Moonlight: un film da non perdere

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Negli ultimi anni l’industria cinematografica e televisiva ha avuto come tema ricorrente la questione di genere e la comunità LGBT. Pochi film però sono stati così delicatamente incisivi e toccanti come “Moonlight”, film di apertura dei festival di Telluride e Roma di quest’anno, è stato proiettato anche al NYFF, al TIFF e al BFI di Londra.

Seconda opera di Berry Jenkins racconta la vita di un ragazzino di colore nei bassifondi di Miami e l’accettazione della sua sessualità.

Strutturato in tre capitoli, per tre fasce di età, denominati col nome con cui Chiron si fa chiamare o viene chiamato. Da piccolo Chiron attira l’attenzione di uno spacciatore (interpretato da Mahershala Ali il cui nome non vi dirà nulla ma che avete visto in molti film e tv series fra cui House of cards nei panni di Remy Danton, l’avvocato che diventa capo dello staff di Underwood) che , insieme alla moglie (la cantante Janelle Monae) lo accoglie in casa, e sopperisce alla figura paterna.

I bulli che lo perseguitano fin da piccolo lo faranno diventare un’ altra persona da adulto. O forse sarà una semplice corazza. Chiron è una persona taciturna, quasi muto, sensibilissimo e timido. Il mare dietro quello sguardo profondissimo. La spiaggia e il mare: i luoghi in cui è libero di essere se stesso.

E’ un film necessario per l’America dopo la strage di Orlando e per gli spettatori di tutto il mondo, perché racconta la battaglia interiore ed esteriore di un ragazzo di colore , sessualità e bullismo. Delicato e prorompente, non scade mai nel cliché. Jenkins ha una visione unica e mai vista fino ad ora , permette agli spettatori di riflettere sulle ferite visibili ed invisibili dell’altro, argomento che probabilmente non aveva mai sfiorato la loro mente.

Insomma è un’opera da non perdere.

Arianna De Arcangelis

Scusate il Disordine!

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La musica non la si prendeva. Mai!”

 

 

 

In “Scusate il disordine” Luciano Ligabue lascia di nuovo, dopo “Il rumore dei baci a vuoto”, senza parole. Una raccolta di racconti che lascia sempre incompleti e liberi di interpretare a modo proprio quello che succederà dopo. Una chiave di lettura: la musica. Presente in tutte le sue inclinazioni, con diversi amore verso di essa ma racchiusa tutta in uno spartito che ha proprio il sapore di Ligabue.

Ogni racconto si concentra sulla musica e sul rapporto che il personaggio ha con essa, fama o non fama, portandoci realtà che conosciamo ma spesso ignoriamo. Come Anchise che, nonostante la sua età, pur di continuare a suonare paga i componenti della sua band di tasca propria e si lega le bacchette alla mano a causa dell’artrosi; o un rapper che raggiunto il successo crede di potersi permettere una qualsiasi azione, probabilmente l’aspetto più raccapricciante dell’essere famosi.

Durante il primo pezzo ti hanno mitragliato di foto. Poi hai chiesto se adesso potevano mettere via macchinette e telefonini. Non c’è stato verso, hanno continuato a scattare ininterrottamente. Sei lì. È inevitabile. Per un attimo ti chiedi se non sanno, ma poi ti dici che sanno, sanno

Ligabue usa un linguaggio semplice e diretto, cambiando spesso registro a seconda del messaggio che vuole trasmettere. Consigliato a chi non ha paura di mostrare il disordine dei pensieri dentro di sé, le proprie emozioni e i propri dolori. A chi non nega il disordine della propria vita perché, per quanto si cerchi di regolarla, di dirigerla, non ci riusciamo e dobbiamo ammetterne l’impotenza. Non si può controllare.

Recentemente, il 24 e il 25 settembre, il ritorno live di Ligabue al Parco di Monza.

 

Serena Votano

Il pugno di ferro del potere: Messina e la Real Cittadella.

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È il 1678 quando, dopo quattro anni di sanguinosi scontri per terra e per mare, la rivolta della città di Messina contro il dominio spagnolo si chiude con una resa.

Abbandonata dagli alleati francesi a seguito della Pace di Nimega, la città viene lasciata al suo destino: è l’inizio di una vigorosa repressione che segna una cesura definitiva nella storia della città di Messina, chiudendo definitivamente il suo periodo d’oro durato quasi tre secoli, che l’aveva vista crescere e svilupparsi come la seconda maggiore città di Sicilia dopo Palermo. L’ira del governo spagnolo si abbatte sulla città, che viene dichiarata “morta civilmente” e privata di ogni diritto e privilegio fino ad allora ottenuto: il Senato, che fino a quel momento aveva rappresentato in maniera quasi autonoma gli interessi dell’aristocrazia cittadina, viene sciolto; il Palazzo Senatorio viene raso al suolo e le sue fondamenta cosparse di sale; al suo posto, viene fatta edificare una monumentale statua raffigurante il re di Spagna, Carlo II, col bronzo ottenuto dalla fusione delle campane del Duomo; la Zecca viene distrutta, vengono sciolti il Consolato del Mare e il Consolato della Seta, secolari organi di controllo mercantile; viene chiusa l’Università, che era stata fondata circa un secolo prima dai Gesuiti.

