MOvember… Fratelli di baffi!

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Novembre è quasi finito e con esso si conclude il MOvember, una delle iniziative più importanti dell’anno, diventata sempre più famosa e supportata da testimonial popolari.

Il nome di questo progetto, deriva dalla fusione di due parole inglesi: “moustaches” (baffi) e “November”, nato nel 2003 da un gruppo di quattro amici australiani e che, da allora, è diventato famoso in tutto il mondo.

Grazie al movember, proprio durante questo mese quasi concluso, tutti coloro i quali aderiscono all’iniziativa, i cosiddetti “Mo-bro” e “Mo-sista” (cioè “fratelli e sorelle di baffi”) s’impegnano a raccogliere fondi e a sensibilizzare la popolazione su patologie che riguardano la sfera sessuale maschile, sopratutto il carcinoma della prostata.

Si tratta dunque di un progetto che nasce con l’obiettivo di diminuire il numero di decessi a causa di queste patologie piuttosto diffuse nel mondo maschile, e si propone di far ciò spingendo uomini di tutte le età a prendere parte al movimento / evento, così da favorire la diagnosi precoce del cancro alla prostata e ai testicoli, aumentare l’efficacia dei trattamenti, suggerire dei check-up annuali ed incoraggiare gli uomini ad adottare uno stile di vita più salutare.

Partecipare al Movember è semplicissimo: basta radersi barba o baffi il 1° di novembre; poi registrarsi sul sito ufficiale e personalizzare la pagina di “Mo space” postando una foto al giorno per vedere l’evolversi della crescita dei baffi e poi, a seguire, parlare della salute maschile e diventare una specie di pubblicità ambulante per l’iniziativa.

Questo evento, non solo ha trovato sostenitori tra medici e studenti che si propongono d’informare sempre più la popolazione circa questi temi, con l’organizzazione di banchetti informativi e raccolta fondi per la ricerca; ma vanta tra i suoi fautori anche testimonial e sponsorizzazioni di marchi famosissimi che si occupano di prodotti per uomini.

Da una semplice idea di un piccolo gruppo di amici è nato così un movimento che in poco tempo ha raggiunto più parti del mondo e che, come dice il suo motto, “cambia il volto della salute degli uomini!” in maniera semplice ed accessibile a tutti; non a caso infatti il Global Journal ha inserito nel 2012 il Movember tra le cento più importanti organizzazioni non governative del mondo.

Morgana Casella

Umberto Veronesi: cosa l’umanità ha ereditato da lui

© Roberto Monaldo/LaPresse 22-02-2008 Pd: tra i candidati Umberto Veronesi Nella foto: Umberto Veronesi ¤foto di repertorio¤
© Roberto Monaldo/LaPresse
22-02-2008
Pd: tra i candidati Umberto Veronesi
Nella foto: Umberto Veronesi
¤foto di repertorio¤

L’importante non è sapere, ma cercare.

Sconfiggere l’ignoranza sia il vostro impegno primario, perché l’ignoranza non ci dà alcun diritto.

Continuate a cercare fino alla fine, con la consapevolezza che non potete fare a meno del bene e della vita.

 

 

 

 

L’8 novembre 2016 è venuto a mancare un grande medico e scienziato: Umberto Veronesi. Quel giorno, quindi, non verrà ricordato solo per l’ascesa politica di Donald Trump che è stato eletto 45° presidente degli Stati Uniti d’America, ma anche per la perdita di una delle menti più acute della storia italiana.

Umberto Veronesi non era solo un medico e un ricercatore: era un vero e proprio pioniere. Le sue idee, dalle più piccole alle più grandi, hanno contribuito a cambiare il mondo scientifico e non solo.

Per quanto alcuni dei suoi pensieri possano non essere condivisi da alcuni di noi, non vi è alcun dubbio sul fatto che ha lasciato a tutta l’umanità una grande eredità.

Cosa ha cambiato Veronesi?

Umberto Veronesi nasce come oncologo. Lo studioso si è occupato per decenni della ricerca sul cancro, soprattutto per quanto riguarda il carcinoma mammario. Il carcinoma mammario è tra le prime cause di morte (spesso prematura) della donna. Esso può svilupparsi a partire dalle cellule di due strutture della mammella: o dalle cellule dei dotti galattofori o dalle cellule dei lobuli mammari. Parleremo, quindi, di carcinoma duttale o carcinoma lobulare.

