messina con difficoltà oggettive cercò fin da subito di risollevarsi come sempre nei secoli seppe fare, ma qui le cose andarono a rilento. Il Governo del tempo, visto e considerato che molti uffici amministrativi, sia comunali che provinciali andarono distrutti e venne persa molta documentazione pubblica, ordinò il trasferiemento a tempo indeterminato (e fino a revoca governativa) degli stessi in quel della Città Regia del Castro Regale (attuale Castroreale), al tempo rientrante già nella provincia messinese.

Fu così, Carmelo raccontava ai prorpi assistiti durante lo svolgimentio del proprio lavoro, che Castroreale venne designata quale sede di provincia, sostituendosi subito dopo il 1908, di fatto, alla vicina ed amica Messina, accogliendo moltissimi esuli messinesi con le loro famiglie al seguito.

Carmelo crebbe, e con lui, anche la sua passione per la storia, la storia della sua terra.

Pensa un po’ , in un giorno di ordinario suo lavoro disse ad collega, anch’egli appassionato di storia locale; sapevi che il pulpito del nostro duomo fu distrutto dal sisma del 1908? e ricostruito sulla copia esatta di quello presente nel duomo monumentale di Castroreale?” No! rispose il collega, sapevo che l’originale ancor prima era il nostro messinese e che sulla base del nostro fu copiato a Castroreale.. E sai bene”! aggiunse Carmelo, e fu fortuna che Castroreale precedentamente lo copiò esattamante dal nostro, perchè nel terremoto del 1908 qui da noi, il nostro andò distrutto e l’unica copia fedele esattamente uguale restò in originale proprio quello di Castroreale! Da questo fu ricopiato l’attuale presente nel nostro duomo ovvero nella Cattedrale di Messina.  Per bacco! rispose il collega; e aggiunse: ma tu tutte questa cose come fai a saperle? Sembri più uno storico che un infermiere! Curiosità, disse Carmelo, semplice curiosità e abbassando lo sguardo aggiunse: io ero piccolo, e la più piccola pietra che allora sentì sul mio corpo mi impose e mi portò alla conoscenza, a scoprire, ad essere interessato ad essa, perchè se non lo fossi stato, tu stesso saresti rimasto all’oscuro su ciò che fu ed è la tua storia e la tua storia caro collega è la tua vita, il tuo nettare, la linfa per dare un futuro alle nuove generazioni. Magari un dì in questa misera vita, visitando te, i tuoi tardi nipoti, verranno devoti dove spento e sepolto sarai, ma verranno consapevoli di aver appreso da te un pezzeto di storia in più sulla loro terra, sulla loro zona e sulle loro vicende. Non credi?

Facciata del duomo di Messina distrutta

Il collega rimase perplesso, non sapeva che Carmelo vide il padre e la famiglia morire sotte le macerie e non sapeva, non poteva carpire la forza che aveva avuto a risollevare i ricordi da quelle stesse macerie, anche soltanto la storia, una di quelle che umilmente rimase ad ascoltare, accettando però l’idea che “bisogna passarci per capire” e mai sottovalutare e schernire gli effetti di una tragedia altrui.

Questo il tributo per i 110 anni dal tragico terremoto che colpì la nostra città, la nostra gente e i nostri luoghi più cari.

La Redazione Cultura Locale coglie l’occasione dell’anniversario del terremoto per ricordare l’importanza della prevenzione e della cultura della sicurezza in ambito sismico ricordando a se stessa per prima che puntare sulla conosenza del rischio, sulla formazione della cittadinanza e quindi della società civile, rappresenta la differenza tra rischiare e rimanere illesi in caso di possibili futuri drammi, che noi tutti ci auguriamo mai più accadano, ma che certamante devono far riflettere sulle decisioni e progettazioni urbanistiche dei prossimi anni.

Auguri per un sereno e felice nuovo anno e arrivederci con nuove storie, vicende da quel ed in quel di Messina.

