Workshop “L’accoglienza infermieristica e il patto infermiere cittadino tenuto da Docenti del DIMED: dipartimento di Medicina Clinica e sperimentale”

All’ “INTERNATIONAL SKILLS MEETING – RASSEGNA INTERNAZIONALE DELLE COMPETENZE” svoltosi a Messina nei giorni 6-7-8 Novembre 2018  presente anche il “Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale” con i docenti medici, docenti infermieri, studenti di infermieristica e ovviamente tanti studenti provenienti dalle scuole medie superiori della città financo dalla provincia e dall’area metropolitana dello stretto,  i quali affascinati dagli argomenti trattati non hanno fatto mancare la loro linfa vitale ed energica, utile alla vita comunitaria d’ateneo.

La Prof.ssa Caruso e la Prof.ssa Calatozzo hanno dato ampio spazio alla figura dell’ infermiere professionista, delucidando ampiamente le competenze dell’infermiere e il concetto di empatia, nonché alcune delle manovre di approccio con il possibile utente/paziente. Presenti in aula anche i Professori Giuseppe Maurizio Campo e Giovanni Crea.

Al giorno d’oggi, per intraprendere questa professione, è quanto più necessaria una predisposizione all’ascolto, che consiste nell’essere empatici verso il nostro prossimo, ancor più in una società “distratta” come la nostra, dove vige l’indifferenza verso gli altri. Ecco che la figura dell’infermiere, o meglio, di chi in generale voglia affacciarsi al mondo dell’assistenza, deve far propri i valori di solidarietà, umanità e amore empatico, a priori, come fosse un legame imprescindibile. Per “amore” si intende quello che nella vita bisognerebbe avere nel prendersi cura degli altri sotto tutti i punti di vista, anche in modo assistenziale. I concetti di aiuto e del mettersi a disposizione degli altri sono quei presupposti che dovrebbero animare qualsiasi aspirante infermiere, ancor prima dell’essere un professionista della salute.

 

L’infermiere, che viene riconosciuto come operatore sanitario dal decreto ministeriale 739 del 1994, e che da pochissimo si vede attribuito il passaggio dal Collegio IPASVI (Infermieri Professionali Assistenti Sanitari Vigilatrici d’ Infanzia ) a Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (FNOPI), fa della sua professione uno stile di vita, sua e degli altri, in una società in cui mai prima di adesso la sua figura è tanto richiesta.

Ai ragazzi che hanno avuto il piacere di essere ospiti del Dipartimento di Medicina Clinica e sperimentale e più in generale delle iniziative d’ateneo, vanno i nostri più sinceri auguri per un futuro ricco di luce, la stessa che anche noi sperammo, perseguimmo, e trovammo. Luce a voi futuro dell’ateneo Messinese e di questa nostra Italia!

A supporto della kermesse, instancabili, presenti, attenti e costanti i ragazzi di UniVersoMe, che in tutte le sue componenti hanno dato risalto alle attività e a tutti i singoli aspetti della manifestazione.

Filippo Celi

Immunoterapia contro i tumori, Nobel ad Allison e Honjo!

Sono rivoluzionari ed inediti i passi avanti e le scoperte scientifiche in campo bio-medico, che sono valse all’americano James P. Allison ed al nipponico Tasuku Honjo il Nobel per la medicina.

Per la prima volta infatti, sono stati messi in evidenza dei meccanismi cellulari mediante i quali il nostro organismo contrattacca l’impazzimento delle unità biologiche che diventano cancerogene.

Nello specifico, i due medici rispettivamente del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center e dell’Università di Kyoto, hanno individuato le proteine di alcune cellule immunitarie che i tumori usano come bersagli da ingannare nel completamento dell’involuzione nociva.

La geniale teoria medico-scientifica sarebbe quindi l’attivazione di un freno biologico che permetta al nostro organismo, quando affetto da un degeneramento cancerogeno, di produrre delle proteine (CTLA-4) che attiverebbero il sistema immunitario per distruggere il tumore.

E’ stata inoltre documentata l’esistenza di un’altra proteina (PD-1), creata dal corpo umano quando “in ostaggio” da una massa tumorale, in grado di inviare segnali che il nostro sistema immunitario elabora come negativi.

L’immunoterapia dunque, si rende efficace nel tentativo di contrastare i complessi sistemi di decriptazione dei segnali inviati dalle cellule immunitarie per sconfiggere le masse cancerogene che tendono, ad eludere le nostre difese e a perdurare nella riproduzione di cellule maligne.

La ricerca contro il cancro si sta quindi sviluppando nell’ambito di armi mediche capaci di memoria, e quindi di riconoscere le degenerazioni delle cellule e i suoi “piani biologici di azione”.

