Arrivare

Corro senza sosta: fortunatamente ho deciso all’ultimo minuto di mettere le sneakers.  

Mi trascino dietro un trolley rosa e piccolo, forse talmente tanto da avere il terrore che scoppi da un momento all’altro. 

Mi fermo un attimo: qual è il binario? Controllo l’enorme tabellone sopra la mia testa e mi accorgo di quante persone come me (ma probabilmente in anticipo) lo scrutano incerte, con l’ansia di sbagliare partenza. 

Binario 5.  

Mi faccio spazio fra la frenesia della stazione, in cui sembra sempre di vedere gente nuova nonostastante le mura secolari. 

Io e la mia piccola, ma spaziosa, valigia superiamo i controlli e finalmente arriviamo al nostro agognato binario: posso sentire ancora il rumore del treno che va via mentre io, con un’aria basita e la fronte sudata per la corsa, guardo disperata. 

Faccio un respiro profondo e mi siedo su una delle tante panchine vuote. 

Forse sono io ad aver voluto perdere questo treno.

Tra i vetri della stazione filtrano le prime luci del giorno e scendono su di me, un po’ come se illuminassero i miei pensieri, appesi nella mia mente in disordine sparso. 

Perché dovevo salire su quel treno? 

Perché mi avrebbe portato alla ricerca di un posto per le mie paure, al luogo in cui avrei voluto dare un senso ai miei sogni persi, alle mie ambizioni che ho sempre riposto in un cassetto per il terrore di fallire. 

E aspetto seduta. Aspetto che la vita scelga per me se prendere/perdere un altro treno mentre io guardo; guardo passiva la moltitudine di treni che mi passano accanto, attendendo qualcuno che scenda e che mi inviti salire. 

E cosa ho ottenuto fino ad ora? Cosa mi rimane della mia serie di scelte prese e non prese? In realtà non lo so, ho troppe domande alle quali non ho risposte perché, paradossalmente, ne ho di infinite. 

Ma cosa resta se vivo senza vivere? Resta la paura. 

Resta un senso da trovare.  

Fino ad adesso mi sono accontenta di questo: ma a cosa serve? A cosa serve non provare a volare, lasciando a terra quello che ora sono e che odio essere? A cosa serve non rischiare, se ho già perso tutto? 

Arriva una ventata che mi scosta. Un altro treno è arrivato ed ora è in partenza.  

Allaccio le scarpe e mi alzo, trascinando la valigia fino ad un posto accanto al finestrino. 

Sono sempre partita senza mai arrivare ma, adesso, ho deciso che arriverò.

 

Jessica Cardullo

Tutta colpa della mia città, mi ha reso debole e inadeguata

Non so se sia il caso di dire “finalmente me ne vado da qui”. In realtà non sono mai stata malissimo in questo posto, ma forse non l’ho mai sentito mio fino in fondo.

Credo che a chiunque, almeno una volta, anche per disperazione, sia venuto il desiderio di prendere uno zaino, mettere dentro vestiti a caso e scappare via, lontano da tutto, da quelle solite strade, da quelle stesse facce noiose e tristi. Per me è diverso. Non è il capriccio di una breve vacanza per tornare poco dopo. La mia è un’esigenza, un sogno, perché significherebbe arrivare in cima ad una montagna ed ammirare il panorama che IO ho deciso finalmente di vedere e raccontare. Vorrei non dire più che qui ci sono finita per caso, o per volere di altri. Vorrei un ossigeno più puro per i miei polmoni, conoscere nuovi luoghi, nuove persone ed essere libera, distante dai disagi che mi perseguitano come ombre. Per questo ho deciso di trasferirmi.

Dovevo darmi da tempo una possibilità in più e dare una sterzata alla mia vita; ora che l’ho fatto, ne sono convinta e felice perché ho voglia di un’esperienza nuova che mi lasci un segno, che mi faccia scorrere l’adrenalina dalla testa fino alle gambe. Chissà se qualcuno, come me, si sia mai sentito davvero di non appartenere a nessun luogo, solo, disconnesso dalla realtà, come uno spettatore al cinema che guarda un bel film e si immerge in una vita che non è sua. Magari gli piace quella vita ma è solo finzione perché si accendono le luci e tutto finisce. Io mi sento spegnere le luci ogni giorno e finché non riesco a trovare un appiglio, mi sento sempre persa, vuota, scostante, sbagliata. Ci sono state volte in cui la mia inadeguatezza mi ha portato a disprezzare tutto ciò che mi capitava, persino le occasioni più rare e importanti non le consideravo, anzi alimentavano quella sensazione di euforia mista a delusione. Da un lato ci credevo, ma quando stavo per viverle, mi spegnevo.

