Warner Bros: il grande cinema compie 100 anni

Il 4 aprile del 1923 sorge a Burbank, California una piccola società, la Warner Bros. Pictures. In cento anni di crescita e cambiamenti, da allora si è fatta la storia del cinema. Sempre all’avanguardia, la Warner Bros. ha segnato alcune pietre miliari dell’evoluzione cinematografica: primo fra tutti, l’avvento del sonoro. Nel 1927 gli studios, all’orlo del fallimento, rischiano il tutto per tutto scommettendo su una nuova meraviglia nelle pellicole: il suono. Con Il cantante di jazz si scuote a fondo il mondo del cinema, cambiandolo totalmente. Dedicandosi fin da subito a vari generi, la Warner Bros. si aprí ad un pubblico ampio, producendo musical come la Quarantaduesima strada, cartoni animati come i Looney Tunes negli anni trenta e fantastici drammi d’amore come Casablanca negli anni quaranta.

In onore di questo centenario, si commemorerà questo grande traguardo anche nei grandi festival del cinema, come il Taormina Film Festival, la cui sessantanovesima edizione si aprirà oggi. Sono state programmate tantissime proiezioni speciali di capolavori della Warner Bros: qui ne analizzeremo alcuni dei più importanti!

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Scena di Il cantante di Jazz. Fonte: theguardian.com, Warner Bros. pictures

Il cantante di jazz (1927): l’alba della Warner Bros.

Il Cantante di jazz è un momento di svolta per il cinema: rivoluziona il  modo in cui viene percepito il film e la stessa sfrenata Hollywood. Dal punto di vista tecnico, Il cantante di jazz è la prima pellicola ad inserire degli elementi di sonoro oltre la sola musica di sottofondo.

Lo potremmo considerare come un’opera di passaggio dal muto al cinema pienamente parlato: continuano ad essere presenti le didascalie per molti dialoghi tra personaggi, ma allo stesso tempo lo spettatore ha la possibilità di sentire Jackie, il protagonista, realmente cantare e parlare. Oltre alle sole parti cantate, vengono introdotti anche dei suoni, come l’applauso del pubblico per il cantante di jazz. Guardando questo film ora, nel 2023, può apparire più che normale la presenza del suono, ma, calando Il cantante di jazz nel suo contesto storico, possiamo comprendere l’incredibile importanza che ha avuto per il cinema.

Shining (1980): il monopolio di Kubrick

Shining, il cult movie diretto da Kubrick, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, con la sua drammatica e a tratti orrorifica narrazione delle vicende della famiglia Torrance, è ormai entrato a far parte dell’immaginario collettivo di generazioni. Chi non ha mai provato, almeno una volta nella sua vita, ad imitare l’iconica scena in cui Jack (Jack Nicholson) sfonda la porta del bagno con l’accetta pronunciando la frase: “Sono il lupo cattivo!”.

Per molti aspetti, Shining potrebbe rientrare nella lista dei film più “sovversivi” della storia del cinema. In primis per l’utilizzo della steadycam, un supporto che favorisce movimenti rapidi e senza vibrazioni. E poi per lo svariato utilizzo dei raccordi, che privilegiano quell’”invisibilità” del montaggio, di cui Hollywood ne è la culla. Ad esempio, nella famosa inquadratura in cui Danny (Danny Lloyd) entra nella stanza 237 cercando la madre, il raccordo di risposta ci rimanda ad un’inquadratura che mostra la madre da tutt’altra parte. Il film, inoltre, consolida la stretta collaborazione tra il regista Kubrick e la Warner Bros., la quale produrrà tutti i suoi film da Arancia Meccanica (1971) in poi.

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Scana di Shining. Fonte: wikipedia.it, Warner Bros. Pictures

Matrix (1999): il multiverso della Warner

Sono due le coppie di fratelli che, a mio parere, hanno rivoluzionato la storia del cinema. E se i primi furono i Lumière, non possiamo ad oggi non riconoscere il forte impatto provocato dai registi di Matrix: i fratelli o, meglio, le sorelle Wachowski.