Non solo immunoterapia, l’evoluzione scientifica si sta esplicando anche nel campo dell’angiogenesi e della fabbricazione di inibitori che impediscono che i tumori trovino nuovo nutrimento.

Resta ovviamente la certezza che i farmaci e le tecniche tradizionali come chemioterapia e radioterapia rimangono i piani terapeutici più attendibili ed efficaci almeno nel breve e medio periodo.

Gli aggiornamenti delle tecniche di cura prodotte dagli studiosi di immunoterapia si confermano, come nel 2013, in cima alla lista delle scoperte fondamentali alla luce degli incredibili successi ottenuti in sperimentazione.

Nonostante manchino ancora risultati definitivi, l’immunoterapia conferma la sua incisività curativa, del resto la speranza è l’ultima a morire.

Antonio Mulone

Lo scienziato che morì irriso ed esiliato per averci detto di lavarci le mani

Nel 1846 Ignác Semmelweis, appena laureato in Ginecologia, divenne assistente effettivo del dottor Joann Klein, che dirigeva il reparto di ostetrica dell’Ospedale Generale di Vienna. Luogo di avanguardia per tutta l’Europa dell’epoca.

Il reparto di Ginecologia era stato per tanti anni affidato al dottor Bartch, che, durante i trent’anni della sua direzione, aveva fatto scendere la mortalità delle partorienti intorno all’1%. Risultato sorprendente per l’epoca quasi da poter essere confrontato con statistiche attuali di alcune realtà del terzo mondo. Nel 1823 il reparto cambiò direzione e l’incarico fu affidato al dottor Klein. Egli affidò ai suoi assistenti numerosi altri incarichi. Infatti essi dovevano, oltre effettuare le normali visite alle partorienti, eseguire fino a 15 autopsie al giorno nella clinica di Anatomia Patologica. Il reparto di maternità era costituito da due divisioni: nella prima lavoravano gli assistenti del dottor Klein, tra cui Semmelweis, mentre nella seconda le partorienti venivano accudite interamente dalle ostetriche. Il giovane Semmelweis si accorse che la mortalità delle donne ricoverate nelle seconda divisione era fino a 15 volte inferiore della prima. Inoltre tutte le pazienti morivano con gli stessi caratteri anatomo-patologici, e questo fece pensare che la causa sottostante le morti fosse la stessa.

 

L’intuizione

Furono molte le tesi proposte dai medici e professori in merito alle morti delle pazienti, tutte molto fantasiose ma lontane dalla realtà. Solo il giovane Semmelweis ebbe l’intuizione giusta. Un giorno mentre effettuava una delle sue numerose autopsie ad una delle partorienti morte, un suo collega e amico, Kolletschka, si ferì gravemente e pochi giorni dopo morì. Semmelweis si occupò di effettuarne l’autopsia e si meravigliò delle caratteristiche anatomo-patologiche in comune tra le partorienti morte ed il suo amico. A questo puntò fu illuminante per Semmelweis capire che la malattia si diffondesse per contatto con i cadaveri delle partorienti. Semmelweis mise in atto una modernissima disposizione: i medici che effettuavano l’autopsia, prima di visitare le pazienti, doveva lavarsi le mani. Da quel momento in poi Semmelweis continuò a raccogliere i dati sulle morti delle partorienti e osservò che queste stavano raggiungendo i valori della seconda divisione della maternità.

Il problema era stato risolto e Semmelweis aveva trovato una soluzione semplice ed economica.

Le Critiche

La tesi di Semmelweis fece rabbrividire tutti i medici ed i professori.

Con questa tesi si sottintendeva che i medici fossero gli “untori” e la causa scatenante le morti, e questa offesa non poteva essere tollerata. Tra gli esponenti di maggior prestigio che criticava l’operato di Semmelweis, c’era Rudolf Virchow, pioniere della patologia cellulare, famoso per la “Triade di Virchow”, ovvero le tre grandi categorie di fattori di rischio della trombosi.

Il dottor Semmelweis venne licenziato dall’ospedale di Vienna, nonostante i positivi risultati, per aver dato disposizioni senza averne l’autorità. Tornato in Ungheria applicò lo stesso metodo all’ospedale di San Rocco a Pest, ottenendo anche qui un abbassamento significativo della mortalità. Fu proprio in Ungheria che 10 anni dopo, nel 1861, scrisse il suo testo storico: “Eziologia, concetto e profilassi della febbre puerperale”. La comunità scientifica dell’epoca gli si scagliò contro e Semmelweis finì per essere ricoverato in manicomio, dove morì poche settimane dopo, nel 1865, a causa delle percosse subite forse dalle guardie dell’istituto.

