Sebbene la primavera

Il sole accarezza le mie palpebre che piano piano si sbarrano per accogliere quell’infuocato, quanto fastidioso, spiraglio di luce che fuoriesce dalla tapparella.

Con la mano a penzoloni cerco di avvicinarmi al cellulare poggiato sul comodino per sapere che ora sia; sbuffo: mancano due minuti prima che suoni la sveglia.

Con fatica, scosto le coperte dentro cui mi avvolgevo fino a qualche secondo prima, e mi precipito in cucina per preparare una tazza di caffè, che spero mi aiuti nel risveglio.

Sarà questo calore che mi sembra di avvertire guardando oltre la mia finestra, o forse il cielo azzurro senza nessuna macchia bianca, o forse ancora gli uccellini che sento cinguettare da lontano, non so perché esattamente, ma avverto una sensazione di rinascita questa mattina.

Mi scappa un sorriso.

Penso che l’aria della primavera stia facendo sbocciare in me nitidi ricordi, che subito si impossessano della mia mente, in balia fra emozioni e profumi.

Il caffè: ne sento l’odore, come quando mi svegliavo con un bacio e la colazione mi era servita su un vassoio della stessa tonalità delle lenzuola.

Una nostalgica trepidazione si impossessa dell’allegria che una nuova bella giornata sembrava avermi portato.

  • “Ehi, buongiorno!” – sento alle mie spalle.
  • “Anche a te! Vuoi del caffè?”
  • “No, io lo prendo in ufficio con gli altri colleghi.”

Abbasso lo sguardo come per acconsentire; verso il caffè nella mia tazza e faccio per andarmene in giardino.

  • “Dove vai?”
  • “C’è una bella giornata, non voglio che diventi brutta”

Mi siedo sotto il gazebo che avevamo montato qualche tempo prima, ripromettendoci che nelle giornate più calde avremmo mangiato lì sotto.

L’inverno aveva portato nel nostro nido solo sfascio e rovina, e ci aveva fatto dimenticare anche quanto fosse bello condividere degli stupidi pasti. Quel vaso, poggiato sul tavolo, sfoggia ancora il fiore marcio di mesi prima: ha resistito ai venti più forti, alle giornate più rigide e alle piogge più violente; ora è immobile, deturpato, quasi morente e niente, ormai, è in grado di rianimarlo.

Sebbene la primavera fuori, dentro è tutto appassito.

 

Jessica Cardullo

 

 

Il peso della libertà

Con i miei occhi vedo il grigio della città, sento sulla pelle il freddo di quello che qui chiamano inverno, sento il profumo e il gusto di un pasto, diverso ogni giorno, e il rumore dell’acqua che scorre lentamente dal rubinetto di un lavandino; quando sciacquo il viso, sento la freschezza e la limpidezza poggiarsi sul mio volto ed apprezzo ogni singola goccia che riga la guancia.

Da bambino credevo che tutto il mondo avesse gli occhi grandi, le case sfasciate monocolore e lo credevo tutto giallo come i lineamenti caldi del deserto e marrone. Allora, sembrava quasi non importarmi del ‘’sapore’’ lurido dell’acqua dei pozzi dispersi o delle giornate passate a non mangiare: a me piaceva giocare con quel pallone di pezza, insieme ai miei amici.

Ma da piccolo non sai che le leggende sui bianchi e sulla loro ricchezza, sulle terre verdi e sui palazzi alti, sono più che semplici storielle.

Un giorno, mi ricordo, i miei mi svegliarono nel cuore della notte – è arrivato il momento – mi dissero; così presi l’unica cosa che possedevo: la mia palla di stracci.

Se chiudo gli occhi vedo ancora la moltitudine di stelle che si riflettevano sul mare e poi quel barcone; vedo ancora tutta quella massa di gente, accalcata e stipata in una ‘’nave’’ che non ci avrebbe potuto sorreggere tutti.

Una volta salitoci su, mi sentivo schiacciato dagli omoni che erano almeno tre volte più alti di me e sentivo il mare dondolare sotto i piedi scalzi: eravamo delle bestie guidate da una chimera.

Non so quanto durò quel viaggio, che tutti chiamano ‘’della speranza’’, ma per noi, poveri animali in fuga, era una traversata della disperazione.

Il sole rinsecchiva le pelli, le labbra asciutte chiedevano acqua e gli occhi lucidi si rassegnavano alle onde del mare distanti dal nostro miraggio; la gente moriva lentamente cullata da una speranza naufragata nelle acque salate; i corpi affondavano giorno dopo giorno e sul quel barcone c’era un’inspiegabile senso di sollievo nel trovare più spazio per appoggiarsi a quella che ormai era la nostra precaria casa galleggiante.

Quando i miei genitori morirono sfiniti da quell’infinito tragitto, sentii che ci sarei morto anche io là sopra e che non avrei mai più visto la terraferma.

Fortunatamente, mi sbagliai.

Poche ore dopo vidi in lontananza una nave che probabilmente ci avrebbe salvato, ma nessuno di noi lì aveva la voce per urlare né la speranza di avere ancora un briciolo di speranza.

 

 

Subito dopo lo sbarco, ricordo ben poco.

Ma la sensazione di aver perso la mia dignità, di non avere più un’identità, mi accompagna ancora.

Adesso sono libero. Libero da quella ‘’puzza di oriente’’ che sembrava distinguermi dall’odore della leggendaria terra dei bianchi; libero di vivere; libero di sentire il peso della mia libertà.

 

Jessica Cardullo