Questo tumore, a prescindere dalle sue caratteristiche anatomo-patologhe, veniva eradicato attraverso una tecnica chirurgica detta mastectomia radicale, ovvero l’asportazione dell’intera mammella (o di ambedue). Tale intervento fu ‘’collaudato’’ nel 1894 dal chirurgo William Halsted e viene tutt’ora praticato. All’epoca era l’unica tecnica conosciuta: tutte le donne, quindi, anche quelle con tumori poco invasive, ‘’subivano’’ questa manovra del tutto radicale che lascia senza la mammella malata e che, chiaramente, ha un grave peso psicologico.

Nel 1969, però, il maestro Veronesi espose, a Ginevra, il rivoluzionario intervento che, in alcuni casi di tumore non invasivo può essere utilizzato: la quadrantectomia. Tale tecnica ha lo scopo di asportare solo il quadrante malato della mammella, risparmiando la restante parte dell’organo e preservando la femminilità della paziente.

Ma non solo: grazie a lui ora conosciamo la regola del linfonodo sentinella. Se esso è stato metastatizzato allora anche gli altri lo saranno e si procederà con la linfoadenectomia, se invece non è metastatizzato non c’è bisogno di procedere.

Ancora, Veronesi, rivoluzionò ed evolse il suo stesso intervento: infatti perfezionò la quadrantectomia con l’introduzione del ‘’nipple- sparing’’. La ‘’nipple-sparing’’ è un ulteriore modifica del professore che consente di salvaguardare il capezzolo.

In ultimo, ma non per importanza, la radioterapia intraoperatoria: durante i suoi interventi vide come attuare in itinere la radioterapia sul tessuto malato non solo era più efficace ma, in alcuni casi, risparmia anche un lungo e arduo percorso alla paziente.

Grazie a tutto questo è stato definito il paladino delle donne, nonché ‘’Donna ad Honorem’’ da parte di varie associazioni femministe. Ma non se n’è mai sentito offeso, definendo lui stesso il genere femminile come ‘’superiore in qualsiasi campo al genere maschile’’.

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A parte la sua lotta contro il cancro, lo abbiamo visto esporsi nei riguardi di due argomenti dal grande peso sociale: l’aborto e l’eutanasia.

Seppur dichiarandosi contro l’aborto, ha sempre spronato le ragazze e le donne a non praticare aborti nascosti per vergogna: se è una decisione di cui non si può fare a meno che venga praticata da specialisti competenti. Si è sempre, infatti, manifestato contro le ‘’mammane’’ e i metodi fai da te.

Sostenitore dell’eutanasia, inoltre, si espose in un suo libro cominciando a rompere il tabù italiano nei riguardi di tale argomento.

Certo, la sua carriera ed etica, possiamo dire girassero solo intorno a una cosa: il benessere del paziente.

Elena Anna Andronico

Io Clown

13388990_10209453185316367_1315490325_oIndossare il camice colorato, voleva dire spogliarsi delle ansie giornaliere, della rabbia, della tristezza che annebbia il sorriso.
Quando lo avevo addosso, tutti quei colori, quei disegni e quei bottoni smisurati, sembravano alleviare ogni sensazione negativa: in quel momento ero solo un buffo clown con la faccia pitturata ed il naso rosso.
Un giorno che pioveva, non sembrava potessi trovare nel cielo un scorcio di raggio luminoso, neppure con addosso quel grembiule magico.
Eppure il sole c’era.
Non nel cielo, ma nella stanza di una bambina che rideva, rideva da matti.
La sua risata era sole nel buio.
Aveva tre anni, i capelli biondi e gli occhi piccolini; il suo sorriso, che sarà stato bellissimo come la sua risata, era nascosto da una mascherina che la aiutava a respirare.
Lei non poteva alzarsi, si sforzava per ridere e faceva fatica a parlare.
Lei non poteva correre ne giocare come gli altri bambini.
Eppure rideva: rideva per un palloncino scoppiato, per un coccodrillo di peluche che parlava, per dei versi di animali interpretati male.

Lei rideva, in ospedale, a tre anni.
Lei rideva e io vivevo.