Questa città mi ha sempre reso debole e inetta di fronte alle scelte, perché nulla durerebbe, nulla di quello che lei mi offre mi renderebbe una di quelle persone che fa la differenza. Io invece voglio servire. Ho sempre pensato ci fosse una ragione dietro la mia esistenza e non potrei di certo morire senza aver migliorato qualcosa o qualcuno. Ma non qui.
Seduta sul muretto del mio lungomare, con le gambe che penzolano nel vuoto, frettolose ma sincroni, guardo avanti in cerca di uno di quei tramonti rossi che amo tanto … forse intravedo anche l’immagine di me trepidante e felice tra qualche mese. Il rumore delle onde che si frantumano in schiuma mi rilassa, poi mi guardo attorno e mi soffermo sulle transenne alla mia destra, che nascondono un tratto di marciapiede distrutto dalla mareggiata della settimana scorsa. Un po’ mi sento anch’io così, un cemento smantellato. Ma tra poco ricongiungerò i pezzi. Fra un paio d’ore saluterò il luogo in cui sono cresciuta lasciandolo per un intero anno. Intanto un soffio di vento gelido mi attraversa il fianco scoperto, facendomi tornare in me e realizzare che è ora di abbandonare quel posto, da sempre il mio rifugio preferito.

Sono felice di andare via mia cara città, ma spero di non tornare più perché ho ancora troppe storie da scrivere, da un’altra parte.

 

Martina Casilli

Un regalo inaspettato

Mancano dieci giorni al Natale.

Sono sommerso dal lavoro e non rispondo al cellulare da giorni. Mi alzo dal letto a rilento. Mi infilo nella doccia e sento scorrere addosso l’acqua calda, piano il mio corpo si risveglia dal torpore. Butto gli occhi allo specchio e vedo un uomo diverso.

Eccolo lì Giorgio Marinetti, trentenne single che nella vita ha sempre pensato di fare bene, la cosa giusta. Vedo riflessa l’immagine di un uomo stanco, la barba incolta e un sorriso spento. E’ il suono del cellulare che mi riporta alla realtà. Sono solo le sette del mattino e già il capo vuole gettarmi addosso ansie e preoccupazioni.

Automaticamente faccio una cosa che forse avrei dovuto fare da troppo tempo: rifiuto la chiamata. Preparo con cura la colazione friggendo delle uova. Il profumo invade la casa e mi fa sorridere.

La mia casa non profuma mai di cibo, immerso come sono nel lavoro, non ho mai il tempo di cucinare. Prendo la giacca e la sciarpa e corro in ufficio. Vado dritto dal capo: – “Buongiorno oggi la mia scrivania rimarrà vuota” – gli dico a bruciapelo. –  “Ma cosa diamine dici Giorgio siamo indietro col programma e lo sai” – prova a controbattere.

Ma il mio bisogno di evadere batte tutto. Lavoro per una agenzia pubblicitaria prestigiosa da sei anni e in tutto questo tempo non ho mai preso un giorno libero. Quando esco dall’azienda il vento gelido mi scuote e mi sento bene come non mai.

Mi siedo su una panchina e chiamo mia madre rassicurandola che tutto va bene e che presto la raggiungerò per trascorrere insieme le feste. Il Natale non mi piace da quando mio padre è andato: via quel posto vuoto fa male; è come una lama che arriva dritta al cuore.

Passeggio per i portici, la neve ha imbiancato tutta la città. Mi accorgo di una piccola libreria a cui non avevo fatto mai caso, tanto vado di fretta. Decido di entrare. L’odore mi riporta alla mia infanzia. Da bambino me ne stavo sempre in soffitta a leggere. Ho sempre amato la lettura. Non mi rendo conto di come non abbia mai prestato attenzione a questa libreria. Si respira magia. Le pareti sono di un blu scuro, intenso; gli scaffali sono di legno chiaro realizzati con dei vecchi bancali.

Balza ai miei occhi un libro di Calvino, il preferito di papà. Lo afferro e inizio a sfogliarlo. Una lacrima riga il mio volto. Questa è davvero una giornata speciale: non piangevo da anni. Quella lacrima riuscì a dare sfogo a tutto quello che da troppo tempo mi portavo dentro. Riposi il libro con cura mi asciugai il viso e mentre mi apprestavo a uscire sentii una voce.

Mi sono voltato e l’ho vista. Altro colpo di scena della giornata. Le luci natalizie illuminano i suoi capelli nero corvino che incorniciano un volto dalle linee perfette. Occhi verdi e un neo accanto alla bocca come se fosse disegnato. Si muove confusa tra gli scaffali. Un lungo cappotto color caramello e una vecchia borsa di pelle. Aveva l’aria sofisticata. Urtò dei libri e caddero sul pavimento. Mi precipitai a raccoglierli in cerca di un contatto.

-“Lei è davvero gentile, cosa posso fare per sdebitarmi?” – mentre parlava notai quelle labbra carnose che veniva voglia di mordere. –“Un caffè con lei mi sembra un’ottima ricompensa” – dissi cercando di usare un tono gentile e simpatico.  – “Mi chiamo Rachele piacere”– mi disse stringendomi la mano – “ sono qui in vacanza e di questa città conosco davvero pochissimo le andrebbe di farmi da cicerone?”.