porta graziaA porre un sigillo definitivo sopra la rivolta ormai conclusa, qualche anno dopo, nel 1680, si intraprende la costruzione di una poderosa fortezza che viene posta a occupare uno spazio chiave della topografia della città, il braccio di San Ranieri, oggi noto come Zona Falcata. Una fortezza in più, in una città come Messina, da sempre in una posizione strategica prominente e che già all’epoca era difesa su tutti i fronti dai tre forti Gonzaga, Castellaccio e Matagrifone, potrebbe sembrare forse qualcosa di superfluo, ma, questa volta, i fini dietro la sua costruzione erano di tutt’altro tipo rispetto al passato.

Questa fortezza, la cui costruzione si protrasse nei primi decenni del ‘700, e che passò alla storia col nome di Real Cittadella, era infatti, nelle intenzioni, un autentico atto intimidatorio: la sua posizione di totale e perfetto controllo sulla cala del porto la rendeva adatta a far fuoco non solo contro eventuali nemici dal mare, ma anche e soprattutto contro la città stessa, se mai una altra volta avesse osato ribellarsi. Il progetto, affidato all’ingegnere militare fiammingo Karl von Grunenbergh, rappresentava un modello esemplare di “fortificazione alla moderna“, adatta a difendersi dagli assalti dell’artiglieria; si basava su una pianta a base pentagonale, con cinque bastioni che costituivano una sorta di stella a cinque punte, circondata da fossati che le avrebbero permesso, in caso di necessità, di isolarsi totalmente tanto dalla città quanto dal resto della penisola dimg_5893i San Ranieri (la cui punta era ed è tuttora difesa dal forte del SS. Salvatore), con cui era collegata per mezzo di ponti mobili.

Nonostante il notevole effetto deterrente, più volte i cannoni della Cittadella si trovarono a tuonare contro la città; ad esempio nel 1848, quando si sollevò contro la monarchia dei Borbone, le cannonate arrivarono a danneggiare un braccio della statua di Scilla, nella montorsoliana fontana del Nettuno; gli insorti, che riuscirono a prendere il Castellaccio, Forte Gonzaga, Matagrifone e il forte Real Basso, nulla poterono contro i 300 cannoni della Cittadella che permisero alle truppe borboniche di mantenere la città e a Ferdinando II di guadagnarsi il poco onorevole epiteto di “Re Bomba”. Anche nel 1861, con la conquista di Messina da parte delle truppe piemontesi, la Cittadella fu l’ultima a cadere, dopo una tanto strenua quanto inutile difesa, il 13 marzo 1861.

Oggi di questa fortezza enorme e possente non resta quasi nulla. Il suo aspetto, che conosciamo bene dalle numerose stampe e raffigurazioni storiche, è stato completamente stravolto a partire dagli anni ’20, con la costruzione della Stazione Marittima e la graduale trasformazione della Zona Falcata in cantiere navale e zona militare. Progresimg_5890sivamente abbandonato e parzialmente smantellato, il forte conserva oggi solo due dei cinque bastioni originali in uno stato di pressochè totale rovina. Il grande portale d’accesso principale, Porta Grazia, è stato però smontato nel 1961 e rimontato in piazza Casa Pia, dove oggi è possibile ammirarne la sontuosa decorazione in stile barocco, opera di Domenico Biundo, eloquente materializzazione dell’estetica del potere. Restano però, ancora nel sito originale, diverse delle strutture murarie e alcune vestigia di portali settecenteschi, abbandonati al degrado.

La rivalutazione della Zona Falcata è oggi un tema caldo nella politica cittadina: è dunque utopico immaginare che un giorno ciò che resta della Cittadella possa essere reso nuovamente fruibile al pubblico e valorizzato come patrimonio storico e artistico e che, magari, Porta Grazia possa tornare alla sua sede originale?

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Gran Camposanto: un gioiello dell’arte messinese

cimitero monumentaleIMG_5352Camposanto: un termine che solitamente richiama sentimenti di dispiacere e dolore, nonché il ricordo dei propri cari defunti. Eppure vi è il Gran Camposanto di Messina che, se visto con occhi giusti, può richiamare anche altro: stupore, curiosità, meraviglia. Non si tratta, infatti, di un semplice cimitero: le tombe non sono semplici tombe, ma mirabili sculture; le cappelle non sono semplici cappelle, ma espressioni di una pregiata architettura. Il Cimitero Monumentale messinese, costruito nella seconda metà dell’Ottocento, è, insomma, una vera e propria raccolta di opere d’arte a cielo aperto. E il suo valore s’ingigantisce nel momento in cui ci si rende conto che si tratta di una delle poche testimonianze rimaste, dopo il terremoto del 1908, delle abilità artistiche degli scultori e architetti nostrani, che hanno vissuto ed operato nel XIX secolo. Al suo interno troviamo, infatti, innumerevoli (ed uniche) testimonianze della statuaria e dell’architettura in stile prevalentemente neoclassico, stile molto in voga a Messina nella seconda metà dell’Ottocento.