Jessica Cardullo

Dormo o son desto?

sveglia

“Dormo o son desto?”, un recente studio ci spiega cosa succede al nostro cervello quando siamo lontani dal nostro letto.

“Se cambi cuscino, non riesci a dormire”, con questo detto Giapponese, Yuka Sasaki commenta i risultati dell’ultimo studio datato Aprile 2016, portato avanti insieme ad altri collaboratori della Brown University di Providence. Scientificamente noto come “effetto prima-notte” è quel fenomeno che ci porta a riposare male la prima sera trascorsa in un letto diverso da quello della nostra stanza.

Sarà capitato più o meno a tutti, dopo una notte trascorsa nel letto di una camera di hotel o di casa di un amico, di risvegliarsi un po’ intontiti e alquanto stanchi. L’obiettivo di questo team di scienziati era proprio quello di individuarne le cause e perciò hanno deciso di sottoporre 35 volontari a un esperimento consistente nel far trascorrere loro delle notti in laboratorio, al fine di monitorarne l’attività cerebrale. Tramite l’utilizzo di tecniche avanzate di elettro-magneto encelofalografia e di risonanza magnetica ad alta risoluzione, effettivamente qualcosa è venuto a galla. Durante tutte le ripetizioni dell’esperimento, infatti, si è apprezzata una continua attivazione di un particolare network dell’emisfero sinistro, nel corso della prima fase del sonno profondo, definito a “onde lente” e non riscontrabile invece nell’emisfero controlaterale. I ricercatori hanno inoltre evidenziato una maggiore responsività dell’emisfero sinistro a stimoli uditivi esterni rispetto al destro.

Dallo studio non è emersa una sostanziale asimmetria di attività cerebrale nelle altre fasi del sonno; ma soprattutto lo stesso network neuronale, che la prima notte era apparso significativamente più attivo nell’emisfero sinistro, a partire dalla seconda notte passata in laboratorio da parte dei volontari, non presentava alcuna differenza fra le due controparti. Il lavoro lascia ampi margini di ricerca, anche perché le analisi sono state effettuate considerando soltanto una fase del sonno e nei confronti di soli quattro networks cerebrali. Non è quindi da escludere che l’emisfero sinistro possa lavorare in alternanza con il destro, così come che altri circuiti nervosi siano particolarmente attivi durante la notte.

Questa scoperta, tuttavia, deve lasciarci a bocca aperta fino a un certo punto. Non siamo gli unici in natura a “vigilare” durante le ore notturne: infatti, il “Sonno Uniemisferico Alternato”, così è definita questa peculiare capacità cerebrale, anche se con le dovute differenze,  è già stata evidenziata in altre specie, delfini e balene innanzitutto, oltre che in alcuni volatili.

Quello evidenziato dalla Brown University potrebbe, quindi, essere un residuo dei tanti meccanismi di adattamento della specie che la natura ha messo in atto durante l’evoluzione. Il processo descritto, operato da queste specie, ha il fine di proteggere, di tenere in allerta l’animale anche durante le ore notturne, pronto a difendersi dall’assalto di eventuali predatori o di pericoli di varia natura. Il nostro organismo fa più o meno la stessa cosa: riconosce come potenziale pericolo una stanza, un letto o anche un cuscino diverso dal nostro, con l’obiettivo di prepararci a situazioni poco piacevoli ma rappresentando, soprattutto per chi viaggia spesso per lavoro, un disturbo a volte anche non poco fastidioso.

“Ma il cervello umano è molto flessibile e si adatta facilmente” ha aggiunto Yuka Sasaki, c’è  da contarci, quindi, che l’evoluzione, in un futuro non tanto lontano, possa risparmiarci questo spiacevole “effetto prima-notte”.

 

                                                                                                                                                   Andrea Visalli

Civil War, tutto il dolore per un’amicizia distrutta… e Spiderman

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Succede, spesso, che due persone abbiano un incomprensione. Si può litigare, urlare, allontanarsi e nei casi più estremi arrivare alle mani. I motivi per litigare possono essere molteplici: cause esterne alla coppia, cause interne, incomprensioni o fraintendimenti.  Se sei un supereroe con la capacità di distruggere tutto e litighi con un altro supereroe che ha la stessa capacità, beh forse non finirà proprio bene. Sicuramente, sia per quanto riguarda i supereroi che per quanto riguarda le persone normali, tornare ad essere “amici come prima” è dura. Una cosa è sicura: da un litigio si può o uscirne più forti o non uscirne mai.