Siamo usciti dalla libreria. Camminiamo per le vie della città mentre la neve continua a cadere. Rachele con naturalezza mi racconta di lei, del suo lavoro, della sua vita. E’ bellissima e non riesco a staccare gli occhi dalle sua labbra. Quella naturalezza nel parlare di sé mi strega. Non avevo mai conosciuto una donna così. Ha addosso una energia che travolge.

Ho scelto una trattoria, quelle classiche con la tovaglia rossa a quadretti. Rachele si esalta per la bontà del cibo e mi racconta i suoi disastri in cucina.

Improvvisamente le squilla il cellulare.  –“Arrivo” – dice con tono quasi preoccupato. Le chiedo cosa succede ma lei non risponde. Mi guarda intensamente. Mi bacia e va via.

Chi è davvero Rachele. Dove vive. Non so nulla di lei e forse non la vedrò mai più. Mi invade un senso di tristezza. Di Rachele resta poco. Resta il suo profumo addosso.

Per quanto riguarda questa giornata resta molto. Forse questo è il mio regalo inaspettato di Natale: un cambiamento. Giorgio Marinetti è vivo e ha capito che oltre il lavoro c’è una vita che aspetta solo di essere vissuta.

Veronica Micali

Una musa per Sigismondo Jagellone

Si racconta che nella Polonia cinquecentesca vi era un giovane re, incoronato dalla madre milanese a soli dieci anni: per questo fatto assurdo, il piccolo venne ricordato dai tanti come il “giovane re”.

Nella corte di Cracovia vi eran, dunque, due Sigismondo: il primo, anziano padre intento agli interessi del reame ed il secondo, fanciullino, il “rex iuvenis”, più dedito, nei primi anni della giovane maturità che succede all’adolescenza, alla curiosità della cultura e dell’intelletto.
Il palazzo era animato, per il piacere del giovane Sigismondo, da un via vai di artisti della pittura e della scultura, da poeti e drammaturghi, da cantori e maghi ciarlatani: accanto a questi il giovanotto stava ad osservare sia la nascita di un prodigio, di un prestigio e sia una un prodotto dell’ingegno individuale e a tutti domandava quali fossero i segreti dell’arte e del talento. Questa sua sensibile premura piacque tanto ai sudditi polacchi, i quali amavano il proprio re che, al pari grado del loro livello, conversava ed umilmente, a questi, si mostrava alunno ossequioso della diligenza del maestro.
Molto meno questa qualità piaceva al vecchio padre, il quale, sobbarcato dalle tante pene derivate dal suo regno, avrebbe preferito vedere il proprio figlio al suo fianco intento a risolvere le magagne conseguenti il peso di uno scettro, fatiche che angustiavano l’età avanzata del vecchio sovrano: “Al nobil uomo non è dato tutto da sapere!” – ripeteva più severo il Sigismondo padre al proprio figlio omonimo: “Ciò che è virtù non devi in alcun modo tramutare in ozio! E poi un sovrano è tale nel rapporto con i sudditi! Rispetta la tua etichetta!”.

Ma il giovane re si lamentava: “A me poco mi importa della guerra, che la Polonia sia terra di artisti e di inventori!”. L’anziano e saggio padre intese come l’intelletto del fanciullo fosse privo di esperienza e, in questo senso, allora fece in modo di fornirgli un’importante responsabilità: “Poiché il sollazzo e la cultura non son gli unici topazi che tempestan di preziosi una corona e già che sei fregiato del Granducato di Lituania, lì io ti mando a curar meglio i miei affari, affinché faccia di quel podere la tua fortuna e la tua ragione!”.
Aveva compiuto già vent’anni quando il giovane Sigismondo lasciò Cracovia per la corte di Vilnius e quando la carovana reale lasciò il palazzo, il popolo salutò con più affetto degli aristocratici il ragazzo che abbandonava per il suo destino la sua terra.