Fonte immagini: pagina Facebook Messina Antica

Filippo Celi

 

Il Natale a Messina: tradizione, arte e storia in una prospettiva di rinascita

@GIULIAGRECO2018

L’aspetto religioso è per Messina, oltre che un elemento culturale di identità, un’immagine di rinascita. Il culto mariano nei momenti critici che hanno coinvolto la città, dalle terribili ondate di pestilenza ai terremoti, fino ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, ha fornito un sostegno per risollevare gli animi in una storia, quella di Messina appunto, caratterizzata da profondi traumi, ma anche da slanci e riprese vitali. Più che un’esteriore forma di devozione il richiamo ai valori della fede è quindi per i messinesi un elemento di attaccamento alle proprie radici cittadine. E’inevitabile che le celebrazioni del Natale si leghino fortemente alle usanze e al folclore. Una relazione espressa sotto aspetti diversi e che tocca anche l’arte e la musica: sono moltissime le modalità e le usanze, radicate nella tradizione della città, di festeggiare e raffigurare il momento della Natività.

Bambinello Gesù, Francesco Juvarra http://www.messinareligiosa.it

A partire dal simbolo per eccellenza: il presepe. Fino agli anni ’40 – ’50 l’albero di Natale era percepito con indifferenza, se non con aperta ostilità per via delle sue origini slegate dalla religione cattolica; Giuseppe Arena lo definì una “scimmiottagine”, un oggetto di una moda passeggera destinata negli anni a scomparire. Nelle case si preferiva mettere le statuine dei personaggi, spesso realizzate a mano dalle botteghe degli artigiani. Una tradizione, quella del presepe, che risale a moltissimo tempo prima. Qualche volta si trattava persino di opere monumentali ed eccentriche, come il presepe nella casa del cavaliere Calamarà che, come riportano le testimonianze, si snodava per sette stanze o quello di Salvatore Bensaia che conteneva all’interno addirittura i pali del telegrafo. Connessa al presepe, sotto il profilo del manufatto artistico, è anche la tradizione molto antica, presente già nel ’600-‘700, dei bambiniddari: statue del bambin Gesù in cera d’api. La produzione era estremamente diffusa, in Sicilia e a Messina, tanto da ottenere una grande popolarità ed essere richiesta nei salons di Parigi. Uno dei bambinelli si trova oggi nella chiesa di Gesù e Maria delle Trombe; è un’opera molto venerata, realizzata da Francesco Juvarra, fratello dell’architetto Filippo, a cui il popolo attribuì poteri miracolosi.

In campo artistico massima espressione della Navità a Messina è naturalmente la tela dell’Adorazione dei Pastori di Caravaggio del 1609 contenuta nel Museo Regionale. L’opera, che venne commissionata dal senato della città, fu fatta dall’artista durante il passaggio in Sicilia dopo essere fuggito dal carcere de La Valletta dove venne rinchiuso in seguito a una violenta rissa. L’incarico prevedeva la realizzazione di una pala d’altare destinata alla chiesa di Santa Maria della Concezione, distrutta dal terremoto. La scena rappresenta Maria in atteggiamento realistico e umile insieme a San Giuseppe e i pastori, avvolti da un fascio di luce che rischiara la scena e mette sullo sfondo il resto, compresi il bue e l’asino. Stesso tema ebbe l’opera trafugata a Palermo, la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco D’Assisi. Per Caravaggio il Natale, come ha scritto il Professore Tomaso Montanari “è la festa della dignità del corpo umano: non importa quanto indifeso, stanco, piccolo, umile, povero, migrante. Anzi, proprio per questo, divino”.

@GIULIAGRECO2018

 

“Diciamo d’un remoto Natale in un paese ai piedi dei Nebrodi, nella piana fitta d’ulivi e d’aranci, il mare di fronte con le Eolie fantasmatiche all’orizzonte e le boscose colline alle spalle, l’immenso Etna in fondo di nevi e caligini (…) In questo tempo, dopo il rito liturgico, c’era la notte l’attesa di un’altra novena, quella cantata sotto il balcone dai ciaramiddari, cantata dal cieco (…)” (Vincenzo Consolo, Un remoto e un recente presepe)

http://www.strettoweb.com/foto/2018/12/natale-a-messina-tradizioni-storia-usanze/785451/