Il loro “mito della caverna” stile cyberpunk, come in Platone, ruota sulla dicotomia tra realtà e finzione. Neo / Mr. Anderson (Keanu Reeves) è il prigioniero che lascia la caverna per liberarsi delle illusioni e dalla finzione che essa genera. Una volta accettata la dura realtà rientra nella caverna (in Matrix) per liberare gli altri, come Morpheus (Laurence Fishburne) ha fatto con lui.

E anche se noi, nuove generazioni, diamo ormai per scontato l’idea di un’immagine così plasmabile sul grande schermo, non si può dire lo stesso del pubblico di allora che si trovò di fronte a delle scene realizzate con effetti speciali all’avanguardia ripetuti insistentemente. Ne è un esempio il bullet time, effetto realizzato con una tecnologia chroma key (green screen / blue screen) unita ad una computer grafica 3D, che divenne poi uno dei marchi principali del film.

Il cavaliere oscuro (2008): la Warner Bros. dei supereroi

Con Il cavaliere oscuro la Warner Bros. ha portato sul grande schermo una ultima, strabiliante performance di Heath Ledger. L’attore australiano qui interpreta uno dei più noti cattivi del cinema e dei fumetti: il Joker. La figura di questo pseudo pagliaccio malvagio è stata riportata in pellicola da molti attori, ma l’interpretazione di Ledger è probabilmente una delle più riuscite, tanto da fargli vincere l’Oscar come miglior attore non protagonista postumo: una coronazione alla sua carriera ed alla sua vita. La Warner si è occupata della produzione di tutta la saga di Batman diretta da Christopher Nolan, quindi oltre a Il cavaliere oscuro, secondo capitolo della trilogia, anche di Batman Begins (2005) e Il cavaliere oscuro: il ritorno (2012).

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Heath Ledger in Il cavaliere oscuro. Fonte: Quinlan.it, Warner Bros. Pictures

Per dare una reale visione completa dei cento anni di cinema e passione che ha regalato la Warner Bros al pubblico internazionale sarebbe necessario ben più di un solo articolo. Senza alcun dubbio, fondazioni come Taormina arte sono riuscite a dare un miglior sguardo al passato di questi studios, riportando sul grande schermo le pellicole analizzate, insieme a molti altri capolavori. Non ci resta che continuare a celebrare il cinema al Taormina Film Festival appena iniziato ed aspettare come ci sorprenderà la Warner Bros. nei prossimi cento anni!

Ilaria Denaro
Domenico Leonello

Everything Everywhell All At Once: il Matrix al femminile

Everything Everywhell All At Once è il passepartout che apre la porta più importante, quella del 2023. – Voto UVM: 5/5

 

Già vincitore di due Golden Golbes e con undici candidature per l’edizione 2023 degli Academy Awards, i Daniels, (registi e sceneggiatori), presentano un film fuori dal comune. Tra le varie nomination: miglior attrice protagonista, – Michelle Yeoh, – miglior regia, migliori costumi, miglior montaggio e tanto altro ancora.

Gli artisti dell’opera: Daniel Kwan e Daniel Scheinert; anche registi di Swiss Army Man, diventato un piccolo cult, molto particolare, a tratti fuori di testa, con protagonisti Paul Dano e Daniel Radcliffe (il nostro mago di quartiere).

L’opera: il titolo dello stesso film, riassuntivo ed efficace.

Atipico, parola d’ordine

Un film non per tutti, me ne rendo conto in primis io, ma non in senso negativo, bensì per una questione di narrazione diversa dal solito che può destare esitazione per chi sceglie di prenderne visione. A me piace chiamarlo “il Matrix al femminile”, adesso vi spiego il perché: diviso in tre capitoli, Everything, illustra il concetto di multiverso attraverso principi scientifici, trovando appoggio e piegandosi alla fantasia. Un insieme di situazioni che connesse tra di loro acquisiscono un senso, che tra le altre cose è alla base del film. Divertente, – per cui non c’è neanche il rischio di annoiarsi, – coerente e sinceramente invidiabile per via della sua scorrevolezza e funzionalità, perché sì, funziona!

Condivide alcune somiglianze con Matrix di Lana Wachowski e Lily Wachowski, mostrando l’incontro tra fantascienza e arti marziali, in cui il protagonista è il prescelto, anche se in questo caso è la prescelta, a dover salvare il multiverso.