E mentre i sudditi perdevano il fanciullo che incitava in loro l’arte e la creatività chiamandoli a sé con la sua voglia di imparare, i nobili, recatisi dal vecchio Sigismondo I gli pretesero più considerazione adesso che il suo figlio era lontano ed i piaceri del sapere, presto, furono sostituiti solamente dai divertimenti del sollazzo della classe nobiliare: meno poeti e più prestigiatori, meno scultori e più ballerine con i loro musicanti a intrattenere l’ozio dei tanti cortigiani, tra i quali, nel chiasso della mollezza, si spegneva nelle sue preoccupazioni per quei turchi sempre pronti a far razzie nel regno, il re Sigismondo I. Accanto a lui, la saggia moglie Bona, figlia dello Sforza milanese, notò la stanchezza del marito che, più vicino ai lumi fatui della fine, non notava più il grigiore in cui la corte era caduta: allora questa, in grande affanno, al popolo promise il ritorno del giovane re che, a quel tempo, ormai, regnava da Granduca più lontano. E nell’attesa dell’arrivo del fanciullo Sigismondo, pregava artisti, poeti e cantastorie di produrre le più belle forme d’arte in nome dell’amato sovrano, il quale, presto, avrebbe ereditato il trono di Cracovia. L’invito fu immediatamente accolto e per le strade di Cracovia altro non si udivano che i versi musicati in onore del rex iuvenis, mentre nelle botteghe, artisti dipingevano il cavallo candido sul quale Sigismondo Jagellone sarebbe giunto nuovamente.
Eppure i giorni passavano e di Sigismondo non si avevano notizie: il popolo chiedeva e la regina, imbarazzata, predicava la pazienza, poiché anche in Lituania il fanciulletto non poteva abbandonare immediatamente il ruolo di sovrano accorto e illuminato.
Neanche la morte del padre convinse, tempo dopo, il Sigismondo giovane a tornare dal palazzo di Vilnius e questo suo disinteresse non lasciò indifferenti il popolo e la madre, a cui giungevano le voci di scontento per il sovrano di Cracovia che nelle nevi di Lituania aveva seppellito il proprio cuore di polacco.
Anziana ma non priva di risorse, Bona, allora, inviò un messo per la corte di Vilnius a rapportare come mai il figlio Sigismondo ritardasse il suo ritorno in Polonia.
Trascorsi quattro mesi, l’inviato rientrò a corte e disse alla regina: “Mia signora, grandi cose ho visto in quel paese di Lituania! Lì il granduca è annoverato come un re! Magna è la corte ove risiede e ricchezza di importanti opere di gusto artistico si trova nel palazzo! Agli angoli vi sono panche in cui i poeti insegnano ai fanciulli a far del verbo il verso del parlare; nelle botteghe di palazzo non vi sono fabbri che lavorano le spade e le armature per la guerra, bensì mastri scultori che del marmo fanno statue belle come quelle dell’antica Roma o della vecchia Atene! Ma il diletto preferito del sovrano è quello di vedere realizzate opere dipinte che ritraggono le sue più belle suddite! Siano esse cortigiane o pastorelle! Tra queste, si dice, abbia confidato ai nobili del suo palazzo, che voglia scegliere la moglie da investir del titolo di granduchessa, senza, in questo modo, adempiere alle volontà di Vostra Grazia di trovar per lui una moglie suggerita dall’etichetta”.
La regina andò su ogni furia, conosciuta la versione del messo, e decise allora di inventare uno stratagemma: “Fido messo, a te che hai adempiuto al lungo viaggio ed hai con fede ammesso il vero, affido un altro incarico non meno impervio: và per tutto il mio reame e trova, in nome del tuo re, quella fanciulla più prorompente e bella che il tuo occhio è in grado di apprezzare e portala qui a palazzo!”. Il messo obbedì e partì per le sue ricerche.
Durante i mesi che trascorsero nella ricerca della bella, a Cracovia il popolo apprendeva le notizie sul giovane Sigismondo trapelate da Vilnius: si diceva che il sovrano ormai aveva anche dimenticato il suo natale idioma polacco e che parlava con la corte in lituano, confondendosi tra i madrelingua. Queste pressioni giungevano anche alle orecchie di Bona Sforza, la quale, da regina, pregava per la fortuna del suo messo, affinché questi sarebbe tornato con quello di cui lei aveva bisogno per riavvicinare il figlio distratto.
Trascorsero tre mesi e solo allora il messo tornò con al suo fianco uno straccione ed una fanciulla nuda che teneva legata ad una corda che le cingeva i polsi: “Ottenni questa creatura da un disgraziato che per l’avidità del gioco mi vendette anche la figlia” – disse il vagabondo alla regina, la quale non poté fare a meno di notare la straordinaria bellezza della giovane miserabile.
“Che sia a voi condonato il prezzo del vostro riscatto per la libertà della ragazza” – disse la regina.
“E’ impossibile, sua altezza” – si oppose lo straccione – “giacché io detengo di essa anche un maleficio. Poiché talmente elevato era il mio credito verso il suo scellerato padre, non bastò il prezzo della sua figliola, bensì dovetti vendere a una strega la sua bella voce per poter essere risarcito completamente”.
“Che sia raggiunta questa strega e le sia condonato il prezzo della voce della giovane!” – disse allora la regina.
“E’ impossibile, sua altezza” – obiettò il vagabondo – “Giacché nel regno mongolo di Russia la stessa fu uccisa dal popolo di un villaggio a pietrate dopo che questa aveva loro inacidito il latte delle mucche. Soltanto il vero amore può restituirle la parola, giacché non c’è intenzione più profonda di una confessione amorosa”.
La regina stette a riflettere ed ebbe poi un’idea: “Sia agghindata la giovane di begli abiti da principessa e sia chiamato il più capace artista di Cracovia! Sia lei ritratta nella più bella opera pittorica possibile, la quale dovrà togliere allo sguardo di mio figlio ogni altro pensiero e dovrà, in questo modo, iniettare nel suo cuore il desiderio ardente di conoscere la musa!”.