Ma soprattutto era la musica della zampogna a rendere gioiose e allegre le notti di Natale, in particolare prima del terremoto. C’erano allora i cosiddetti ciaramiddari, i zampognari di Camaro che intonavano le loro tipiche ninne nanne della Novena e i vecchi cechi, chiamati i “sonaturi orbi”, accompagnati da chitarra e violino e da un picciotto che suonava l’azzarino (il triangolo). Giovanni Pascoli, che a Messina abitò dal 1898 al 1902 per insegnare all’Università, scrisse proprio in quel periodo la poesia Le ciaramelle: “udii tra il sonno le ciaramelle/ho udito un suono di ninne nanne/ci sono in cielo tutte le stelle/ ci sono i lumi delle capanne”. Viva ancora oggi è invece la tradizionale processione che la notte del 24, dopo la messa di Natale, parte dalla chiesa di S. Francesco all’Immacolata trasportando tra musiche e fuochi d’artificio un bambinello in cartapesta del XVIII secolo.

Eulalia Cambria

Tonfo casalingo pre-Natale per il Cus Calcio

Pesante sconfitta casalinga alle porte di Natale per il Cus Unime. Sontuoso 0-3, tra le mura del Bonanno, ad opera del Fiumedinisi. Nonostante lo 0-0 del primo tempo, la squadra ospite ha sin da subito dominato il match per poi concretizzare il tutto nel secondo tempo. Sarà la realizzazione di un calcio di rigore a sbloccare la squadra ionica, che da lì in poi dilagherà in lungo e in largo. I problemi per Mister Smedile e i ragazzi del Cus Unime sono stati tutti evidenziati in questo profondo tonfo interno, anche perché la classifica, seppur cortissima, ha visto scivolare i gialloblu dal terzo al settimo posto. Adesso 2 settimane di pausa di fine anno. Una pausa che può valere oro in casa Cus per rimettere in ordine quanto di buono fatto vedere e per riprendere quella concretezza tecnica e tattica che sembra essersi smarrita nelle ultime uscite.

Nel prossimo incontro, il Cus Unime sarà ospitato dal Fondachelli nell’omonimo paese, per una gara che si preannuncia, già da ora, tanto dura e impegnativa, quanto stimolante e di fondamentale importanza.

Nell’augurarci buone feste, riepiloghiamo il dato dell’ultimo turno:

Fiumedinisi batte Cus Unime 3-0, reti di Crementi (doppietta) e Santonocito.

Santi Pietro e Paolo: un monastero basiliano nell’antica valle fluviale d’Agrò

A poco più di 40 km da Messina, nella natura boschiva dei Monti Peloritani, sulla costa Jonica, sorge nella sua solitudine non ancora intaccata, una chiesa di impianto bizantino e arabo-normanno. Quasi senza dare alcun preavviso di sé appare in mezzo al verde, nei pressi di Casalvecchio Siculo, dopo avere percorso un itinerario che si inerpica su strade di campagna. La valle, abbracciata tutto intorno dal torrente Agrò, uno dei corsi d’acqua maggiori della costa, che deve il nome alla parola αγρός, terra coltivata, grazie alla presenza dei campi è stata frequentata dall’uomo fin dai tempi antichi. Ne sono una testimonianza i ritrovamenti risalenti al neolitico, ma nei secoli molti altri popoli tra cui fenici, greci, bizantini e arabi hanno coltivato e abitato le terre fertili attorno alle sue acque, disseminando nel territorio una serie di centri urbani. Dall’antica Phoinix, emporio dei fenici, al cui posto oggi sorgono i comuni di Savoca e Santa Teresa, furono prelevate anche sei colonne di granito utilizzate per riedificare la Chiesa dei Santi Pietro e Paolo.

Esito della convergenza nel tempo diversi stili architettonici, il complesso si presenta oggi in discreto stato di conservazione. Dal profilo esterno, osservando la merlatura del tetto, è chiaro che ebbe un tempo il ruolo di fortezza: la sua particolare posizione permetteva ai monaci, fin dall’epoca normanna, di tenere d’occhio la valle che collegava il mar Tirreno allo Ionio. In base all’Atto di Donazione, scritto in greco nel 1116, che fu tradotto in latino da Agostino Lascaris, il conte Ruggero II D’Altavilla, durante un viaggio da Palermo a Messina, incontrò il monaco Gerasimo dell’ordine dei basiliani. Il frate chiese al sovrano normanno il consenso per edificare la chiesa e coltivare i campi nel territorio, ottenendo la facoltà anche di controllare un intero villaggio, dove oggi sorge il borgo di Forza D’Agrò. In seguito a un violento terremoto che colpì la Sicilia orientale nel 1169 la chiesa venne ristrutturata dall’architetto Gherardo il Franco, come si osserva dall’iscrizione in greco che appare nell’architrave del portale dell’edificio.