Il Gran Camposanto sorge in una zona centrale della città; l’ingresso principale è posto su via Catania, di fronte a Villa Dante. Il bando per la sua costruzione fu emanato dal Comune nel 1854, in un periodo particolarmente difficile per la città che era flagellata da una terribile epidemia di colera. A vincere fu l’architetto messinese Leone Savoja. I lavori furono avviati, però, solo nel 1865 e si giunse all’inaugurazione nel 1872. Savoja concepì il cimitero come un enorme giardino, con ampi spazi verdi e tanti viali alberati lungo i quali sarebbero state disposte tombe e cappelle. Così, oltre che di arte, il cimitero è ricco anche di vegetazione, basti pensare al piazzale che si apre di fronte all’ingresso principale: piante, fiori e piccole siepi che vanno a disegnare lo stemma della città e poco sopra la scritta “Orate pro defuntibus”, il tutto al di sotto della maestosa cappella di San Basilio degli Azzurri; insomma, appena varcato l’ingresso, l’effetto scenografico è assicurato.

Da qui partono poi due ampi viali, che insieme al Famedio, ospitano i sepolcri dei messinesi illustri. Nel viale sinistro, che termina nei pressi del cimitero degli Inglesi, troviamo perlopiù le tombe di politici, patrioti e militari; mentre in quello destro, le tombe di letterati e giuristi.

In asse con l’ingresso centrale, in posizione rialzata, troviamo il Famedio. Questo termine è un neologismo coniato dalle parole latine “fama” (fama) e “aedes” (tempio), dunque letteralmente significa “tempio della fama”. Ed effettivamente il Famedio è l’edificio destinato alla sepoltura dei personaggi più illustri. Quello del nostro Gran Camposanto non fu mai completato a causa della morte di Savoja; per di più è stato danneggiato dal terremoto del 1908, che ha provocato in particolare il crollo della copertura, che non è mai stata ricostruita. Ad oggi, tale costruzione presenta una galleria sotterranea per la tumulazione dei morti, quasi a mo’ di catacomba, e la facciata caratterizzata da un imponente colonnato. Lungo questo colonnato troviamo i monumenti dedicati ad alcuni celebri cittadini messinesi.

Vi è in primis quello dedicato a Giuseppe La Farina, le cui ceneri vennero trasferite da Torino nel 1872, in occasione dell’inaugurazione del Camposanto. Questo monumento, costruito dallo scultore Gregorio Zappalà, è costituito da un basamento su cui poggia il sarcofago sormontato dal busto del patriota, scrittore e politico messinese; dinnanzi al sarcofago, l’Italia, raffigurata con le sembianze di una giovane e malinconica donna, porge al monumento un ramo di quercia, simbolo di fortezza d’animo.

 

Vi è poi il monumento dedicato a Felice Bisazza, realizzato da Giuseppe Russo e costituito da un basamento con al centro il ritratto del poeta messinese, su cui poggia il sarcofago sormontato da un’elegante allegoria femminile della poesia e affiancato da due splendidi angeli.

Da ricordare, infine, il monumento in memoria di Giuseppe Natoli, realizzato da Lio Gangeri e costituito da un sarcofago sormontato da un bellissimo angelo che regge in mano la torcia dei geni mortuari.

Ancora in asse con l’ingresso principale, sulla sommità della collina, troviamo il Cenobio. L’edificio, in perfetto stile neo-gotico, fu progettato da Giacomo Fiore. Inizialmente fu utilizzato per lo svolgimento delle funzioni religiose e come sede degli uffici del Cimitero, nonché come alloggio del cappellano- direttore, per poi cadere in parziale (e dopo totale) disuso in seguito al terremoto del 1908.

Nella spianata circostante il Cenobio si ergono numerosissimi monumenti, lapidi e sculture, quasi tutti realizzati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Sul Gran Camposanto ci sarebbe tanto altro ancora da dire: ci sarebbero da spendere parole su parole per ogni singola lapide, per ogni singola statua. Quel che è certo è che il nostro Gran Camposanto dovrebbe essere affollato non solo da chi va a portare un fiore ai propri cari, ma anche da cittadini, da curiosi e da turisti, come accade in altre città. Del resto il nostro è uno dei cimiteri più artistici d’Italia, secondo solo a quello di Genova. E in più ci permette di rivivere l’atmosfera romantica e neoclassica della Messina del pre-terremoto, occasione più unica che rara.