Tutto al femminile

Il tutto, questa volta, è presentato da una donna che lavora in una lavanderia a gettoni, insieme a suo marito Waymond Wang (Ke Huy Quan). Film ribelle, perché trasgredisce quel tipo di “regola” ormai diventata una prassi che vede l’uomo come figura adottata per presentare il prediletto. Questa volta potere al matriarcato!

Ad emergere in maniera quasi del tutto principale è Jamie Lee Curtis, presentata con le mani di hot dog, ma no spoiler. Nel cast abbiamo Stephanie Ann Hsu che interpreta la figlia della nostra prescelta, in questo caso Evelyn (Michelle Yeoh), con la quale ha un rapporto alquanto conflittuale, tema importante e centrale per lo sviluppo della trama.

Un multiverso arcobaleno

Tra le varie tematiche, Everything Everywhell All At Once, affronta anche quella del mondo LGBT. Proprio per questo motivo è un film che funziona sotto tutti i punti di vista. Joy (Stephanie Hsu), è difatti lesbica e ciò contribuisce ad alimentare i contrasti madre-figlia.

“Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna.”

Capovolgendo la citazione avremo come risultato l’opposto, perché al fianco di Evelyn abbiamo il marito, Waymond, interpretato da Ke Huy Quan, che riveste i panni di un uomo tranquillo, ingenuo e buono, ma con un ruolo fondamentale per l’intera durata della pellicola, poiché da quest’ultimo partirà il tutto, che avrà luogo in un posto inaspettato: l’agenzia delle entrate. Punto di partenza per la vicenda iniziale e di quelle a venire, diventando in questo modo il cuore del film, in cui tutto è nato e tutto è finito.

Everything Everywhere All At Once
Frame del film. Da sinistra verso destra: Ke Huy Quan (Waymond Wang), Michelle Yeoh (Evelyn Quan Wang), James Hong (Gong Gong). Casa di produzione: A24, AGBO, IAC Films, Year of the Rat. Distribuzione in italiano: I Wonder Pictures.

Burocrazia portami via!

Causa di tutto ciò che avverrà nei momenti successivi: la burocrazia. Vedremo una Evelyn dapprima insoddisfatta e demoralizzata, passare per un Evelyn star del cinema, chef e tanto tanto altro, grazie a questa successione di multiversi e arti marziali.

Diversità non è sinonimo blasfemia

È un film che personalmente ho trovato per certi versi commovente. Dà spazio a una serie di argomenti tutti insieme che quasi non te lo aspetteresti per un film del genere; come quello della famiglia, fulcro di tutto il racconto.

Nonostante la sua stravaganza e il modo da “fuori legge” di uscire dagli schemi, Everything Everywhell All At Once, riesce ad arrivare a ciò che si è prefissato di ottenere: umiltà e diversità, ordine e disordine. Si sa, la diversità delle volte non è apprezzata, ma per poterla effettivamente capire e accettare bisogna che ci si misuri con essa.

 

Asia Origlia

Matrix Resurrections: un sequel che divide il pubblico

Film che promette bene, ma si perde col passare dei minuti. Da “Matrix” ci si aspettava di più – Voto UVM: 2/5

 

Dopo circa 18 anni dalla conclusione della trilogia, Matrix ritorna sul grande schermo con un sequel/reboot atteso dai migliaia di fan della saga.

Matrix Resurrections, questo è il nome della pellicola disponibile nelle sale cinematografiche dal 1° gennaio. Il film vede protagonisti nuovamente i personaggi di Neo e Trinity, sempre interpretati da Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Presenti anche altri personaggi centrali della trilogia, come Morpheus e l’ agente Smith, in questo caso però impersonati da attori differenti (rispettivamente Yahya Abdul-Mateen II e Jonathan Groff).

La regia è stata affidata stavolta alla sola Lana Wachowski, che ha curato anche la sceneggiatura.

Neo e Trinity

Molti dubbi aleggiavano sul successo e sulla validità di un sequel del genere: le vicende si erano ormai concluse in Matrix Revolutions, un seguito sembrava abbastanza forzato. In sintesi, Matrix Resurrections sembrava il classico tentativo di fare incassi sfruttando un brand di successo. Tuttavia l’uscita dei trailer aveva riacceso l’entusiasmo e la curiosità tra i fan e non solo.