Le origini della costruzione risalgono però a epoche più remote. Il nucleo della chiesa è bizantino e può essere datato al 560 d.C. Il motivo a spina di pesce e l’alternanza del bianco e del nero delle pietre laviche dell’Etna nelle decorazioni esterne  sono alcuni degli elementi che si possono riconoscere di questo stile, evidente anche nella croce di tipo bizantino incisa nella porta di ingresso. All’elemento arabo, risalente alla fase di conquista islamica, è da ricondurre la forma caratteristica delle cupole e il disegno ad alveoli che sorregge quella che delle due copre il presbiterio. L’abside, rivolto verso est, assume all’esterno la forma di un torrione rettangolare, mentre ai lati dell’ingresso principale compaiono due torri, caratteristica, questa, delle grandi cattedrali normanne, come quelle di Cefalù e Monreale. All’interno invece la pianta si presenta a tre navate, con volta a crociera nelle navatelle e piana nella copertura centrale. Priva di elementi pittorici conservati, appare spoglia e raffinatamente decorata nella struttura in pietra. Pochi ruderi restano invece di quella che fu un tempo la biblioteca che costituiva parte dell’edifico annesso all’abbazia.

L’insieme di più stili, elemento che richiama la storia dei popoli che hanno colonizzato la Sicilia e la sua ambientazione silenziosa, oltre all’atmosfera sacrale che l’avvolge, fanno della Chiesa di San Pietro e Paolo D’Agrò un gioiello dell’architettura siciliana. Dopo che anche una richiesta ufficiale è stata avanzata per l’inserimento tra i siti UNESCO c’è da sperare che si prosegua nell’operazione di valorizzazione e promozione turistica dell’abbazia e del suo comprensorio. Attualmente la chiesa è accessibile al pubblico ed è possibile visitarla negli orari di apertura.

@FOTO DI Salvatore Cambria

Eulalia Cambria

Sindrome da Natale precoce e l’altra faccia della festività più attesa dell’anno

Molti sarebbero d’accordo con Cremonini che canta: “Dalle ultime ricerche di mercato si evince che la gioia è ancora tutta da inventare”. Secondo la scienza invece la felicità alberga nel cuore di chi si dedica agli addobbi natalizi con un po’ di anticipo. Sembra quindi che questa esigenza non sia dettata dalla voglia di battere tutti sul tempo sorprendendo con la decorazione più originale. La riflessione che sto per proporvi ha avuto inizio dalla constatazione di un fatto. Durante le ultime settimane di novembre, mentre mi aggiro per le vie di Messina, osservo le prime lucine tipiche di Natale ad ornamento di case e negozi. Continuando a passeggiare, riesco a scorgere la presenza di un albero di Natale attraverso la finestra di un appartamento che dà sulla strada. Lo stesso scenario. Ogni anno. Io, già di mio cinica e poco incline ai festeggiamenti, reagisco d’impulso indignata ed esprimo il mio disappunto, perché tutta quest’aria di festa precoce contribuisce a rincarare la mia già elevata dose di ansia. Senza voler limitare la libertà di nessuno…per quale motivo non si può semplicemente aspettare l’8 dicembre come da tradizione? Io, che se detenessi il potere di controllare il tempo lo fermerei o porterei indietro le lancette, non ho nessuna voglia di anticiparlo senza godermi la giusta attesa.