Francesca Giofrè

Ph: Giulia Greco

 

Giochi d’acqua e pietra: le fontane storiche messinesi, parte 2

La scorsa settimana avevamo iniziato il nostro giro virtuale per le strade di Messina sui sentieri dell’acqua e della pietra, alla ricerca di alcune fra le più belle delle tante fontane che adornavano questa città ricca di corsi d’acqua, in parte risparmiate da terremoti e distruzioni. Avevamo interrotto il nostro cammino davanti all’ingresso laterale di Palazzo Zanca, all’incrocio con la via Consolato del Mare, fermi ad ammirare una piccola fontana seicentesca dai cui bordi affiorano ai nostri occhi, velati dalle nebbie dei secoli, i nomi curiosamente familiari dei sei senatori che la fecero costruire: la Fontana Senatoria.

È da lì che riprendiamo il percorso, e salendo dalla via Consolato del Mare, costeggiamo i fianchi del grande palazzo municipale fino al quadrivio di piazza Antonello, e da lì proseguiamo nella stessa direzione, lato monte, lungo la via S.Agostino. Al termine di una breve salita, ci attende una rotonda, piazza Basicò, al centro della quale troneggia una bizzarra fontana ottagonale: è la Fontana Nuova, detta anche Fontana Falconieri, dal nome dello scultore, Carlo Falconieri, che, nel 1842, in occasione dei festeggiamenti per il diciottesimo centenario della consegna della Lettera di Maria ai Messinesi (che la pia tradizione pone appunto al 42 d.C.), la edificò per decorare piazza Ottagona, oggi Piazza Juvarra, vicino al torrente Trapani; fu trasferita qui nel secondo dopoguerra, precisamente nel 1957.  Dal centro della grande vasca marmorea si alza una stele che sorregge le due vasche superiori, sempre più piccole, sormontate in cima da volute e conchiglie marine; dai bordi della vasca, ad alternare, quattro basamenti accolgono le statue in ferro di altrettanti mostri marini, sotto le quali si trovano altre quattro vasche più piccole. Tutto è decorato da motivi floreali, riccioli, volute, foglie d’acanto; stilemi decorativi che sembrano precorrere l’eclettismo che predominerà poi nei primi del ‘900.

Torniamo adesso sui nostri passi e percorriamo, in discesa, la via S.Agostino, fino a raggiungere l’incrocio con la via XXIV Maggio, l’ex “via dei Monasteri”. Percorrendola diretti verso il torrente Boccetta incontreremo il complesso del Monte di Pietà, al cui interno, proprio al centro dell’architettonica scalinata, si trova una altra fontana storica, la fontana dell’Abbondanza, opera di Ignazio Buceti del 1742. Proseguendo sulla nostra strada, raggiungiamo finalmente l’incrocio col viale Boccetta, la grande arteria del traffico cittadino; e da lì, scendendo verso il mare, all’incrocio con la via Cavour, fa capolino, quasi dimenticata in mezzo al caos delle macchine e dei passanti, l’elegante Fontana della Pigna. Opera di autore e data ignota, ma per lo stile ascrivibile al pieno ‘700, nei secoli passati ornava verosimilmente il cortile del Seminario Arcivescovile che si trovava proprio in questa zona; il suo profilo aggraziato con le sue tre vasche mistilinee, che tanto ricordano le valve di una grande conchiglia, culmina in cima con la grossa pigna a cui deve il nome.

Lasciamo alle nostre spalle questa fontana per proseguire verso il lungomare cittadino, in quello che è forse uno dei suoi scorci più suggestivi sulla baia del porto con la zona falcata, la stele della Madonna della Lettera, il molo e la Calabria sullo sfondo, mentre di fronte al Palazzo del Governo, sede della Prefettura, la statua del Nettuno, fra Scilla e Cariddi, scruta l’orizzonte dall’alto della bella fontana del Montorsoli. Il nostro cammino prosegue lungo la Passeggiata a Mare fino a raggiungere una delle strutture più discusse della Messina contemporanea: la Fiera Campionaria. Sorta a partire dal 1938 nella sede in cui si trovava il Giardino a Mare Umberto I, un grande e pittoresco parco pubblico che, fra le tante cose, includeva anche due fontane, che tutt’ora si trovano all’interno degli spazi destinati alla fiera. Una, visibile anche dall’esterno della Fiera, è una fontana in ghisa di fattura artigianale, in stile neorinascimentale, fatta costruire appositamente a fine ‘800 per il giardino pubblico; l’altra, più antica e pregiata, fu fatta trasportare nel Giardino a Mare nel 1897, e proveniva originariamente dal chiostro del monastero annesso alla chiesa di san Gregorio, oggi interamente perduto. È datata 1739, e pare sia stata commissionata da una nobile badessa, suor Severina Ruffo, il cui stemma gentilizio, sorretto da un puttino, si trova infatti in cima alla vasca superiore della fontana, retta da un basamento su cui si appoggiano le code guizzanti di tre cavallucci marini. L’opera, come testimonia una scritta incisa sul bordo della vasca maggiore, fu realizzata da Ignazio Brugnani, un “enfant prodige” della scultura nella Messina del ‘700, che la realizzò all’età di 20 anni. Resterebbe da chiedersi come mai per una opera simile non sia ancora stata trovata una sede più adeguata; ma sono riflessioni che certamente non andrebbero fatte in questa sede…