Approvazione scientifica della teoria

La teoria di Semmelweis verrà accettata dalla comunità scientifica solo nel 1879 grazie ai lavori di Louis Pasteur. Fino ad allora nessuno credette alla tesi del giovane medico, a parte un suo fedelissimo amico Ferdinand von Hebra, il quale un giorno scriverà: “Quando qualcuno scriverà la storia degli errori umani ne troverà pochi più gravi di quello commesso dalla scienza nei confronti di Semmelweis.”

 

“Sepoltura di Semmelweis presso lo Kerepesi temető di Budapest”

Francesco Calò

 

Ettore Castronovo: una vita donata alla ricerca

Ettore Castronovo, radiologo e scienziato messinese, è conosciuto per le sue ricerche sull’impiego dei raggi x nella lotta ai tumori.

Primogenito di tre fratelli, nasce a Gesso il 21 gennaio del 1894. Frequenta la facoltà di medicina presso l’università di Roma, ma abbandona gli studi per partire come volontario nella fanteria allo scoppio della prima guerra mondiale.
Nel 1917 completa gli studi di medicina a Padova e dopo essere stato nominato ufficiale medico, parte con le truppe italiane in Francia.
L’anno successivo inizia la sua attività come radiologo presso l’ospedale militare di Messina. La sua permanenza nella città dello Stretto non dura molto, infatti tre anni dopo torna a Padova per lavorare come assistente universitario.
L’anno successivo si stabilisce definitivamente a Messina, dove inizia ad occuparsi di ricerca nel campo della radioterapia oncologica. Dirige per cinque anni il servizio radiologico dell’ospedale Puglisi Allegra ed istituisce il primo laboratorio di Radiodiagnostica e Radioterapia dei tumori della città.
Nel giugno del 1927 ottiene l’incarico della direzione dell’Istituto di Radiologia dell’Università di Messina e nonostante i gravosi impegni accademici, prosegue senza sosta la sua attività di ricerca presso l’ospedale Piemonte. È per lui il periodo più fruttuoso come ricercatore, diviene conosciuto a livello internazionale per le sue pubblicazioni su delle innovative applicazioni della radioterapia nella cura del cancro, campo che a quel tempo era poco sviluppato.

Grazie al grande contributo da lui dato nella ricerca in campo radiologico ed oncologico, dal 1946 al 1950 diviene vicepresidente della Società Italiana di Radiologia Medica e nel 1947 viene nominato presidente della Lega Italiana per la Lotta ai Tumori. In questa prospettiva il professore Castronovo diviene promotore di importanti innovazioni per la realtà oncologica siciliana. Il suo sogno, in occasione della costruzione del Policlinico di Messina è di trasformare l’Ospedale Piemonte in un Istituto oncologico di riferimento per tutta la Sicilia che si occupi sia della cura degli ammalati che della ricerca scientifica.

Nel 1948 a causa della reiterata esposizione alle radiazioni subisce l’amputazione di due dita della mano sinistra. Nonostante l’accaduto, nei successivi 6 anni continua a lavorare senza sosta sia nell’ambito della ricerca che in quello accademico. Le successive esposizioni riducono le sue mani a due monconi piagate :le stesse mani che sono scolpite sulla tomba del professore nel cimitero monumentale di Messina . Due mani di marmo bianco che squarciano un blocco di granito nero, simbolo del lavoro instancabile nella lotta contro il cancro di un uomo straordinario.

Il professore Castronovo si spegne nel 1954 a causa dello stesso male contro il quale aveva lottato per tutta la vita. Il suo operato rimane fonte di ispirazione per tutti i medici messinesi.

Renata Cuzzola

Je suis Charlie

Charlie Gard.  Ha solo 10 mesi, ma tutto il mondo già lo conosce, tutti i mezzi di comunicazione ed i social networks, non hanno fatto altro che parlare di lui in questi giorni. Perché?

Perché la vita di questo bimbo, nella sua particolarissima forma, è segno di contraddizione per la società del nostro tempo che, pronta a legittimare anche i desideri più improbabili, priva della propria libertà chiunque non dovesse essere allineato con i “trend” del pensiero forte.

Chris Gard e Connie Yates, genitori del piccolo Charlie, hanno solo chiesto la vita, mentre medici e corti d’appello sentenziano morte. Morte per soffocamento ( sono filantropi, loro!) dal momento che “staccando la spina”,  Charlie non sarà più in grado di respirare autonomamente. E’ una malattia rara la sua, deplezione del DNA mitocondriale (16.ooo base paires che vengono, normalmente, tradotte in proteine funzionali, fondamentali per consentire all’organulo di adempiere alla sua funzione), si contano solo altri 16 casi del genere in tutto il mondo.

E’ senz’altro una situazione complessa ed estremamente delicata, però una cosa risulta incomprensibile: anche se  il bimbo non può essere portato negli Stati Uniti per tentare una cura sperimentale bocciata dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, perché deve essere ucciso attraverso la rimozione del respiratore?