Al vagabondo fu pagata una cifra ingente con la promessa di un compenso successivo alla riuscita dell’intento e la donnetta muta fu vestita con la dignità e l’eleganza di una principessa. Venne a corte, come stabilito, un grande artista che, nella maestria del suo talento, seppe immortalare la struggente luce dei begli occhi azzurri della bionda fanciullina candida, la quale, nella tela apparve nobile come una zarina.
La regina Bona chiamò dunque il proprio messo e lo incaricò di recapitare questa tela come dono a Sigismondo a Vilnius e di spiegare al giovane sovrano le ragioni che lei stessa gli suggerì.
Quando il messo giunse in Lituania e fu accolto da Sigismondo, questi gli diede il ritratto e gli disse: “Maestà, dalle lontane Russie una facoltosa principessa brama di venirvi in sposa e poiché è rara la sua bellezza, ella vi manda un suo ritratto affinché il dono primo alla vostra dote sia la sua bellezza per la quale tanti pretendenti han perso il sonno ed anche il capo nell’osarle corti spudorate e prive di virtù dell’etichetta!”.
Quando Sigismondo guardò il quadro ne rimase affascinato e volle a tutti i costi conoscere questa fanciulla.
Maestà” – rispose il messo – “poiché vostra madre la regina siede al trono di Cracovia in vostra assenza, prego ritorniate in Polonia per potere esercitare il vostro titolo di re ed avere il diritto supremo d’avere in moglie questa principessa, giacché anche un granduca sarebbe ai suoi riguardi alla stregua di un plebeo”.
Sigismondo fu persuaso dalla raccomandazione del messo e predispose un pronto ritorno a Cracovia, solo a patto che ad accoglierlo ci fosse questa principessa pronta per le nozze.
“Sire” – indugiò il messo – “C’è un cavillo che vi ho omesso e che non posso più tacervi: ella è muta e la sua voce è morta insieme al sangue di una strega che le fece indegno ratto per offenderne la sua beltà. Solo un sincero palpito d’amore può, in tal modo, rompere il suo maleficio e restituirle il dono della voce”.
Temendo un cambio repentino d’idea, il messo notò che la volontà di Sigismondo non fu scalfita da questa condizione, anzi, ciò motivò il sovrano a ritornare a Cracovia in poco tempo, essendo ansioso di conoscere quella fanciulla sfortunata e meritevole di salvezza.
Così il messo ritornò in Polonia ed annunciò la lieta novella dell’arrivo di Sigismondo, pronto più che mai a subentrare al trono del padre e a sobbarcarsi il futuro del regno di Polonia.
Nella festa collettiva alla quale la città di Cracovia si preparava, avanzò pretese il vagabondo che deteneva la fanciulla e con ostinazione disse alla regina: “Il mio compenso non estingue il debito che quello sciagurato di suo padre fece ai miei riguardi! Se ella prenderà marito io perderò il mio credito, perciò non posso più concedere alla Vostra Grazia la fanciulla! Mi sia resa in questo istante!”.
La regina, irritata dall’avidità del vagabondo disse: “Vecchio avido e carceriere! Credi che la prigionia di una fanciulla possa ritornarti i tuoi luridi danari? Credi che i poteri di una corona non siano sufficienti a saldarti un debito? O tu vuoi estorcere alla tua sovrana?”.
“No signora, ma poiché ella è fertile fanciulla, la sua natura sarà il frutto del mio guadagno, secondo l’intento dello sciagurato che me l’ha venduta!”.
La regina, che era donna di grande morale e di somma virtù, inorridì alle parole del vagabondo e per questo disse: “Stolto ed infido straccione! Che tu marcisca nelle carceri più buie del palazzo! Siano i topi a divorar le ingorde carni grigie della tua sozza levatura! Prenderò tra le mie mani le sorti della povera fanciulla e se la perdita della tua libertà è ancora un prezzo basso per il debito a cui tieni, ti sia decapitata quella testa velenosa all’alba del mattino di domani!”.
Così lo straccione fu condotto nelle carceri del palazzo e la giovane fu preparata per l’arrivo di Sigismondo.
Quando questi giunse con tutta la sua corte al palazzo di Cracovia, trovò la madre Bona e la fanciulla ad attenderlo sedute, entrambe, sul trono; omaggiata la regina, il figlio si fermò a guardare intensamente la ragazza e le disse: “L’ardore dei tuoi occhi vivi ha sollecitato un cuore ed una corte intera che ti rende omaggio e qui ti implora, serva, di concederti in mia sposa. Che sia tu regina saggia e bella della splendida Polonia! Per te rinuncio al cuore di altre principesse che al tuo pari sono nulla!”.
A queste parole la fanciulla aveva gli occhi scintillanti e cominciò a singhiozzare. Il giovane sovrano le strinse le mani e le baciò le dita affusolate. Il sentimento fu talmente forte nella ragazza che questa, come se volesse parlare senza riuscirci, iniziò a singhiozzare e a piangere per poi, improvvisamente svenire. Al suo rinvenimento si trovò tra le braccia di Sigismondo, il quale, le chiese subito come si sentisse e lei, con naturalezza, riuscì, miracolosamente a dire: “Bene”.
Quel suono ebbe lo stesso effetto di cento campane la domenica mattina e accese i cuori della corte e della regina, la quale, incoronò con Sigismondo la fanciulla regina di Polonia.
Sigismondo, trasferitosi a Cracovia, diede come nome alla fanciulla “Barbara”, per la sua origine russa e insieme, convolati a nozze, vissero felici, finché dalle segrete del palazzo, una voce stridula e morente di uomo gridò nella notte: “Stolti! Non passeranno più di sessanta lune ch’io mi riprenda il cuor della fanciulla che mi appartiene!”.
La voce spaventò non poco la regina madre, la quale aveva omesso al re, insieme alla nuora, la verità sulle origini della ragazza, ma pregarono affinché quella maledizione fosse solo l’estremo lamento di un disgraziato. Purtroppo però il maleficio fu lanciato e Barbara morì nel proprio letto nuziale, tra le braccia di Sigismondo cinque mesi dopo, all’alba di un mattino.