 

Concludiamo infine il nostro cammino per la città e attraverso i secoli proseguendo sul Viale delle Libertà, oltre la Fiera, fino a raggiungere la cosiddetta “rotonda di San Francesco“, vicino agli sbarchi dei traghetti: proprio sotto la bizzarra facciata novecentesca della chiesa parrocchiale di santa Maria dell’Arco, una aiuola ospita pochi, informi resti, completamente irriconoscibili, di quella che anticamente doveva essere una fontana. È questo ciò che rimane della Fonte del Lauro, la più antica fontana di Messina, citata già in documenti risalenti al 1348; probabilmente ricostruita nel 1514 e poi rinnovata, secondo il La Farina, nel 1724, le sculture che la ornavano furono smontate nel 1934 e da allora non ne resta più notizia: molto verosimilmente furono trafugate, e chissà che oggi non facciano parte di qualche collezione privata…

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Il Movimento E’ Fermo, un romanzo d’Amore e Libertà (ma non troppo)

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Il movimento è fermo, così si intitola il nuovo e primo libro di Lo Stato Sociale. Questo gruppo di cantautori, di poeti moderni, è incisivo fin dall’inizio con un titolo creato su un ossimoro.

Zeno e Genio sono due amici e sono i protagonisti della storia, anzi, delle storie. Tra le pagine di questo romanzo troveremo, infatti, tante storie che, in un modo o nell’altro, si intrecciano tra di loro.

Partono tutte da questi due ragazzi: due 30enni che ancora non hanno ben capito cosa vogliono dalla vita, che sanno cosa vorrebbero fare ma, forse, quello che vorrebbero fare è qualcosa di troppo utopico.

Sono due amici assolutamente diversi, che si divertono ad avere dibattiti filosofici davanti un calice di vino o una birra, che seguono il calcio e cercano (o forse no, non lo sanno nemmeno loro) la ragazza della propria vita.

In una Bologna rossa, quasi anarchica, se ne vanno in giro con un motorino e un furgone un po’ vecchi e, se volete, potete andarvene in giro con loro e vedere se riescono a trovare quello che stanno cercando. Perché tra le strade di Bologna, in effetti, si può incontrare una ragazza bellissima e insicura: Eleonora. Eleonora che, come un fulmine a ciel sereno, cambia tutti i piani di Zeno.

Parallelamente, si svolge un’altra storia: la storia di Michelle, giovane giornalista che vuole cambiare il mondo. Ed il mondo si può cambiare, lei ci riesce… Ma a quale prezzo? E cosa c’entra Michelle con gli altri ragazzi, che si arrangiano come possono ogni giorno della loro vita? Lo scoprirete voi perché, credetemi, non vedrete l’ora di saperlo.

Come tutti i testi e le parole di Lo Stato Sociale, questo romanzo è un continuo di sorprese, un’altalena di parti lente e velocissime. Le pagine si sfogliano da sole, difficile darsi un freno. E, tra una imprecazione e l’altra, si becca la frase della vita: classico del loro stile, troverete dentro questo scritto delle perle che vi si infileranno nel cuore.

Che poi la cosa davvero importante è: il movimento è fermo?

Elena Anna Andronico

Un visionario a Messina: l’eclettismo liberty di Gino Coppedè

Ammettiamolo: al giorno d’oggi, gli scempi urbanistici degli ultimi quarant’anni e la cementificazione selvaggia che ha afflitto e in parte continua ad affliggere le nostre città, ci hanno lentamente abituati all’idea velenosa che l’edilizia urbana, sia essa pubblica o privata, debba, quasi per definizione, essere qualcosa di meramente funzionale, e, di conseguenza, privo di senso estetico. Anche per quanto riguarda le residenze dei ceti più benestanti ed abbienti, ci appare lontana e quasi estranea l’idea che una casa possa essere qualcosa in più di una semplice scatola in cui passare la vita nella maniera più comoda e confortevole possibile; che possa rappresentare qualcosa di bello, qualcosa in grado di conferire decoro e prestigio non solo al proprietario, ma all’intera città; in poche parole, che possa diventare oggetto d’arte.