I genitori, infatti, fin dal primo giorno insistono nel dire che il bambino non soffre («se fosse così saremmo i primi a lasciarlo andare»). E che Charlie possa continuare a vivere è dimostrato proprio dal fatto che, da aprile a oggi, cioè da quando è iniziata la causa giudiziaria, il suo stato di salute non è peggiorato.

Di questo, i medici non sanno bene che rispondere. La decisione di staccare la spina è stata presa, dicono, “nel migliore interesse del bambino”, ma non è facile comprendere come la vita possa non essere nell’interesse di Charlie. E rimane, ancora, il nodo cruciale: secondo gli stessi operatori sanitari  “Non è possibile sapere se Charlie provi dolore o meno. Nessuno può esserne certo”. Quindi, non si può stabilire se ci sia o no accanimento terapeutico.

Però mi chiedo, quale medico e quale giudice può arrogarsi il diritto di porre fine alla vita di un bambino sulla base di qualcosa che non sa?

Poiché ammettono di essere nel dubbio, i dottori dovrebbero assisterlo fino alla fine e fare un passo indietro davanti a una vita che, per quanto fragile e sofferente, c’è.

L’emergenza di Charlie è l’emergenza di ogni uomo, perché la sua malattia coinvolge la fase vita in cui l’uomo è più debole e indifeso e ha bisogno di accoglienza, ancora di più se affetto da una malattia genetica o malformativa. Alla sua sofferenza non si è data una risposta concreta, si è negata la base minima della pietà umana decretando che se sofferenti non vale la pena vivere.

Concludo prendendo in prestito le parole di un pediatra e genetista francese (nonché scopritore della trisomia 21, più nota come “Sindrome di Down ed altre malattie cromosomiche), vissuto nel secolo scorso, Jérôme Lejeune:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Dobbiamo servirci della medicina in modo etico per salvare vite, altrimenti essa rischia di diventare mero tecnicismo applicato, ma non al servizio dell’uomo. Charlie forse non può guarire, ma non per questo dev’essere ucciso da una scienza che si illude di essere onnipotente.

Ivana Bringheli

Gaetano Martino: missione europeista di un siciliano

Gaetano Martino in una foto del 1954

Questo articolo della rubrica “Personaggi” lo dedicheremo a colui che rappresenta uno dei tasselli più importanti della storia di Messina, dell’Italia e dell’Italia all’estero: Gaetano Martino. 

Il nome non vi sarà sicuramente nuovo, e scommetto che la prima cosa a cui lo collegate è proprio il Policlinico Universitario G. Martino. Mentre qualcuno che si interessa di politica, vivendo con enfasi quella dello Stretto, potrebbe invece collegarlo ad Alberta Stagno D’Alcontres e Antonio Martino, suoi genitori: a suo padre, sindaco di Messina prima e dopo il terremoto del 1908, si deve la rimessa in piedi della città. È proprio dal padre che Gaetano eredita la vena politica che lo porterà a ricoprire cariche importanti. Tuttavia, prima di addentrarci negli affari pubblici, voglio parlare della sua carriera da fisiologo e del suo importante contributo alla medicina. 

Laureatosi in medicina all’Università di Roma, nella quale ricoprirà le cariche di professore alla cattedra di Fisiologia umana e di Magnifico Rettore, Martino si dedica alla ricerca scientifica tra Berlino e Parigi, e allAteneo peloritano, sarà professore di Fisiologia umana e Chimica biologica, e Rettore per ben 13 anni. Sulle orme del maestro Amantea, viene considerato il maggiore fisiologo al mondo, grazie anche al suo “Trattato di fisiologia umana”. Subito dopo la pubblicazione di quest’ultimo, ha inizio l’intensa e proficua attività politica del Martino che, nelle file del Partito Liberale Italiano, viene eletto Deputato e poi Presidente alla camera. Il primo passo mosso in politica, e prima della nomina a Presidente del partito Liberale, è da percepire nella gestione del dibattito, da lui tenuta, per l’annessione dell’Italia al Patto Atlantico.