Captain America: Civil War si presenta proprio così. Un grosso litigio, una grossa incomprensione che non si sa come andrà a finire. Il film, che dovrebbe rappresentare il terzo della saga di Captain America, risulta essere un sequel dei film degli Avengers. I protagonisti assoluti sono Captain America e Iron Man ma il team degli Avengers è quasi al completo. Questo perché non ci troviamo semplicemente all’ennesimo sequel, ma al primo film che inaugura ufficialmente la terza fase cinematografica del Marvel Cinematic Universe. Infatti gli studios, di proprietà della Disney, ci hanno abituato nel corso degli anni a seguire con ansia tutti i film in uscita in quanto tutti collegati tra loro. Una grande scelta di marketing.

Proprio a proposito del marketing di casa Marvel quello che ha preceduto il film parlava piuttosto chiaro: #teamcap o #teamironman, tu da che parte stai? L’intento è stato subito quello di far schierare il pubblico. Sì, proprio come se tu fossi l’amico di una coppia che sta per disfarsi e sei tenuto a scegliere da che parte stare. Questa idea è stata assolutamente vincente facendo scatenare sul web le due fazioni contro, come se si stesse veramente combattendo una guerra civile. Però, fra tutte le guerre, questo tipo di contesa è quella che lascia di più l’amaro in bocca. Siamo sempre stati abituati a vedere i film con i supereroi che combattono il male. Nella guerra civile il male è difficile da identificare, quasi non c’è. Quando vedi due amici che lottano fino alla morte quello che desideri con tutto il cuore è che smettano di lottare e che torni tutto come prima. Ma non torna mai tutto come prima. Ripeto: ottima scelta di marketing, Marvel. Ci troviamo, così, inermi davanti a questa lotta. Le fazioni si sfaldano. Chi tifava per Iron Man o chi tifava per Captain America non ha più importanza: ci importa che tutto finisca.

Non si rimane indifferenti ad un film del genere. Rimaniamo travolti da una trama che prende così una svolta inaspettata e grazie anche al consolidamento e all’introduzione di nuovi personaggi. Molto convincente Black Panther che nel corso della pellicola sembra essere l’ago della bilancia della situazione. Per non parlare dell’entrata in scena mozzafiato. Però c’è da dire che tutti gli occhi erano puntati sul nuovo Spider-Man. Tom Holland, che interpreta il “bimbo-ragno”, si è dimostrato perfetto per la parte. In tutte le scene in cui è presente riesce a strappare un sorriso. È divertentissimo. Bello (magari da approfondire nel film di Spiderman che uscirà nel 2017) il rapporto con Tony Stark che diventa per lui come una figura paterna. Il loro primo incontro ci dà da subito l’impressione che con loro due non ci annoieremo facilmente anche grazie al grande feeling che sembrano avere Tom Holland e Robert Downey Jr.

Per i fan Marvel questo film rappresenta una spaccatura non da poco. I film che seguiranno saranno sicuramente molto interessanti. Ancora una volta la Marvel è riuscita a darci un valido motivo per continuare a guardare i suoi prodotti. Questo rende MOLTO felici loro ma anche a noi non dispiace.

Nicola Ripepi

Derek, Meredith e Grey’s Anatomy: perché metterlo in play

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Ci sono serie tv e serie tv: drammatiche, ironiche, comiche, sanguinolente; corte, lunghe, che durano dai 20 ai 120 minuti.

Ma una serie tv, per tenerti davvero incollato alla sedia e farti perdere il senso del tempo e dello spazio, deve avere una trama coinvolgente e sconvolgente, una trama che ti lasci sempre con il fiato sospeso, almeno quel tanto che basta per dirti: ’’ok, dormirò in un altro momento’’ e farti così rimettere play sul tuo sito di streaming.

Una di queste serie è Grey’s Anatomy. Al bando gli scettici che dicono che è solo un’enorme cavolata, più lunga di Beautiful e troppo distante dalla realtà: quando inizi a guardarla non puoi più farne a meno. Io, da fan numero uno, sono riuscita a convertire un sacco di persone e a farle diventare tossicodipendenti da Grey’s Anatomy.