Comunque, una volta passato lo sfogo, torno sui miei passi e mi fermo a riflettere: mi convinco che dietro a questa tendenza di anno in anno sempre più comune, che prendo l’iniziativa di rinominare scherzosamente “sindrome da Natale precoce”, ci siano dei motivi ben più profondi da capire. Effettivamente, faccio alcune ricerche e trovo delle informazioni interessanti che riporto qui di seguito. Scopro che secondo un team di psicologi, se rientrate tra quelle persone che avevano già allestito albero e presepe qualche settimana prima di dicembre, significa che siete più felici degli altri. Non mi accontento di questa spiegazione un po’ fine a sé stessa, pertanto decido di approfondire e leggere ulteriormente. Traggo le seguenti conclusioni: stando agli studi di esperti psicoterapisti, impegnare la mente nella predisposizione degli addobbi natalizi ci distoglie dai problemi quotidiani e dallo stress, risveglia il “fanciullino” che è in noi e fa rinascere la nostalgia di un’infanzia spensierata che si desidera ripristinare. Ultimo effetto, ma non meno importante, sarebbe quello che le decorazioni appese fuori dalle porte degli appartamenti, nei balconi, e nei pianerottoli, migliorerebbero i rapporti con il vicinato e renderebbero più simpatici.

Per quanto io possa riporre estrema fiducia nella scienza, mi sento di dissentire da queste affermazioni, soprattutto dall’ultima, consegnando un’analisi dal mio punto di vista sociale e culturale un po’ diversa. Una versione che potrebbe sembrare forse troppo scettica, ma in cui tanti altri potrebbero riconoscersi, frutto di esperienze personali e collettive. Parto dal fatto che nonostante negli anni la mia famiglia abbia sempre esposto i festoni natalizi dietro la porta di casa, i signori condòmini del mio bizzarro e singolare palazzo che non rivolgevano il saluto prima di Natale, hanno proseguito a non farlo. La cosa più eclatante però è stata trovare, una volta rientrati a casa dopo un’uscita, le foglie della stella di Natale (che era esposta nel pianerottolo di casa) staccate dai rami e sparse sullo zerbino di casa. A quanto pare, più che aver suscitato simpatia, abbiamo favorito un atto di sfregio immotivato.

Una tesi che vorrei rielaborare da un’altra prospettiva è quella relativa all’equivalenza “persona che addobba in anticipo = persona felice”. Io non credo che si voglia comunicare proprio questo. Semmai, è simbolo di quanto bisogno ci sia di riacquistare serenità, che si finisce con il ricercarla in lucine e festoni, quasi fosse una soluzione terapeutica che finalmente, dopo un anno di frenesia, di monotona quotidianità e di dispiaceri, ci riporta alla realtà, intensificando i legami affettivi e familiari. Il problema però è che si tratta di un’illusione effimera e fugace, circoscritta alle vacanze natalizie destinate a finire nei primi di gennaio. Quest’inno alla gioia inoltre mette molto a disagio quelle persone che invece non riescono a manifestare queste stesse emozioni intrise di ottimismo in questo magico periodo dell’anno, perché si ritrovano a fare i conti con dei bilanci non necessariamente positivi per tutti, sui mesi passati. Ci si ricorda di quanto costruito, ma anche di ciò che si è perso. Se si vive soli e lontani da casa, Natale non è più lo stesso. In tempi di crisi, c’è chi non ha neanche la fortuna di sedersi a un cenone a mangiare come penseremmo fosse normale e scontato per tutti.

Secondo il pensiero di molti, a Natale la felicità dovrebbe essere contagiosa. I musoni e le facce malinconiche non sono ben accetti, quasi fosse una colpa. Eppure, esiste un fenomeno definito “Christmas Blues” che designa quelle persone investite da una sempre più diffusa tristezza che coincide con il clima di festività. Sono gli stessi amici o parenti che magari fingono di stare bene o di fare i regali di Natale con piacere. Io sono pro Christmas Blues e non biasimo chi si rispecchia in questo stato d’animo. “It’s okay not to be okay”. Che ben venga il dolore, se può diventare fonte di rinascita e di nuove consapevolezze, così come dovrebbe essere uno dei veri sensi del Natale.

Altra piaga poi sono i regali: ormai si sa, pubblicizzare il Natale è diventato anche uno scopo commerciale. I doni di Natale, se proprio dovete farli, fateli carichi di valore affettivo. Meglio così che privi di qualsiasi significato. Quelli fatti forzatamente vengono percepiti, sempre, e non vengono apprezzati già dal momento dello scarto. E poi, fate regali piccoli, che l’unica cosa grande che in varie forme desideriamo ma che non si può comprare, è la felicità, quella autentica però, non artificiale frutto di temporanei addobbi.