Tale fu il dolore del re che volle per questo riservarle una grande e sontuosa sepoltura. Non intaccò la profondità del suo amore la conoscenza della verità sulla moglie, tanto che questi portò il feretro a Vilnius e la onorò comunque con i più bei fiori di Lituania e di Polonia.

Il funerale di Barbara fu sontuoso e mai quella terra di Polonia pianse con così tanto dolore la perdita di una regina.

 

Francesco Tamburello

Oltre

Quei suoi occhi così neri, neri come la morte, la mia morte.

Come potevo non perdermici dentro? Cercavo me stessa in quell’abisso sperando di trovare una soluzione per non affogare, perché il mio, di abisso, mi aveva già trascinata giù.

Penso a quelle sue mani tanto grandi e calde. Quante volte le ho ritrovate strette alle mie. Quante altre volte l’ho soltanto immaginato. Da piccola mi divertivo a giocare con la fantasia, ora è la fantasia che si prende gioco di me e nulla ha più senso perché la “mia” realtà non è la realtà “degli altri” ed io inizio ad avere paura: mi sento diversa e la storia insegna che il diverso non si ama, si uccide. Forse è per questo che ho deciso di farlo da sola.

Ripenso al suo abbraccio, il mio unico rifugio; e a quelle labbra, così spesso a un alito dalle mie, ma sempre così lontane e irraggiungibili.

Sì, ormai ho deciso: queste sono le ultime ed uniche memorie che porterò con me. Del resto non ho altro. Ho annullato tutto. Ho annullato centinaia di occhi più intensi e sinceri, migliaia di mani più forti e più calde e decine di labbra dal sapore più dolce, per quegli occhi, quelle mani e quelle labbra che erano l’Inferno. Eppure, ho assaporato il Paradiso nel centro esatto dell’Inferno. Era la malattia e l’antidoto ed io ero… no… io non ero più.

BIIBIP: “Rivoglio la vecchia te”. È notte fonda ma il cellulare non va mai a dormire e forse neanche qualche amico. Io ne ho solo uno, anzi una. E lo so per il semplice fatto che mi dà solo certezze e mai dubbi. E anche lei, così come tutti, da un po’ di tempo, ho annullato. Esisto solo io e quegli occhi, quelle mani, quelle labbra.
Com’era la vecchia me? Una sola parola. Bastò una sola parola per mandarmi in quella che il mio simpatico strizzacervelli definisce depressione e DAP, in gergo “Disturbi da Attacchi di Panico”, o come la chiamo semplicemente io “confusione totale”.

BIIBIP: “VIVA”.

Fu allora che realizzai che ero già morta. Tutti lo siamo. Siamo nati per morire. La nostra intera esistenza si sgretola nell’istante di un sospiro e questo mondo non è altro che la nostra tomba che, muta, ci accompagna nell’illusione di una vita che scorre. È un gioco più grande di noi che siamo inesorabilmente destinati a perdere. E non si bara: non esiste fortuna né alcun asso nella manica; la vita non si fa fregare mai!

È stato un attimo. Avete presente quando siete alle prese con uno di quei compiti di matematica impossibili che non sapete da dove partire per calcolare un’integrale in base alla funzione logaritmica data e guardate quelle formule come antichi geroglifici incisi sulle pareti? Vi scervellate e sudate freddo per due intere ore e poi TAC, un attimo prima di consegnare arriva l’illuminazione e vorreste sbattere la testa al muro per non averci pensato prima.
Ecco, la risposta è sempre stata dietro l’angolo, solo che io continuavo a camminare dritto.

Ed eccomi ora, finalmente decisa, finalmente viva, stesa sui binari, che sembrano abbracciarmi –non vogliono lasciarmi andare.

Accade tutto in un istante. Con l’orecchio destro poggiato sul freddo del rame sento un rumore in lontananza, all’inizio è quasi un solletico, poi comincio a vibrare insieme alle rotaie; lo sento avvicinarsi; vedo delle lucine farsi sempre più forti fino quasi ad accecarmi. Mi sembra di osservare la scena dall’esterno, con gli occhi del vento o del cielo.

