Lauree in tempi record? No grazie

Tra una decina di post che inneggiano alla body positivity e un centinaio di scatti che esaltano bellezze 90-60-90, tra migliaia di prosopopee sull’accettazione di sé stessi e altrettante migliaia di elogi dei nuovi Paperon de’ Paperoni delle over the top, a chi dar ragione? A chi cerca di convincerci che questa vita non è una gara, che tanto vale amarci per quello che siamo e poco importa se andiamo al passo della lepre o della tartaruga (tanto si sa come finisce la favola)? Oppure a chi in maniera subliminale ci bombarda di storie di vite riuscite, di mete raggiunte, termini di paragone con cui ci confrontiamo giorno dopo giorno e cerchiamo di sorpassare a costo di arrivare senza fiato al termine di questa corsa frenetica?

In una società capitalista sempre più simile ad una giungla darwiniana in cui tutti sono in lotta contro tutti, non tanto per la semplice sopravvivenza, ma per levare in alto per primi il trofeo del successo, ancor più triste è constatare come lo stesso spirito di competizione pervada inevitabilmente istituzioni come la scuola e l’università. Istituzioni popolate dai giovani, coloro che per antonomasia dovrebbero rappresentare il “nuovo”, il “controcorrente”, una visione diversa del mondo e della vita, magari anche più spensierata, utopica -e perché no? – ingenua.

Invece no, basta farsi un giro già fra le  aule di diversi licei per rendersi conto come la complicità tra coetanei, la voglia di condividere esperienze e divertirsi assieme ha lasciato il posto all’individualismo più sfrenato, agli strattoni per la corsa ai voti, alle invidie, alla competizione più becera e malsana- quando va bene e non si hanno le ossa di vetro. E quando va male, ansia, depressione, disturbi alimentari e chi più ne ha più ne metta. Ormai sono una specie in via d’estinzione gli studenti che vivono gli anni dell’istruzione- dalle scuole alla formazione universitaria- in maniera tranquilla e serena e ancor meno quelli che concepiscono il percorso più come un’occasione di arricchimento su tutti i fronti che come una corsa al dieci in pagella.

Un po’ di “sana” competizione. Fonte: greenme.it

Entrambi i fenomeni sono comunque due facce della stessa medaglia, sintomi di un sistema malato in cui vige sempre di più l’equazione illusoria felicità= successo e si tessono le lodi della rapidità a tutti i costi e dell’ottimizzazione economica del tempo. Conta arrivare al traguardo sì, ma soprattutto arrivare prima, anche accelerando, perché fermarsi un attimo a guardare il panorama sarebbe da stupidi, da lenti, da ritardatari.

Complice in tutto questo anche la narrazione da show dei record di mass media che eleggono a nuovi eroi studenti che hanno avuto l’unico merito di concludere il percorso universitario col massimo dei voti e con largo anticipo. «Francesco studente record, dottore prima dei suoi coetanei», «Federica batte tutti»: questi i titoli che campeggiavano qualche settimana fa su pagine social e testate ufficiali, titoli accolti da sfilze di polemiche e commenti sdegnati. Semplici sfoghi di hater di professione?

Al di là dei soliti leoni da tastiera che non perdono l’occasione di vomitare la propria rabbia sul web, stavolta la maggior parte dei commenti negativi postati sotto l’ennesimo post celebrativo con tanto di intervista a una studentessa raggiante per essere riuscita a «capitalizzare» (triste parola) il tempo della pandemia, mentre i poveri fessi dei suoi coetanei si permettevano il lusso di deprimersi, non provengono da persone prive di spirito critico o di capacità di argomentazione.

Le lauree in tempi record e ancor di più la loro pubblicizzazione non convincono nessuno, anzi suscitano tanta giustificata rabbia per molte ragioni che non starò ad elencarvi. Sarà sufficiente però parlare di alcune.

Punto uno: com’è che un percorso universitario che ha una durata prestabilita di cinque anni viene condensato in soli tre? Alcune università, soprattutto quelle pubbliche, non permettono ai loro studenti di anticipare più di un tot di materie. E va bene così del resto. Friedrich Nietzsche, parlando della filosofia diceva che i concetti vanno “ruminati”, meditati più volte per essere assimilati meglio. Lo stesso discorso, a mio parere, può essere esteso a tutte le materie universitarie di qualsiasi campo, scientifico o umanistico.

Gli studenti non sono serbatoi da riempire di materie a tempi record prima della sessione d’esami, da svuotare davanti al professore e poi, il tempo di prendersi un bel 30 e lode sul libretto, pronti di nuovo a ingozzarsi di altre materie da digerire alla svelta. Ad uscirne pregiudicata in questa abbuffata bulimica di esami è la capacità di approfondire, di interrogarsi e aprire la mente. In poche parole verrà a mancare lo spirito critico. La dimostrazione? Parole che minimizzano la depressione generale dei propri coetanei in un periodo critico quale la pandemia, periodo in cui la percentuale di giovani che ha dovuto combattere contro disturbi psicologici è arrivata addirittura al 37 %.

 

La depressione non è una “scelta”.

Punto due: non sapevamo fosse una gara. Questo il commento più sdoganato, ma per niente banale, in reazione all’euforia dei giornalisti per le lauree in tempi record. Vi cito un’altra frase più vecchiotta, sempre molto usata, ma significativa: non conta la meta, ma quello che provi mentre corri.