Prime impressioni: quei difetti che balzano all’occhio

La trama di base non è male: Neo si ritrova ancora intrappolato in Matrix facendo i conti con il suo passato che riemerge. Diversi sono i cambiamenti che avvengono all’interno di questo mondo (il che è più che legittimo). Il problema è lo sviluppo: il film infatti va a perdersi col passare dei minuti risultando non molto interessante.

Alcuni personaggi risultano spenti, altri si vedono poco e finiscono per avere ruoli secondari, altri ancora risultano delle macchiette che definirei “fastidiose”.

Il finale poi mi sembra troppo affrettato – nonostante il film arrivi quasi alle 2 ore e 20 – con molte situazioni che non vengono spiegate in maniera adeguata. Abbiamo pur sempre a che fare con della fantascienza, ma qui le forzature sembrano essere troppe e alcuni avvenimenti risultano incoerenti con i film precedenti, classico difetto dei sequel e motivo per cui difficilmente riescono bene.

Morpheus in una scena del film

In più la storia sembra priva di spunti filosofici interessanti: troviamo solamente argomenti già affrontati e quest’aspetto la depotenzia molto. Vengono riprese le tematiche della scelta e del libero arbitrio, ma il discorso si era già esaurito nei capitoli precedenti: questa appare solo una ripetizione. Perciò complessivamente ho trovato il film piuttosto vuoto: da Matrix si pretende qualcosa in più.

Metacinema e altre note di merito

Il film si pone, però, come una critica spietata verso la situazione cinematografica attuale: da una parte ci sono gli spettatori, affezionati a determinati prodotti, e dall’altra l’esigenza delle case di produzione di adattarsi a queste richieste per riuscire a vendere. Ciò che traspare è un intento da parte della regista di prendere in giro questo sistema, come possiamo notare nella prima parte della pellicola.

Lana Wachowski sembrerebbe girare e scrivere questo sequel quasi di controvoglia, costretta dalle esigenze di mercato della Warner. Tuttavia, quello che ne viene fuori sono alcuni siparietti metacinematografici di alto livello, che ironizzano sul film stesso.

Sembrerebbe esserci stata una presa di coscienza da parte della regista che, consapevole di aver già tirato fuori il meglio dal brand, decide comunque di realizzare questo quarto capitolo, adottando di proposito certe soluzioni infelici, ma offrendo all’industria ciò che vuole.

Forse il cinema, come ogni forma d’arte contemporanea – per usare un termine proprio del film – si trova davvero intrappolato in un loop, in cui si ritorna sempre a proporre il classico “usato sicuro”, qualcosa di già visto (non a caso uno dei temi affrontati in questo Matrix è quello del déjà-vu).

Fonte: Zimbio.com – Carrie Anne Moss, Lana Wachowski e Keanu Reeves alla première del film

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la regia è stata curata magistralmente, la CGI ben utilizzata e le scene d’azione non dispiacciono, anche se a volte confusionarie e comunque al di sotto di quelle viste nei film precedenti.

Presenti anche molte citazioni e riferimenti alla trilogia: puro fan-service verso gli appassionati che però non guasta, anzi è ben realizzato e rientra tra le note più positive.

Un Matrix diverso?

È molto difficile valutare questa pellicola: se si dovesse considerare una parodia voluta contro il sistema dello sfruttamento estenuante dei brand cinematografici, allora il giudizio sarebbe ottimo. Se si dovesse considerare, invece, esclusivamente come sequel della trilogia allora lo reputerei insufficiente.

Matrix Resurrections può convincere come film a sé stante, ma, posto in confronto con i capitoli precedenti della saga, rivela la sua vacuità.

In sostanza è un Matrix diverso, lontano dai canoni e dalle atmosfere dei primi film. Ma forse questo cambiamento è stato voluto e ci si dovrebbe focalizzare non tanto sulla trama, ma sul messaggio che la regista vuole dare.

È vero che si può trovare sempre qualcosa da raccontare: le storie potenzialmente non finiscono mai, ma ad un certo punto diventano ridondanti, rischiando di cadere nella mediocrità.

 

Sebastiano Morabito