Il Natale insomma mette un po’ tutti a dura prova; è una ricorrenza controversa che spacca la società in due parti: chi lo ama e chi lo odia. In quest’ultima categoria di persone rientrano coloro che temono e ripudiano le tavolate. I momenti in cui le famiglie si riuniscono non solo possono riaccendere vecchi rancori e accentuare le attuali tensioni, ma spesso si tramutano in una serie di interrogatori da cui sembra una sfida uscirne vivi: “Ma il fidanzatino?” oppure “Quando ti laurei?” o ancora “Quando ti sposi?”, per finire con “Quando fate un figlio?”, e altre varie domande invadenti.

Effetti collaterali del Natale a parte, resta sicuramente una festività ricca di simbolismo e di spiritualità, da trascorrere con le persone che amiamo, senza obblighi o ansie. Concediamocelo almeno per due settimane. Facciamo una pausa, prendiamo un bel respiro, e ricominciamo a vivere, magari meglio di prima, la vita che desideriamo per il nostro bene, perseguendo i nostri sogni. Solo questo potrà ridonarci gioia. Questo è il mio augurio per voi lettori, studenti e non. Anche se a tratti posso essere risultata pessimista, in realtà il mio intento è di essere solo realista, con uno sguardo più fedele della realtà che possa raccontare l’altro lato delle feste, quello più scomodo e velato, troppo poco dibattuto.

 

Giusy Boccalatte

Foto di: Giulia Greco

Le opere di Antonello in una grande mostra a Palermo. Il parere contrario degli esperti

Sarà uno degli appuntamenti più attesi nell’ambito delle iniziative conclusive promosse da Palermo capitale della cultura 2018. Nel capoluogo sta per essere infatti inaugurata una mostra dedicata al famoso artista quattrocentesco. L’esposizione, dal 14 dicembre al 10 febbraio, si svolgerà a Palazzo Abatellis, dove già si trova il celebre dipinto dell’Annunciata.

La rassegna intende celebrare in un unico spazio espositivo la personalità di Antonello da Messina riunendo un percorso inedito tra tavole provenienti da diverse collezioni. Il curatore, Giovanni Carlo Federico Villa aveva promosso nel 2006 di un’iniziativa simile alle Scuderie del Quirinale a Roma.

L’idea di questa mostra antologica non è stata però accolta con eccessivo entusiasmo da parte degli esperti in Storia dell’Arte e Beni Culturali. Dopo Palermo le opere di Antonello contenute nel Museo Regionale di Messina dovrebbero essere spostate anche al Palazzo Reale di Milano; il Polittico di San Gregorio e la Tavoletta bifronte per alcuni mesi verranno quindi trasferite altrove e non saranno più disponibili ai visitatori del rinnovato plesso museale di viale Libertà.

Così un gruppo di docenti e operatori culturali ha redatto e firmato un documento per esporre le ragioni della presa di posizione avversa all’iniziativa. Secondo il parere degli esperti spostare il Polittico rappresenterebbe un rischio per lo stato di conservazione della tavola, sensibile ai cambiamenti di umidità e temperatura. Inoltre privare delle opere di Antonello il Museo Regionale di Messina non porterebbe un ritorno di immagine favorevole all’offerta culturale e turistica della città dello Stretto.

Il Prof. Roberto Cobianchi, docente di Storia dell’Arte al DICAM, si è espresso con queste parole:

Se si tratta di un’occasione di studio nuova va bene, altrimenti non ha senso spostare un’opera semplicemente perché è di un autore di grande notorietà. Mi pare che nella bibliografia recente non ci siano delle novità documentali o attributive che giustifichino una nuova mostra su Antonello. Sarebbe auspicabile che il pubblico andasse a vedere le opere nel contesto in cui si trovano e che si abituasse ad andare con regolarità al museo. Non ritengo corretto privare i visitatori del Museo di Messina di quest’opera chiave, se non a fronte di una seria operazione culturale. Purtroppo oggi il pubblico è spinto, a volte con dei sotterfugi pubblicitari, ad andare a vedere le mostre, ma non sempre le mostre danno un vero contributo alla conoscenza dei problemi intono ai quali vengono costruite. Troppo spesso propongono una sequenza di ‘capolavori’ di autori dai nomi molto noti, ma non insegnano nulla. (L’Eco del sud)

Eulalia Cambria

Le 5 cose che mancano di più al messinese fuorisede

 

Conduce spesso una vita di stenti, ogni giorno affronta eroicamente l’integrazione in un mondo che non gli appartiene, il suo cuore batte alla vista del Pilone e la sua anima sussulta al pensiero dell’arrivo del pacco da giù: è lo studente fuorisede, o meglio, il messinese fuorisede.