Nel ’54 e per appena sette mesi, sarà Ministro della pubblica istruzione e precursore di importanti provvedimenti legislativi quali la nota “Legge Martino-Romita”. A questo periodo risale anche la carica a Ministro degli Esteri: In meno di due anni, Martino riuscì a liberare l’Italia dal pesante carico ereditario del Fascimo, guidando la delegazione italiana alla firma dei Trattati di Roma, riuscendo a far riannettere Trieste all’Italia e facendo ammettere quest’ultima all’ONU. Il nome di Gaetano Martino sarà infatti ricordato per il primo discorso di un ministro italiano all’Assemblea ONU, e per il suo farsi precursore dell’integrazione economico-politica dell’Europa. Dopo il fallimentare tentativo di istituzione della Comunità Europea di Difesa ( C.E.D) nasce per mano sua la Unione Europea Occidentale ( U.E.O), sicuramente meno compiuta e perfetta della precedente, ma rappresentante la prima tappa di una nuova politica europeistica. Martino aveva compreso, infatti, che l’unità politica si sarebbe raggiunta tramite una manovra fortemente economica, ed al fine di inculcare la sua idea agli altri cinque paesi, indisse la  Conferenza di Messina, tenutasi a Messina nel ’55, al fine di impartire forte segnale di ripresa dell’integrazione, soprattutto economica, riuscendo ad ottenere l’assenso di massima al suo piano.

Dalla Conferenza di Messina, la missione europeista di Martino è proseguita con slancio ed impegni crescenti, anche nelle vesti di Presidente del Parlamento Europeo, Capo della delegazione parlamentare e di Presidente Generale del Corpo Nazionale dei Giovani Esploratori.

Rimarrà impegnato in politica fino alla morte, datata il 21 Luglio 1967. 

Oggi, nei pressi del Municipio di Messina, è a lui dedicata una statua.

Erika Santoddì

Image credits:

By Unknown – Italian magazine Epoca, N. 214, year V, page 73, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=49869541

Malasanità, Errore Umano o Presunzione?

‘’Bimbo muore per otite’’

‘’Omeopatia uccide: bambino di 7 anni muore per otite’’

 

‘’Medico ammette: è stata colpa mia’’

‘’Muore a palermo per un intervento banale’’

Questi sono solo alcuni dei titoli che hanno invaso le testate giornalistiche e i media di tutta Italia. I due pazienti italiani non sono accomunati da niente, se non dalla stessa giornata che, purtroppo, segna la fine prematura della loro vita. E nemmeno i medici presi in causa hanno niente in comune se non, per il resto della loro vita, la domanda: ‘’potevo fare meglio?’’

Filippo Chiariello, 38 anni, era entrato in sala operatoria già timoroso. I familiari raccontano che in particolare aveva paura degli aghi. Il paziente era arrivato all’ospedale di Villa Sofia (Palermo) in emergenza, con dolori lancinanti allo stomaco. Dopo essersi sottoposto alla TC, il verdetto: calcoli alla colecisti, necessita un intervento in laparoscopia.

Il chirurgo ha alle spalle una carriera ventennale, nessuna ombra sul suo percorso, sa che questo tipo di intervento, senza complicanze, non dura più di 45 minuti. L’intervento inizia alle 17,30, introdotto il primo strumento chirurgico, il Trocar, viene erroneamente recisa l’aorta addominale e contemporaneamente perforato l’intestino. L’intervento viene convertito in un’operazione standard con il taglio chirurgico, il paziente ha però perso tantissimo sangue.

In tutta la città non è reperibile sangue del suo gruppo. Il paziente va in arresto cardiaco per tre volte, l’ultima volta per 40 minuti, c’è danno cerebrale. Sono passate più di otto ore. La mattina dopo alle 10.45 i medici dichiarano la morte cerebrale.

Francesco, 7 anni, ricoverato dal 24 maggio nella rianimazione dell’Ospedale Salesi (Ancona) a causa di un’otite curata con l’omeopatia invece che con gli antibiotici. Seguito da tre anni da un medico omeopata, a lui la madre e il padre si sono rivolti quando circa 15 giorni fa il figlio si è ammalato di otite bilaterale. Il bambino però peggiora, è sempre più debole, con la febbre che va e viene.

Fino alla notte del 23 maggio quando perde conoscenza. I genitori si precipitano all’ospedale di Urbino, dove una TC ha rivelato gravi danni al cervello. Viene tentato un intervento chirurgico per la rimozione dell’ascesso cerebrale, insieme a terapia antibiotica d’urto, ma le condizioni cliniche del bimbo non lasciano più speranze. Prima il coma, poi la morte cerebrale.

Sul piatto della bilancia, come già detto, ci sono due casi diversi, due medicine diverse.  Medicina tradizionale e medicina omeopatica.

Ci sono due medici. Uno che ha errato usando la medicina tradizionale, l’altro che ha errato usato la medicina omeopatica. Da questo punto in poi, il dibattito che si è susseguito in questi giorni è inarrestabile.

C’è chi si è schierato a spada tratta contro l’omeopatia, chi ha portato avanti le proprie idee a favore di essa. Chi non si è esposto, chi ha dato ragione ad un medico piuttosto che all’altro, chi ha urlato a gran voce la parola ‘’Malasanità’’.

La letteratura medica è un oceano infinito, che ogni giorno progredisce e si accresce. Nel campo medico non c’è qualcosa di completamente giusto o di completamente sbagliato. Non tutto funziona nello stesso modo per tutti, le stesse patologie non si presentano nello stesso identico modo in ogni essere umano.