Fortunatamente, le cose non sono sempre andate così, e la nostra città, Messina, ne costituisce ancora una preziosa testimonianza. Spostiamoci indietro nel tempo, nei primi del ‘900: quel tragico terremoto del 28 dicembre 1908 di cui così spesso ci sentite parlare nella nostra rubrica, ha appena trasformato una città d’arte, viva, florida e bella in un cumulo di macerie e fantasmi. Ma sotto le ceneri una fiamma cova ancora: è la tenacia dei suoi abitanti, che già dagli anni immediatamente successivi iniziano a prodigarsi, ciascuno nelle sue possibilità, per far risorgere Messina e restituirle, almeno in parte, il lustro e la grandezza degli anni passati.

É in questo contesto di fervore ricostruttivo che dobbiamo immaginarci l’arrivo a Messina di uno degli architetti più ammirati dell’epoca: Gino Coppedè.

Maestro e caposcuola dello stile eclettico liberty, il fiorentino Gino Coppedè è prima di tutto un artista profondamente consapevole della grande tradizione architettonica italiana e allo stesso tempo del gusto per la decorazione e per il bizzarro diffuso nella sua facoltosa committenza; quando arriva a Messina è già un architetto affermato e maturo, con alle spalle numerosi lavori in diverse città italiane e soprattutto a Genova; porta con se una cifra stilistica già inconfondibile, in cui combina a suo piacimento, in maniera capricciosa e surreale, il gusto per il neogotico fiabesco delle sue opere giovanili (come il genovese castello MacKenzie) con elementi stilistici moreschi, rinascimentali, manieristi, barocchi; Messina è dunque, per lui, una tabula rasa su cui mettere alla prova e consolidare, pur nelle restrizioni notevoli imposte dai rigorosi piani regolatori e dalle rigide norme antisismiche, quello stile onirico e visionario che poi esploderà, negli anni ’20, nel suo grande capolavoro della maturità, il complesso urbano detto appunto quartiere Coppedè, a Roma.

Sono tante le sue opere sparse qua e là nel tessuto urbano di Messina, e spesso non opportunamente valorizzate. Probabilmente la più esemplificativa del suo stile, nonché la meglio conservata, è Palazzo Tremi, detto anche Palazzo del Gallo, che si trova all’incrocio fra via Centonze e via Saffi, un po’ fuori dal centro storico: iniziato nel 1913 per il colonnello Vittorio Emanuele Tremi e la moglie, si fa subito notare per l’esuberante decorazione con il ricco fregio graffito con immagini di cavalieri, e i medaglioni con le teste di Medusa. Spostandoci in centro, troviamo il palazzo del marchese Loteta, sulla via Garibaldi, a sinistra della Prefettura, che mostra nell’impianto della facciata, con le sue bifore, la perfetta assimilazione del gotico quattrocentesco ravvivata qua e là da citazioni manieriste; e ancora, in posizione centralissima, in piazza Duomo all’angolo con la piazza Immacolata di Marmo troviamo il Palazzo Arena detto anche Palazzo dello Zodiaco, iniziato nel 1916, con il suo bel fregio e l’elegante portone in stile liberty. Dietro le absidi del duomo, all’incrocio fra la via Garibaldi e via Loggia dei Mercanti, nascoste fra le fronde degli alberi intravediamo le decorazioni, stavolta decisamente neobarocche, di palazzo Cerruti. Tornando sulla via Garibaldi, rispettivamente a destra e a sinistra dell’abside dell’Annunziata dei Catalani si fronteggiano altri due suoi palazzi, di cui il meglio mantenuto, palazzo Magaudda, all’angolo con la via Cesare Battisti, nonostante necessiti di restauri, rappresenta un vero compendio dello stile multiforme e citazionista del Coppedè.

Sarebbero troppi da descrivere uno ad uno gli altri palazzi, tutti costruiti negli anni ’10 e anni ’20 del secolo scorso e disseminati qua e là per le vie di Messina, da Palazzo Bonanno, sul lungomare di fronte alla Fiera Campionaria, a Palazzo dell’Ape sulla via I settembre; un motivo in più, fra i tanti, per passeggiare e perdersi fra le strade di una città che, nonostante le catastrofi storiche, ha ancora tanto da rivelare…

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Amerigo Vespucci: quando un veliero diventa la tua casa

IMG_0769Arrivai alla terra degli Antipodi, e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. Scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra Europa, dell’Asia o della stessa Africa.

 

Negli ultimi tre giorni, esattamente dall’1 giugno al 3 giugno, nel porto di Messina ha attraccato lo storico veliero ‘’Amerigo Vespucci’’. Con i suoi altissimi alberi e l’obiettiva imponenza, ha incuriosito varie centinaia di persone che hanno potuto visitarlo dalle 14:30 alle 17:30 e dalle 20:00 alle 21:30 nei giorni di mercoledì e giovedì appena trascorsi.