Grey’s Anatomy è una serie televisiva statunitense trasmessa dal 2005. È un medical drama incentrato sulla vita della dottoressa Meredith Grey, una tirocinante di chirurgia nell’immaginario Seattle Grace Hospital di Seattle. Il titolo di Grey’s Anatomy gioca sull’omofonia fra il cognome della protagonista, Meredith Grey, e Henry Gray, autore del celebre manuale medico di anatomia Gray’s Anatomy (Anatomia del Gray). Seattle Grace (poi Seattle Grace Mercy West e, ulteriormente, Grey Sloan Memorial Hospital) è invece il nome dell’ospedale nel quale si svolge la serie. I titoli dei singoli episodi sono spesso presi da una o più canzoni.

Tra personaggi che vanno e vengono, che nascono e muoiono, Grey’s Anatomy riesce a lasciare veramente un segno. Durante la progressione della trama, che si svolge in 12 stagioni per un totale di 268 episodi, ognuno di noi può trovare una citazione, una situazione, un momento in cui riconoscersi. Ed io, da studentessa in Medicina, posso dire che (a parte qualche caso assolutamente irreale) è anche molto vicina alla realtà medica. I gesti, i protocolli, il lessico, infatti, sono assolutamente presi dal campo.

Tutti conosciamo Meredith e Derek, sappiamo la loro storia d’amore e chi come me è da 11 anni che sta appresso a loro e ci ha perso cuore, lacrime e vita, sa che non sono solo ‘’Meredith e Derek’’: sono due personaggi pieni di umanità, che fanno e dicono cose che tutti noi abbiamo fatto e detto, anche e soprattutto le peggiori. È questo il segno che contraddistingue tutti i personaggi della serie, dal più importante al meno: l’umanità. Sono esseri umani a 360°, con i difetti e i pregi, con l’egoismo, i sogni, la cattiveria, la gentilezza, la bontà, la forza e la debolezza, le paure e il coraggio.

Ed, a parte l’intramontabile ‘’prendi me, scegli me, ama me’’, il sesso e la tequila, ci vuole poco a capire che Shonda Rimes (l’autrice) voleva andare oltre a tutto questo e insegnare ad accettare argomenti che ancora sono, per la società, tabù.

È una serie tv che vuole insegnare la speranza, il rischio e la speranza che può derivare dal rischio. Che non tutto è come sembra, che una coppia perfetta può spesso scoppiare ma questo non esclude il fatto che si può andare realmente avanti, a qualsiasi età. Che puoi sempre conoscere una persona, che essa sia maschio o femmina.

Vuole abbattere i muri dell’omofobia. Tra i personaggi principali abbiamo una coppia lesbica costituita da una donna omosessuale ed una bisessuale, vuole far capire alle persone che non c’è niente di strano nella transizione, che i transgender sono persone come noi in corpi nei quali stanno troppo stretti.

Vuole insegnare che non esistono barriere di tipo religioso, che la scienza e la religione possono coesistere e convivere, che essere ateo non è sinonimo di essere vuoto. Insegna il perdono, l’amicizia, la lealtà, la sana competizione e quella che ti porta a impazzire perché parte da basi sbagliate.

Tra gli argomenti principali troviamo anche temi molto attuali quali l’adozione e l’inseminazione artificiale. Viene anche approfondito l’argomento ‘’psicoterapia’’, cercando di trasmettere il messaggio che prendere consapevolezza dei propri problemi e affrontarli con qualcuno che può realmente aiutarti non è una vergogna ma un segno di coraggio.

E che, a prescindere da tutto, negli ospedali si fa tanto sesso e ci sono davvero tantissimi fighi e fighe.

Elena Anna Andronico

Chi la dura la vince: la Nostra lotta contro la leucemia

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Come spesso succede, a discapito di quello che può sembrare, la ricerca italiana fa grandi progressi nell’ambito medico.

Questa volta parliamo di Leucemia, malattia che ha purtroppo un ruolo protagonista tra le patologie tumorali, soprattutto per quanto concerne l’ambito pediatrico. Questa patologia è caratterizzata da un’improvvisa proliferazione midollare che, però, non produce cellule della linea bianca (i globuli bianchi) mature ma immature. Queste cellule rimanendo in questo stato di immaturità non sono, chiaramente, funzionanti.