Senza perder tempo, quindi, nell’analizzare quanto possa essere sbagliata o giusta una medicina piuttosto che un’altra, una corrente di pensiero piuttosto che un’altra, la vera domanda che bisogna porsi è: dove sta la presunzione e dove sta l’errore umano? A chi bisogna urlare malasanità e a chi no?

Questi due medici, rispettivamente, stanno iniziando un lungo percorso medico legale dove, alla fine, saranno o non saranno più medici.

La presunzione. La presunzione, nell’ambito medico, è un’arma a doppio taglio: può salvare un paziente oppure, insieme all’ego, può essere una trappola mortale. Una cosa è sicura: nessun medico può rischiare la vita di un altro essere umano. Lo giuriamo all’inizio della nostra carriera: ‘’Giuro, di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno, prescindendo da etnia, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica”.

Da un lato, abbiamo un medico che, pur di difendere ad ogni costo le sue idee, il suo ego, il suo onore, ha ecceduto di presunzione e ha sbagliato. Le dinamiche interne non le possiamo sapere. Sappiamo, fin dal primo giorno, che le persone si fidano del camice bianco. Si fidano di quello che il camice bianco dice e consiglia.

I genitori, così tanto giudicati, hanno l’unica colpa di essersi fidati. Ma non di un pazzo medico che usa l’omeopatia, non si parla di questo perché, in alcuni casi, l’omeopatia è una medicina, per l’appunto, riconosciuta e con dei buoni range di applicazione. No. Di essersi fidati di un medico che, senza poterlo prevedere, ha messo se stesso prima di tutto, cercando di dimostrare, a chi o a cosa?, che il suo modus operandi andava bene. Un medico la cui presunzione chissà se e come verrà punita.

E poi c’è l’altro medico. Quel medico, quel chirurgo esperto, che, lui stesso dichiara, è uscito con la testa china, con le braccia basse, sconfitto, ed ha chiesto scusa ai parenti della vittima, sussurrando 3 parole: ‘’è colpa mia’’.

Parenti che, secondo le più grandi testate giornalistiche, hanno giurato fuoco e fiamme. Fuoco e fiamme contro un essere umano che, praticando il suo lavoro, quel lavoro che conosce così bene, ha errato. E, in questo campo, si sa, l’errore umano non è ammesso. Mai.

Che fine farà questo medico che ha ammesso di aver compiuto un errore? Potrà ancora fare il medico? Verrà punito più o meno dell’altro? Non essendo in una corte di giustizia, non è compito nostro rispondere. Rimane però il fatto che il suo errore, se ci si ferma a riflettere, non è del tutto suo.

Introdurre un Trocar, lo strumento che serve per gli interventi di laparoscopia, può portare questo tipo di conseguenze. I testi parlano chiaro: può capitare. E poi: ha funzionato correttamente lo strumento? O si è bloccata la leva cui è attaccato il bisturi? L’errore è umano o è dato da uno strumento difettoso?

E soprattutto: merita davvero tutto questo odio un medico che, fino alla fine, ha combattuto per il suo paziente, rispetto ad un medico che è rimasto seduto sulla sua sedia in collegamento telefonico con i suoi pazienti?

Quel che è certo è che da ora in poi questi due episodi si risolveranno nelle aule di tribunale. Un bambino, un padre di famiglia, coniugi, genitori e figli. Tutte vittime. La morte porta dolore, il dolore porta a riflettere, ma alla fine, esige silenzio.

Elena Anna Andronico

Alessio Gugliotta

Scimmia torna a camminare grazie ad un chip wireless

La maggior parte delle persone ha un animale domestico. Tale animale si comporta da animale: mangia, dorme, gioca, è più o meno interessato alle coccole, ci fanno sicuramente tanta tanta compagnia.

Possiamo affermare un’altra cosa con assoluta certezza: con i nostri animali domestici non possiamo interfacciarci tramite Wi-Fi. Ovvero, non possiamo mandare un segnale a Fuffi che gli dica ‘’Vai, esci, fai i bisogni e torna’’.

Ancora: se il vostro cane, gatto, cincillà avesse un incidente e rimanesse semiparalizzato o paralizzato, voi cosa fareste? La maggior parte risponderebbero: tutto. Ed è proprio così: fareste di tutto. Anche impiantare dei cavi elettrici nel vostro amico a quattro zampe, se questo consentirebbe di ripristinare la sua funzionalità motoria.

È quello che è stato fatto sulla scimmia Macacus Rhesus: le sono stati impiantati dei chip elettrici che hanno consentito all’animale di ricominciare a muoversi.  La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nature ed è stata fatta presso il Politecnico Federale di Losanna (EPFL).