Che tra Nord e Sud esistano delle differenze è cosa nota e, diciamocelo, non si tratta di stereotipi ma di dure realtà. Lo studente fuorisede vive ogni giorno sulla propria pelle questo incolmabile divario che separa Nord e Sud, gelida Polentonia e calda Terronia. E se fino a Napoli sembra ancora di avvertire una flebile aria di casa, dal Tevere in su non ci resta che piangere.

 

Sono certa che tutti voi abbiate un amico messinese fuorisede e sono altrettanto sicura del fatto che almeno una volta vi sia capitato di dover sopportare eventuali lamentele e piagnistei causati dalla nostalgia di casa. Perché mio caro buddace medio,  portavoce del motto “a Messina non c’è nenti”, sappi che ogni giorno, tra lo zallume e l’inciviltà, godi anche di tanti piaceri per cui il messinese fuorisede ti invidia dannatamente.

Ecco a voi le cinque cose di cui il nostro messinese fuorisede sente maggiormente la mancanza.

  1. Le braciole

Nessuno, eccetto i suoi conterranei, possono comprendere la necessità di gustare questo piatto almeno una volta a settimana. La sofferenza del fuorisede dovuta all’astinenza da braciole si acuisce ulteriormente nel momento in cui, pronunciato il nome indicante questo nettare degli dei, si rende conto che nessuno riesce a comprendere nemmeno di che cosa stia parlando. Perché no, non si tratta semplici “involtini di carne”, si chiamano “braciole”: adesso andate e diffondete il Verbo. State molto attenti a non pronunciare questo nome invano, il desiderio di braciole del messinese fuorisede è tale che sarebbe disposto persino a darvi un rene, pur di averne qualcuna in cambio.

  1. La granita

Sarebbe capace di mangiarla a colazione, pranzo, merenda, persino per cena. Una “menza ca’ panna” starebbe bene anche a fine pasto, così per digerire la caponatina di mamma. Stiamo parlando ovviamente di Granita, quella vera, con sapori e odori chiaramente percepibili, ben diversa dalla “gratta checca” che ogni buon messinese userebbe al massimo per fare l’ ice challenge a luglio. Nei suoi sogni più reconditi il messinese fuorisede immagina di accarezzare la sacra coppola della brioche e immergerla con la giusta grazia in un velo di panna. E fidatevi, la più grande dimostrazione d’affetto che possiate ricevere da un buddace non è una teglia di parmigiana né un chilo di salsiccia condita (sebbene siano sempre molto gradite). Stima e affetto insuperabili sono racchiusi in questa frase fortemente evocativa: “ti vogghiu beni comu a testa da brioscia”. Ditelo così “ti amo” al messinese fuorisede. Non riuscirebbe a trattenere la lacrimuccia.

  1. Il mare dello Stretto

Il messinese potrebbe anche spostarsi senza l’aiuto di google maps e della stella polare, ma non del suo mare. Lo stretto è un vero e proprio punto di riferimento. Non a caso, già alla vista delle sponde calabre, il fuorisede comincia a ritrovare il dovuto senso dell’orientamento e ha come la sensazione di tornare a respirare. Tra alte montagne e grigi palazzoni si sente infatti schiacciato, come fosse sul vecchio 79 direzione Faro alle ore 14 di un qualunque giorno scolastico. Solo la vista dello Stretto sarebbe capace di donargli quella stupenda sensazione di libertà, paragonabile solo a quella provata non appena sbottonati i pantaloni dopo il pranzo di Natale con i parenti.