Esistono vari tipi di cellule bianche: tra queste un team di ricercatori del San Raffaele ne ha identificate alcune particolari facenti parte dei linfociti e chiamate ‘’memory stem T’’, che permangono a lungo tempo nell’organismo. Sono state quindi modificate geneticamente e programmate per uccidere selettivamente le cellule tumorali, consentendo inoltre, visto la lunga permanenza, la protezione del paziente stesso.

Tali risultati, a detta dello stesso Times, sono rivoluzionari. Era il 2002 quando l’ematologa Chiara Bonini, insieme al suo team, ha scelto 10 pazienti affetti da leucemia (precedentemente sottoposti a trapianto midollare) ed ha iniziato questo studio. I presupposti, per lei, erano ovvi: se già i linfociti sono programmati per eliminare le cellule tumorali, bisogna trovare un modo per potenziarne gli effetti e per renderli a lungo termine. La Bonini paragona questi linfociti modificati a dei ‘’soldati scelti’’, che una volta infusi ai pazienti non solo essi li guariscono, ma danno una protezione duratura anche contro possibili recidive, una sorta di vaccino.

Ovviamente non è stato tutto ‘’cotto e mangiato’’: ci sono voluti 12 anni e tanti fallimenti, ma finalmente sono arrivati i primi risultati positivi che hanno dimostrato la completa guarigione. Lo studio è stato presentato durante l’annuale conferenza dell’American Association for the advancement of science, a Washington ed ha già fatto il giro del mondo. Un altro po’ di pazienza, quindi, per i nostri pazienti: si attendono i finanziamenti per poter far diventare la ricerca da sperimentale a effettiva.

Ancora una volta, quindi, possiamo dire di essere orgogliosi delle nostre menti tutte italiane: chi la dura la vince.

Elena Anna Andronico

Io, Dr Robot. Resisterà il medico alla telemedicina?

luomo-vitruviano330 dicembre 2015, Ospedale San Raffaele-Turro di Milano. Il primario di Urologia Franco Gaboardi, in un intervento di prostatectomia radicale robotica, rimuove un tumore alla prostata ad un uomo di 56 anni . “I vantaggi di questa tecnica, al di là del fattore estetico, riguardano soprattutto un’importante riduzione del dolore post-operatorio e una più rapida dimissione del paziente”, spiega l’ospedale milanese. L’ingegneria da sempre supporta lo sviluppo e il progresso del genere umano. Oggi il connubio tra medicina e robotica si dimostra sempre di più una formula vincente in tutto il mondo. Ma possiamo davvero parlare di rivoluzione, di ciò che qualcuno chiama Medicina 2.0?

La medicina è la scienza che si occupa dello studio, la prevenzione e la cura delle malattie umane. Questa trova la sua applicazione nella figura del medico, il quale la esercita al meglio delle sue conoscenze e abilità. Si basa sul contatto umano per creare un rapporto medico-paziente, un rapporto fondato sulla fiducia reciproca e sull’empatia. Non sappiamo quando effettivamente essa è nata. Il più antico testo sulla medicina risale al II millennio a.C., scritto dal babilonese Esagil-kin-apli. La robotica, invece, è una disciplina dell’ingegneria che si occupa dello studio e dello sviluppo di macchinari che riproducano, e perché no sostituiscano, il lavoro umano. Il primo robot funzionante fu costruito nel 1738, anche se il primo progetto documentato risale al 1495 ad opera di Leonardo Da Vinci. Due rami della scienza non prettamente paralleli che ad un certo punto però si sono incontrati.

Si chiama “Da Vinci”, in onore appunto dello scienziato italiano, il primo robot usato per scopi chirurgici. Agli inizi degli anni ’60 erano poco più di una decina i prototipi in circolo e non era pensabile che potessero essere adoperati nel campo della medicina e della chirurgia. Fu l’Ing. Robert Paul a progettare il “Da Vinci” e il Dott. William Bargar, del “Sutter Hospital” di Sacramento, a sviluppare le prime sperimentazioni prima su cavie e poi sull’uomo. Così, il primo grande traguardo: nel 1993 la FDA (Food and Drug Administration) degli Stati Uniti ha concesso l’autorizzazione ad operare chirurgicamente con un robot per l’applicazione semiautomatica di una protesi d’anca. Oggi abbiamo il ‘’Sistema Da Vinci’’, un vero e proprio sistema di chirurgia robotica che si occupa di prostata, valvole cardiache e procedure ginecologiche, proprio quello usato a Milano dal Prof. Gaboardi .Quindi davvero i robot potranno un giorno sostituire le mani chirurgiche o, comunque, assisterle ed aiutarle a 360°. È un moto continuo: ormai si parla anche di telechirurgia e telemedicina.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di telechirurgia e telemedicina? L’applicazione, ancora in fase sperimentale, dei mezzi telematici per guidare dei robot nell’indagine, esame obiettivo e, perché no, nelle manovre medico-chirurgiche. In Italia più centri di eccellenza stanno sviluppando nuove tecnologie all’interno di tutte e tre gli aspetti della medicina sopracitati.