Come funziona?

Nello studio, due macachi rhesus con lesioni spinali, che impedivano il controllo di un arto, sono riusciti a camminare di nuovo grazie a un “ponte” realizzato tra la corteccia motoria (il centro del movimento nel cervello) e i nervi dell’arto paralizzato.

Le lesioni al midollo spinale bloccano il passaggio dei segnali elettrici che dal cervello consegnano istruzioni ai nervi responsabili del movimento degli arti. Sono ferite che raramente guariscono e che causano varie forme di paralisi.

Questo “ponte” (chip) impiantato nel cervello delle scimmie, registra l’attività elettrica dei neuroni, i quali mandano le “istruzioni” alle gambe. In seguito viene inviato il messaggio ad un computer esterno  mediante il WiFi, che lo inoltra ad un generatore di impulsi, stimolando così i nervi e quindi le gambe delle scimmie (c’è comunque un’immagine sotto che spiega il tutto)

La cosa sorprendente è che, in sei giorni circa, le scimmie sono tornate a camminare, anche se non perfettamente.

Potrà essere usato sull’Uomo?

Eeeh mi sa che ancora ci vorrà del tempo. Il fatto è che a differenza dei macachi gli uomini sono bipedi e fanno movimenti più articolati (es. evitare ostacoli o cambiare direzione), quindi hanno bisogno di tecnologie più sofisticate. Tuttavia c’è speranza, non temere, perché  la tecnologia utilizzata per stimolare il midollo spinale è la stessa di quella utilizzata nella stimolazione cerebrale profonda del morbo di Parkinson, questo potrebbe semplificare l’inizio dei test sugli esseri umani.

Che dire mi sembra un enorme passo avanti per la scienza, una tecnologia che solo qualche anno fa sarebbe sembrata futuristica e che potrebbe risolvere problemi enormi e risollevare la vita di molte persone, o animali.

Elena Anna Andronico

Riccardo Figliozzi

Alzheimer, ricerca ne svela la causa

Fresco di appena qualche giorno, lo studio che getta nuova luce sul morbo di Alzheimer è consultabile su Nature Communications – rigorosamente in inglese. Si tratta di un lavoro nostrano condotto da  un gruppo di ricercatori guidati da Marcello D’Amelio, professore di Fisiologia Umana e Neurofisiologia presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma.

La demenza di Alzheimer (è il nome del neurologo tedesco che la codificò per primo nel 1907) è una malattia neurologica in cui si verifica un declino cronico – ovvero di lunga durata – e progressivo delle capacità cognitive ed intellettive del paziente. Il sintomo più precoce è la perdita di memoria per gli eventi recenti. Ora, sulla base di queste evidenze cliniche si è sempre ritenuto, fino a qualche giorno fa, che il morbo fosse dovuto ad una degenerazione delle cellule dell’ippocampo, area cerebrale da cui dipendono appunto i meccanismi del ricordo.

Tuttavia la nuova ricerca, condotta anche in collaborazione con la Fondazione IRCCS Santa Lucia e del CNR di Roma, vira l’attenzione su un’altra area che si trova a livello del tronco encefalico, specificatamente nel mesencefalo, l’area Tegmentale Ventrale.

Nessun ricercatore aveva finora pensato che potessero essere coinvolte aree diverse  dall’ippocampo nell’insorgenza della patologia.

 “L’area tegmentale ventrale – ha spiegato il professor D’Amelio – non era mai stata approfondita nello studio della malattia di Alzheimer, perché si tratta una parte profonda del sistema nervoso centrale, particolarmente difficile da indagare a livello neuro-radiologico”.

 Era già noto che a questo livello i neuroni fossero responsabili della sintesi di dopamina, neuro-trasmettitore essenziale per alcuni meccanismi di comunicazione tra le cellule nervose. Piuttosto non si sapeva che – come in un effetto domino – la morte delle cellule cerebrali deputate alla produzione di dopamina provocasse il mancato arrivo di questa sostanza nell’ippocampo, causandone il ‘tilt’ che genera la perdita di memoria. Lo studio ha evidenziato proprio questo: la morte progressiva dei soli neuroni dell’area tegmentale ventrale e non di quelli dell’ippocampo, già nelle primissime fasi della malattia.

“Abbiamo verificato – ha chiarito D’Amelio – che l’area tegmentale ventrale rilascia la dopamina anche nel nucleo accumbens, l’area che controlla la gratificazione e i disturbi dell’umore, garantendone il buon funzionamento. Per cui, con la degenerazione dei neuroni che producono dopamina, aumenta anche il rischio di andare incontro a progressiva perdita di iniziativa, indice di un’alterazione patologica dell’umore”.