Il Vespucci è stato progettato nel 1930 dall’ingegnere Francesco Rotundi e fu varato, per la prima volta, il 22 febbraio 1931. Da quell’anno, a parte qualche periodo durante il quale sono stati fatti lavori di manutenzione, assolve il compito di nave-scuola per l’addestramento degli allievi ufficiali dei ruoli normali dell’Accademia Navale.

Quando mi sono recata al porto per dare un’occhiata sono rimasta incantata. A vederlo da fuori ricorda quasi una nave dei pirati, ti aspetteresti da un momento all’altro di veder spuntare Peter Pan e Capitan Uncino, insieme a Trilli, Wendy e tutti i Bambini Sperduti. Si porta dietro un’aura quasi magica, quando si è molto vicini non si può fare a meno di alzare la testa e sospirare un ‘’uao’’.

Ma com’è vivere e lavorare su una nave del genere, un veliero così antico ed elegante? Di certo non è tutto oro ciò che luccica, però c’è un certo orgoglio nel cuore dei ragazzi che, giorno e notte, vivono le loro vite tra quelle assi, sballottolate dal mare. Me ne parla F., un mio amico facente parte dell’equipaggio.

All’inizio non sono riuscita a trascinarlo con l’entusiasmo della mia curiosità, piuttosto ha iniziato descrivendomi tutti i difetti di quella che effettivamente, in questo momento, è casa sua. Divide una stanza con altre 59 persone, ci sono 4 bagni per tutti loro, privacy zero. E poi i classici orari da militare: sveglia alle 6 del mattino con stacco alle 23, turni faticosi, compiti difficili. A 22 anni passare dal lusso di casa propria (e non si parla prettamente di lusso materiale, quanto della mamma che ti accudisce in tutto e per tutto) a questo stile di vita non è di certo una passeggiata.

Mi ha raccontato molto del suo distacco da casa, dagli amici, dalla famiglia, ‘’come se stessi partendo per non tornare’’. Molti di noi sono studenti fuori sede, ma questo è sicuramente un distacco diverso. Devi imparare subito e in fretta a saper fare tutto e anche di più. Piano piano, però, il mio amico si è sciolto ed ha cominciato a raccontarmi la parte bella di questo suo viaggio.

Così, ha iniziato spiegandomi i vari ruoli che ognuno di loro ha, da quello più ‘’infame’’ a quello del comandante. Mi ha spiegato con quali figure lui si rapporta ogni giorno, dei suoi compiti e dei luoghi in cui li svolge. Ridendo mi ha detto di come sia incredibile vedere i nocchieri arrampicarsi sui pennoni degli alberi e aprire le vele (confermandomi che lui soffre di vertigini al solo pensiero).

Presi dall’entusiasmo siamo saliti insieme a visitare la nave che, se da fuori è meravigliosa, dentro è uno spettacolo. Ogni zona in cui mi portava aveva due storie da raccontare, una per i turisti e una per chi ci vive come lui. Mentre passeggiavo sui ponti, entravo nelle stanze e scendevo quelle scalette di ferro ripidissime e strettissime per passare da un reparto all’altro (da cui sono, ovviamente, scivolata, ed ho, altrettanto ovviamente, sbattuto la testa, con lui che invece saliva e scendeva con una naturalezza odiosa), lui era il mio cicerone, la mia guida turistica e, al contempo, un amico che si perdeva in aneddoti da ragazzino facendomi ridere con lui.

Dopo la prima settimana di vero disagio, di immobilizzazione data dal mal di mare e di fedeli sacchetti per il vomito, di ‘’ non posso vivere qua sopra sei mesi’’, semplicemente ti abitui. Ti godi il mare calmo e ti abitui al mare mosso tanto che diventa un dolce dondolio la notte, tanto da conciliare il sonno. Ti abitui al fatto che il cellulare non prende, ti scordi di averlo e non ne senti più il bisogno. Ti abitui a stare con i tuoi pensieri, con molti pochi svaghi, ma un ponte meraviglioso dove, la notte, puoi fumarti una sigaretta e vedere le stelle come non le hai mai viste, libere dalla luce artificiale. Mi ha anche confermato il fatto che il ‘’mal di terra’’ esiste davvero, una volta sceso barcolli per un momento.

È una vita abbastanza peculiare ma, per una civile come me, ha un fascino particolare. Più lui raccontava, più io trovavo altre domande da porgli. Mi ha confessato che spesso si sente frustato ma quando racconta la sua storia e poi si gira e vede il Vespucci illuminato, di notte, dal tricolore, non può non sentirsi un italiano fiero di quello che fa, scordandosi della stanchezza.

Alla fine della nostra lunga chiacchierata, una domanda mi premeva più di tutte: se dovessi tornare indietro, sceglieresti lo stesso di fare questa esperienza?

La risposta è stata ”sì”.