  1. Il dialetto

Chiedere allo studente fuorisede di non parlare in dialetto sarebbe come chiedere alla nonna terrona di non dirti “stai sciupato” ogni qualvolta ti veda/senta (sì, perché anche il tono di voce rivela se non mangi). Non ce la fa, il suo cuore non può sopportare anche questo. Piuttosto chiedetegli di non parlare in italiano. Ricorrere a espressioni dialettali, specialmente in preda a momenti di ira o in (rarissimi) istanti di euforia, è una necessità, fa bene all’animo. E poi, amici/nemici polentoni, vi assicuriamo che la nostra amarezza nel constatare che non potete comprendere espressioni tanto profonde e potenti come “cuntari quantu u dui i coppi quannu a briscula è a spadi”, “semu chiù di cani brasi” o “camurria” supera di gran lunga il vostro sbigottimento nel sentirle pronunciare. Il fuorisede infatti si impegna moltissimo per fare in modo di esplicare al meglio il senso più profondo di questi vocaboli, ma ogni traduzione che si rispetti non potrà mai dirsi perfetta. Per cui al messinese fuorisede non resta che rassegnarsi, nessuno lassù al di fuori di se stesso potrà mai capirlo.

  1. Il clima tropicale

Il messinese è geneticamente formato per risiedere in ambienti caldi. Costringerlo a vivere in territori in cui si sfiorano soglie più basse dei 12 gradi sarebbe come chiedere a un orso polare di vivere all’Equatore. Non riesce a resistere, ha proprio difficoltà a sopravvivere. E se il fuorisede decidesse di fare il trasgressivo, indossando il giubbotto di pelle a novembre, ne pagherebbe immediatamente le conseguenze con un bel febbrone. Sembra quasi che le sue difese immunitarie vogliano urlargli “Imbecille, se vuoi fare lo splendido tornatene giù”. Così al fuorisede non resta che piangere al pensiero che nella sua città avrebbe potuto tranquillamente indossare maglietta a maniche corte e giacchetta leggera, giusto per zittire la mamma apprensiva. Può solo consolarsi con il calore del suo cuore, proveniente direttamente dalla sua Sicilia bedda.

Giusy Mantarro

È attivo il bando della 51esima edizione del Fotogramma d’Oro

Sono state rese note le date per l’edizione 2019 del Fotogramma d’Oro Short Film Festival. La rassegna di cinema internazionale si svolgerà a Messina dal 22 al 25 maggio 2019. Organizzata dalla Federazione nazionale Cinevideoautori (F.N.C) in collaborazione con l’associazione culturale Proposizione Scenica e il cinema Multisala Apollo e patrocinata dall’Università degli Studi di Messina, la manifestazione, giunta alla 51esima edizione, premia, tramite una giuria, i migliori cortometraggi che parteciperanno alle selezioni.

I film, a tema libero, devono avere una durata che, preferibilmente, non deve superare i 20 minuti. Possono essere realizzati in qualsiasi formato, anche attraverso l’ausilio di mezzi non convenzionali come smarthphone e tablet. Oltre ai primi tre Premi Ufficiali, la rassegna sceglierà il corto vincitore del Fotogramma d’Oro Trinakrios destinato al migliore corto girato in Sicilia e realizzato da autori nati o attivi nell’isola. Come nelle precedenti edizioni un Premio verrà assegnato anche dalla Giuria Campus, composta da studenti universitari. Altri Premi Speciali andranno alla migliore opera prima, al migliore inedito, al migliore attore/attrice, al migliore documentario e corto d’animazione.

Adolfo Celi e Sean Connery (Ansa)

Il fotogramma d’Oro è una storica kermesse, nata a Torino nel 1968, che per il quarto anno consecutivo si trasferisce sullo Stretto. Nell’ultima edizione, seguita anche dalla redazione di UniVersoMe (clicca qui per leggere l’articolo), ad apertura del festival è stata presentata una interessante mostra pittorica ispirata alle locandine storiche di alcuni film. Quest’anno la rassegna sarà dedicata ad Adolfo Celi, attore e regista messinese. Tra le interpretazioni che l’hanno reso celebre, spesso nel ruolo del “cattivo”, si possono ricordare quelle in Agente 007-Thunderball (1965) a fianco di Sean Connery e in Amici Miei (1975) di Mario Monicelli. Insieme a Vittorio Gassman è stato inoltre regista del film L’Alibi (1969).

E’ possibile presentare la candidatura della propria opera entro lunedì 4 febbraio. Per consultare il bando:

https://fotogrammadorodotcom.files.wordpress.com/2017/11/bando-2018-it.pdf

Eulalia Cambria