Questi risultati confermano le osservazioni cliniche secondo cui, fin dalle primissime fasi di sviluppo dell’Alzheimer, accanto agli episodi di perdita di memoria i pazienti riferiscono un calo nell’interesse per le attività della vita, mancanza di appetito e del desiderio di prendersi cura di sé, fino ad arrivare alla depressione.

“Il prossimo passo – ha aggiunto il docente che ha coordinato tutta la sperimentazione – dovrà essere la messa a punto di tecniche neuro-radiologiche più efficaci, in grado di farci accedere ai segreti custoditi nell’area tegmentale ventrale, per scoprirne i meccanismi di funzionamento e degenerazione. Inoltre, i risultati ottenuti suggeriscono di non sottovalutare i fenomeni depressivi nella diagnosi di Alzheimer, perché potrebbero andare di pari passo con la perdita della memoria. Infine, poiché anche il Parkinson è causato dalla morte dei neuroni che producono la dopamina, è possibile immaginare che le strategie terapeutiche future per entrambe le malattie potranno concentrarsi su un obiettivo comune: impedire in modo ‘selettivo’ la morte di questi neuroni”.

Sono, pertanto, molteplici le prospettive schiuse da questo studio che ci avvicina ad aggiungere un tassello rilevante nella comprensione di questa malattia e, quindi, alla  conseguente possibilità di trovarne una cura.

Ivana Bringheli

 

Cancro: i batteri patogeni come nuove armi di difesa

Era il 1901 e siamo negli USA, quando il medico chirurgo William Coley, specializzato in chirurgia ortopedica, s’imbatté in un paziente affetto da sarcoma.

Siamo all’inizio della storia del cancro: la parola stessa era stata coniata da una decina scarsa di anni e le tecniche che conosciamo oggi, quali chemio radio ed immunoterapia, non avevano ancora un nome. Il dr. Coley, però, pioniere della medicina, voleva salvare il suo paziente.

Già nell’800 si notò che alcuni tumori crescono più lentamente in concomitanza con alcune infezioni. Durante quel secolo, ovviamente, il problema risiedeva nel fatto che non esistevano cure antibiotiche e, quindi, erano proprio le infezioni batteriche a causare la morte dei pazienti.

Nei primi anni del 900, però, il dr. Coley fece quell’idea sua e fu così che, senza saperlo, buttò le basi della moderna immunoterapia: creò la tossina di Coley, a base del batterio Erisipela, agente patogeno di svariate malattie infettive cutanee, che portava la cura direttamente nel loco della lesione maligna.

Coley credette che i risultati furono scarsi e l’idea, con l’avvenire della guerra, fu abbandonata nel dimenticatoio. Non poteva sapere che una ricerca del 1999 ha comparato 128 suoi casi con oltre 1.600 pazienti trattati con le terapie più recenti, dimostrando che il vaccino del medico americano garantiva una sopravvivenza media di 8,9 anni, contro i 7 dei pazienti di oggi.

Germania, 2012. Uwe Hobohm, chimico biologo dell’università tedesca di Giessen, decide di rispolverare l’idea. In vitro si è visto come le immunoterapie batteriche (le terapie che sfruttano i batteri per attivare il sistema immunitario) sono in grado di stimolare la produzione di citochine, molecole che danno il via alla reazione del sistema immunitario, documentando inoltre la regressione del tumore del paziente.

Sud Corea, 2017. Il vitro è, finalmente, stato superato. Ora sono i nostri amici topi i nuovi protagonisti di questa stupefacente ricerca e, tra i vari batteri testati in laboratorio, un nemico trasformato in amico: il batterio della Salmonella. Cautamente modificato in laboratorio e riempito di farmaci antitumorali, è stato scelto un ceppo batterico provvisto di flagello (quindi in grado di muoversi) che, una volta iniettato nel topo malato di tumore del colon, si è visto arrivare esattamente dove si sperava: nelle zone necrotizzate dove cresce il tumore, rilasciando così il cocktail di farmaci.

Non solo: si è scatenata negli animali una potente risposta immunitaria e al controllo, dopo 4 mesi, si è potuto verificare che il tumore era scomparso in più della metà degli animali. Inoltre, e qua sta probabilmente la vera scoperta, gli animali in cui si è scatenata tale reazione sono stati solo quelli infettati proprio con il ceppo batterico provvisto di flagello. Sarebbe quindi emerso che sono esattamente le proteine batteriche del flagello a svegliare il sistema immunitario dell’ospite.

Due piccioni con una fava, si direbbe: da una parte, si cerca di sfruttare i microbi come cavalli di Troia per portare farmaci direttamente all’interno delle cellule tumorali; dall’altra, si pensa di usarli come fantocci per segnalare alle cellule del sistema immunitario di scatenare l’attacco.

 

Elena Anna Andronico

Alessandra Frisone