Il treno passa ed io rimango lì, ferma, a fissarlo seduta sulla sponda opposta dell’altro binario.
Ho fregato la vita, il resto sono solo scuse. Ho fregato la vita, la morte è oltre…

 

Elisa Iacovo

Una collana nera

-Che ne dici se usciamo fuori?-

Sono a una festa, anche se è quasi giunta al termine, indosso un vestitino grigio e una collana nera. Ricordo benissimo quando ho comprato questa collana, ero a Venezia per la seconda occasione. L’ultima volta che la indossai risale a…tre anni fa esattamente. Oggi non so bene perché l’ho voluta mettere, in fondo non sono quel genere di persona da gioielli.

Lui, invece, ha una giacca amaranto e, si, litri di vino bianco in corpo, anche se non lo dà tanto a vedere, o forse sono io a non capirlo.
Siamo fuori dal locale, abbracciati, a guardare la città, a tratti mi sembra di vedere il mare anche se il mare è più a sinistra.
Vorrei raccontargli che stanotte l’ho sognato ma non ho le parole, o forse sono io che non voglio raccontarmelo di nuovo…l’ho sognato a una partita allo stadio con…quella che aveva tutta l’aria di essere la sua fidanzata. Ricordo che aveva la frangetta e i capelli morbidi e non troppo ricci, che lo guardava in un modo che quasi le invidiavo. Come se fosse l’arcobaleno dopo la tempesta o una farfalla in primavera.
Eppure lui non la guardava mai, o quando lo faceva, non la guardava in quel modo.
Io ero lì, vicina a loro, ma cercavo di essere il meno presente possibile, nonostante avessi tanto voluto parlare con lui, ridere e abbracciarlo come ho sempre fatto.
Ricordo che, finita la partita, vagavo sola per la città, avevo bisogno di pensare o semplicemente di camminare un po’ da sola, finché il telefono squilla ed è lui che mi dice di aspettarlo che sta tornando, che mi ha visto un po’ strana e voleva sapere come stavo, che aveva lasciato la ragazza a casa e stava arrivando.
Vorrei raccontargli che, stamattina al mio risveglio, non ho fatto altro che pensarci e ripensarci, a chiedermi come saremo tra dieci anni o semplicemente l’anno prossimo, ci guarderemo intraprendere relazioni senza fare alcun tipo di rumore e poi, una volta soli, potremo di nuovo tenerci per mano e abbracciarci?
Che poi due amici non si tengono per mano come facciamo noi, e soprattutto, non desiderano così tanto baciarsi. Perché qui, adesso, mentre sono tra le sue braccia con la testa sulla sua spalla, respirando il suo sottile profumo, non desidero altro che le sue labbra.
E succede.
Come può una persona piacermi così tanto? Un amico, poi.
Forse non dovremmo baciarci- gli dico
Ci stiamo già baciando– e continua – se a tutte e due piace perché non dovremmo?

Serena Votano

Twice – Alle spalle del nuovo mondo

   – Capitolo 1

 

Dalle fogne in cui stavamo non ne sarebbe uscito mentalmente vivo neanche un pazzo.