La laurea si pone a conclusione di un percorso non solo di crescita culturale, ma soprattutto personale e relazionale, percorso durante il quale molti giovani si confrontano per la prima volta con l’autonomia e l’indipendenza lontani da casa. Si tratta di un cammino, non di una gara, e va bene andare lenti, cadere più volte e prendersi il tempo di rialzarsi, senza il fiato sul collo di cronisti dilettanti che piuttosto che spronarti ti urlano contro: «Guarda, lui è un fenomeno, è arrivato prima al traguardo!»

Esultare assieme: non siamo in una gara! Fonte: skuola.net

Punto tre: va bene, supponiamo ci sia la “gara”.  Allora gettiamo un occhio alla “partenza”: c’è qualcuno che parte prima? Qualcuno che parte dopo?

Perché se sono una ragazza madre che deve dividersi tra studio e neonato che urla la notte o le finanze di casa arrancano e devo arrabattarmi con un lavoretto part-time, partirò 100 chilometri più indietro (altro che partitina di tennis nei campi verde smeraldo della LUISS). E se vivo in un paesino dell’entroterra in cui una connessione internet decente è roba da film di fantascienza o in una famiglia numerosa ed economicamente disagiata, senza “una stanza tutta per me” anch’io partirò in ritardo. E potremmo andare avanti all’infinito citando altri esempi di “partenze svantaggiate”: il digital divide, le disuguaglianze economiche, i problemi psicologici sono realtà concrete ancora per tanti giovani e non se ne parla mai abbastanza.

Non prendiamoci in giro perciò con l’adagio da film Disney: «Se puoi sognarlo, puoi farlo». Quello andava bene per le favole, la vita reale è un’altra cosa.

Angelica Rocca

Infopandemia: in che modo i media hanno raccontato il coronavirus

Tutti abbiamo avuto modo di percepire gli effetti sociali del Coronavirus.

È cambiato il modo di fare la scuola e l’università, lo smart working ha rivoluzionato il mondo del lavoro e le regole di distanziamento sociale hanno ridefinito il concetto di rapporto umano.

Tutti i contesti che viviamo hanno subito il cambiamento, e tutti hanno trovato un adattamento alla situazione difficile.

Possiamo dire lo stesso per i media?

Il sistema d’informazione è un’eccezione: non si è fermato come gli altri settori, e anzi sembra aver incrementato la sua attività.

Ma in che modo i media sono riusciti a raccontarci cosa è accaduto? Come hanno affrontato l’argomento ‘Coronavirus’?

La narrazione della malattia è stata pandemica, anzi infopandemica.

La massmediologia e la sociologia dei Mass media spiegano quali sono stati gli elementi strutturali dietro tale narrazione.

Perchè c’è stato tanto allarmismo all’inizio

Ricordiamo tutti gli assalti ai supermercati prima del lockdown. 

Repubbilca.it

Qual è stata la ragione? Come si diffonde l’allarmismo?

Noi persone normali, non competenti del settore virologico, abbiamo appreso del pericolo attraverso i media.

La narrazione mediatica dell’emergenza è stata martellante e continua, il Covid è stato l’unico argomento dei telegiornali per molto tempo.

Molto spesso i toni sono stati allarmanti e, anche involontariamente, diffusori di panico.

Inoltre il ruolo peggiore è stato giocato dalle fake news. Abbiamo vissuto una sovrabbondanza di informazione e in contesti simili non è facile distinguere cosa sia vero o falso.

D’altra parte gli stessi giornali, scrivendo quasi in tempo reale, non sempre verificavano l’attendibilità di una fonte.

Molti articoli hanno raccontato supposizioni e opinioni personali, precipitando nell’inverosimile.

L’informazione non verificata è quella che ha prodotto maggiori danni in questa narrazione, generando confusione e sovraccario nel pubblico.

Perchè le dinamiche della malattia sono diventate quasi più interessanti di Netflix

Ma come è stato raccontato il Coronavirus, praticamente?

Il racconto mediatico della malattia ha seguito due logiche.

La prima è quella dell’Informotion (information + emotion).

La diffusione di una malattia contagiosa è già di per sè emotivamente sconvolgente; se viene raccontata cercando di far leva sull’aspetto emotivo i risultati possono essere disastrosi.

I servizi dai toni sensazionalistici, la martellante conta dei morti e dei contagi, la diffusione delle immagini di città deserte o ancora le bare trasportate dall’esercito.

ilmessaggero.it

Questi alcuni esempi di informazione emotiva.

L’altro criterio è l’Infotainment (information + entertainment).

L’informazione a proposito del Covid è stata legata all’intrattenimento.

L’ascolto delle storie di chi si è ammalato, di chi viveva nell’allora zona rossa, le polemiche su come gestire la situazione.

È diventato tutto uno show, ogni servizio o intervista è diventata la puntata di una serie tv.

C’è stata una spettacolarizzazione della malattia.

 

Come “difendersi” da narrazioni così strutturate?

La narrazione mediatica del Covid-19 ha generato non pochi effetti negativi.

L’esposizione prolungata ai racconti con questi elementi strutturali potrebbe danneggiarci a livello psicologico ed emotivo, rendendoci paranoici e meno responsivi al reale pericolo.

Maratone di servizi, articoli e show emotivamente inquinanti producono un overload informativo, ma avere più informazione non corrisponde a maggiore conoscenza.

 

Angela Cucinotta