Elena Anna Andronico

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

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Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato

Santa Maria degli Alemanni: un angolo di gotico continentale, nel cuore del Mediterraneo

IMG_2932Più volte, nel corso del Medio Evo, le acque del Mare Nostrum sono state solcate da navi cariche di armati, dirette alla volta del Medio Oriente, in Terrasanta, a combattere quelle che sono passate alla Storia come le guerre di religione per antonomasia, le Crociate. Centinaia di migliaia di cavalieri, guidati dai principali monarchi dell’epoca, si imbarcano sotto il segno della Croce per liberare i luoghi santi del Cristianesimo dai musulmani; e, fra le loro schiere, si distingue una nuova tipologia di combattente, a metà fra il monaco e il guerriero, una figura in grado di conciliare il sanguinoso mestiere delle armi con i voti ecclesiastici e la devozione religiosa del clero. Nasce così l’epopea degli Ordini  monastico-cavallereschi: i Templari, i più celebri nell’immaginario collettivo; gli Ospitalieri, o Ordine di san Giovanni; e i Cavalieri dell’Ordine di santa Maria di Gerusalemme, meglio noto come Ordine Teutonico, in quanto composto esclusivamente di confratelli di origine tedesca.

Proprio questi ultimi, i Teutonici, ebbero modo, nel 1220, di incrociare la loro storia con quella della città di Messina, importante centro politico e militare del Mediterraneo da cui già nel 1190 erano partite le navi crociate guidate da Riccardo Cuor di Leone. In quell’anno infatti, all’allora Gran Maestro Hermann von Salza fu concesso di fondare un priorato dell’Ordine Teutonico nella città di Messina, per volere dell’imperatore Federico II di Svevia; proprio quel Federico II che, nel 1229, senza che venisse sparsa una sola goccia di sangue, riuscì a ottenere per i Cristiani importanti conquiste territoriali fra cui Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, grazie alle trattative concluse con il sultano Al-Malik al-Kamil. Ma questa, naturalmente, è una altra storia…

Torniamo a Messina invece, e al priorato teutonico, perché proprio alla presenza dell’Ordine Teutonico si deve la costruzione della maestosa chiesa di santa Maria, detta “degli Alemanni”, cioè appunto “dei tedeschi”, perché una volta annessa al quartier generale dell’Ordine. Questa poderosa struttura, poi abbandonata dallo stesso Ordine sul finire del 1400, passata sotto il controllo della Confraternita dei Rossi, fu poi ampiamente danneggiata prima dalla caduta di un fulmine, nei primi del ‘600, e poi dal terremoto del 1783, a seguito del quale fu dichiarata inagibile e trasformata in un magazzino; in compenso, il terremoto del 1908 ne lasciò quasi indenni le rovine, consentendo quei lavori di ristrutturazione e consolidamento che ci permettono oggi di ammirarne i resti, nella via omonima, in prossimità dell’incrocio con la via Garibaldi.

IMG_2934La chiesa, oggi non più adibita al culto, conserva ancora la struttura originale a tre navate e tre absidi,benché la facciata anteriore, già arretrata a seguito del terremoto del 1783, sia oggi totalmente perduta, fatta eccezione per i resti del portale principale, custoditi al Museo Regionale. Resta invece in sede il portale laterale, i cui stipiti offrono un pregevole esempio di decorazione in stile gotico; l’arco, ornato dalle figure di angeli e profeti, culmina a sesto acuto in una figura di Cristo in trono dai tratti ancora severamente romanici, ed è sovrastato da una enigmatica mano benedicente.

 

L’interno, benché in buona parte spoglio e disadorno, si rivela nei lineamenti maestosi e possenti perfettamente in linea con lo stile gotico continentale, tipico del periodo, pur mancando in parte quell’ardito slancio in verticale che rende tutt’ora famose le grandi cattedrali francesi e tedesche dell’epoca. Una poderosa foresta sacra di pilastri a più colonne si presenta agli occhi del visitatore; le navate sono delimitate dagli inconfondibili archi a sesto acuto; dall’alto delle colonne, sui capitelli, spesso diversi fra loro, fanno capolino qua e là, in mezzo all’intricata decorazione floreale, volti umani o antropomorfi. Il piccolo cortile esterno conserva invece, oltre ad alcuni capitelli di epoche diverse, anche un piccolo frammento murario proveniente forse dall’ospedale annesso alla chiesa: ospedale in cui pare abbia trovato rifugio e cura, reduce da Lepanto e ferito da un colpo d’archibugio, Miguel de Cervantes Saavedra, il “papà” di Don Chisciotte.

 

Benché ridotto in rovine, il complesso di Santa Maria degli Alemanni conserva ancora tutto il fascino e il mistero delle grandi cattedrali gotiche e rappresenta un esempio, più unico che raro, di gotico duecentesco in Sicilia: come se i Cavalieri Teutonici avessero voluto ricreare, in mezzo al caldo e al sole del Mediterraneo, un piccolo angolo di Nord Europa.

Gianpaolo Basile

Foto: Giulia Greco