Indagine diagnostica                                                                                                                                              Milano,“Istituto Italiano di Tecnologia”. Il Prof. Lanzani lavora su una capsula nella quale è possibile inserire circuiti elettronici costruiti esclusivamente con materiali alternativi al silicio, comunemente usato per la costruzione di questi. Direte: dove sta la notizia? La novità è che questi materiali sono completamente digeribili. Lo stesso Lanzani entusiasta ha dichiarato recentemente ad una trasmissione televisiva : “Noi stiamo mandando nel corpo umano dei dispositivi con dell’elettronica che può svolgere più funzioni, per esempio di diagnostica. È come portare il medico dentro al corpo e guardare da vicino quello che succede”. Questo perché nella capsula c’è un sensore capace di fare diagnosi tramite un algoritmo e mandare dei segnali direttamente al telefonino di un medico. Un lavoro di certo interessante ma ancora in una fase di sperimentazione.

Esame obiettivo                                                                                                                                                          Più concreto è invece “Lanier” , un lavoro del team del Prof. Diaspro. Una squadra che guidata dall’ingegnere ha realizzato un super microscopio da un milione di euro. La particolarità di questo strumento è la possibilità, grazie a un fascio di luce a infrarossi ed una maestosa capacità di risoluzione, di arrivare a ingrandire fino al livello molecolare, così da avere innumerevoli informazioni sulle cellule del paziente senza dover asportare quest’ultime , quindi senza usare alcun bisturi.

Chirurgia                                                                                                                                                                     Centro Interdipartimentale di Ricerca “E.Piaggio” dell’ Università di Pisa. L’idea è quella di utilizzare dei dispositivi, indossati come mollette sulla punta delle dita, sviluppati dopo numerosi tentativi di testare il ritorno della sensazione tattile in teleoperazione, quindi questi sensori sono in grado di restituire una misura delle forze che vengono applicate quando vengono ad essere manipolati gli oggetti. Questo significa che il chirurgo potrà controllare un braccio meccanico a distanza riuscendo così ad avere la sensazione di toccare il paziente anche a chilometri dalla sua postazione.

Per non parlare dei chip sottocutanei mirati a sopperire autonomamente alle deficienze provocate dal diabete, dei misuratori di pressione incorporati nelle maniche delle camicie , degli analizzatori del respiro su smartphone, e chi più ne ha più ne metta.

Non è tutto oro ciò che luccica recita un vecchio detto. Svantaggi ne abbiamo , forse pochi, ma ci sono. Prima di tutto i costi: dall’ assemblaggio dei robot, alle attrezzature di supporto, alla manutenzione. Si scrive più costoso ma si legge meno accessibile. Lo vediamo anche ai giorni nostri, una tecnologia sempre più sofisticata comporta aumento delle spese, con conseguenze disastrose sulla qualità della sanità pubblica. Si allungano i tempi anestetici: ci si è sforzati di trovare tecniche che accorciassero essi, proprio per evitare inutili complicazioni al paziente. Infine, se all’interazione umana subentra l’asetticità della telematica, a rimetterci è l’educazione del chirurgo e del medico. Si perde il contatto con il paziente, la manualità ed il riconoscimento della consistenza di tessuti e organi. Avremo quindi medici e chirurghi inesperti, che senza il sussidio robotico non sapranno come rapportarsi al corpo umano. I grandi luminari della medicina sapevano riconoscere una patologia grazie solo ai 5 sensi ed ora vogliamo davvero che i medici non sappiano più avere a che fare con i loro pazienti?

Elena Andronico, Alessio Gugliotta