Gargan portava le casse di birra alla vecchia locanda, lamentandosi come al solito del cattivo odore che aleggiava quella mattina fra le alte pareti di roccia che ospitavano alla loro base la città di Larvaria.
Io dietro di lui, portando un’altra cassa di legno, ascoltavo ridendo le sue invettive contro la vita, contro i soldi che mancavano sempre e contro Becero, il proprietario della locanda.
Era un ragazzo muscoloso Gargan, alto e dai capelli nero corvino che scendevano con due ciuffi sulle spalle e corti sulla fronte.
«Maledetto sia questo posto» borbottava «Che io muoia oggi stesso: non resterò per sempre qui a portare birra a quei cinque ubriaconi dei Follester che frequentano questo buco merdoso di Becero».
Già, parole davvero strane per uno di Larvaria, che al massimo può aspirare a non lavorare per strada.
La città di Larvaria era l’ultimo insediamento abitato prima del Grande deserto di Yalon, frequentata dai più svariati uomini di frontiera; se volevi andare oltre il deserto, dove ci stavano le grandi città dell’ovest, allora dovevi necessariamente passare da qui.
Larvaria è posizionata sull’uscio interno di una gigantesca caverna che la protegge anche dalle furiose tempeste del deserto.
Il problema, però, è proprio questo: le continue tempeste portano in questa città uomini provenienti dal deserto e molti di loro sono mercenari senza scrupoli provenienti dall’ovest.
Questi individui nel tempo si sono fatti sempre di più e hanno ridotto Larvaria a quello che è adesso: un buco pieno di criminali, barboni e altra gente poco raccomandabile.
Anche se la situazione non è delle più ottimali, la vita per i poveri qui è tranquilla ma difficile a causa della carenza di lavoro “onesto”.
È proprio così che ritorniamo a parlare di me e di Gargan, due ragazzi con rispettivamente 16 e 18 anni che sono fortunati ad avere un lavoro come garzoni alla locanda più frequentata di Larvaria: “Il bicchiere di legno” del signor Becero, uno degli individui più ripugnanti che questa città abbia mai visto.
«Wilo» era il nomignolo con cui mi chiamava Gargan «È arrivata qualche lettera da tuo zio oggi?» mi chiedeva mentre sistemavamo alcune casse di liquori nel magazzino della locanda.
«No, Gar, non è arrivato niente neanche oggi».
«Inizio a pensare che quel tuo zio non esista e che tu mi abbia preso per il culo» mi disse con aria rassegnata.
«Ehi, non dare la colpa a me! Te l’ho detto che non avrebbe funzionato ma tu hai voluto mandargli comunque la lettera» dissi voltandomi verso di lui con le mani imbronciate sui fianchi.
Gargan posò l’ultima cassa ai piedi di un grande scaffale in quercia e si sedette sopra di essa:
«Lo so, scusami…» si massaggiò gli occhi «È che non mi capacito di come il mondo ci abbia confinato qui con tutto quello che c’è da vedere lì fuori».
«Non disperarti» gli dissi io mentre avvicinavo la mia mano alla sua spalla «Qui abbiamo una casa e un lavoro che ci permette di mangiare e di bere».
«Qualche spicciolo e un pezzo di pollo avanzato dalle cucine ti sembra una vita dignitosa?» disse mentre si alzò di scatto dalla cassa «Io voglio guadagnare una fortuna nei grandi mercati dell’ovest, vivere in una lussuosa casa sulla collina più bella di questo mondo e sposare un’elfa alta e dai capelli scuri» urlò esaltato alzando il manico di scopa al cielo che stava di fianco a lui.
«Gar, abbiamo fatto questo discorso migliaia di volte» lo guardai dispiaciuto «Non succederà mai nulla di simile, siamo relegati a questo posto; e poi cosa farai una volta fuori da Larvaria? Non avremmo cibo, bevande…».
«Di quello non ti devi preoccupare, Wilo! Potremmo rubare qualcosa dalla locanda ogni giorno e-».
Nel momento in cui spiccò un salto dalla cassa su cui si era salito per tenere quel discorso rivoluzionario, Becero fece la sua comparsa dalla porta alla nostra sinistra:
«Brutte teste di cane ingrate!» sbraitò contro di noi «Io vi pago per mettere in ordine il mio magazzino e servire i miei clienti, non per oziare seduti sulla mia merce! Idioti!»
Inutile dire che scattammo sull’attenti, spaventati dall’ipotesi che potessimo perdere il lavoro; era un’opzione molto probabile dato che metà di Larvaria avrebbe ucciso per avere dei posti di lavoro come i nostri e per di più sotto la protezione di uno come Becero.
«Ci scusi, signor Becero» disse Gargan ingoiando un rospo dallo spavento «Stavamo riprendendo un attimo fiato, non accadrà più glielo assicuro».
Becero, leccandosi con la lingua uno dei tanti denti marci e corrotti dal tabacco, si avvicinò a noi con fare minaccioso e mi prese dal colletto della casacca:
«Sarà meglio per voi che righiate dritto, figli di nessuno, o vi ridarò in pasto alla strada» disse mentre mi dava uno spintone e il mio sedere toccava terra.
Andò via chiudendo con forza la porta alle sue spalle.
Gargan mi aiutò immediatamente:
«Stai bene Wilo?»
«Sto bene Gar, tranquillo» risposi massaggiandomi le natiche.
«Quel vecchio bastardo un giorno la pagherà cara per come ci tratta».
«Su dai, non dovevamo oziare; passa oltre questa volta».
Gargan mi guardò negli occhi:
«Non reggo più, Wilo…»
«Invece dobbiamo reggere insieme questa situazione. Becero maltratta chiunque, non solo noi» lo confortai.
Dopo che dissi ciò, riprese il suo lavoro in silenzio fino a notte, quando la luna scomparve alla base delle gigantesche stalattiti pendenti dalle labbra superiori dell’uscio della caverna.

Era passata la mezzanotte e il nostro turno di lavoro giornaliero giungeva finalmente al termine.
«Gar, ricorda di prendere la paga dal signor Becero prima di uscire mentre io vado a cercare un passaggio» dissi guardandolo dalla lontana oscurità del magazzino.
«Sì, non temere».
Decisi allora di andare in strada per cercare qualche commerciante che stesse tornando verso il nostro distretto, con l’intenzione di chiedere un passaggio ed evitare lo squallore dei quartieri notturni.
«Ehi, Wilord» qualcuno gridò alle mie spalle mentre uscivo dalla porta sul retro della locanda.
Mi voltai.
Davanti a me un mezz’uomo dai capelli biondi e una pipa di colore scuro in bocca: era Raldo, il ragazzo che si occupava del turno di notte alla locanda.
«Ancora non hai smesso di fumare quella pipa lercia, Raldo?» chiesi sorridendo.
«E mai finirò» rispose «È sempre meno lercia di molta gente del posto, questo è poco ma sicuro».
Ridemmo insieme.
«Il vecchio è sempre di malumore?» mi chiese Raldo portando alla sua pipa altro tabacco da ardere.
«Come sempre, anzi guarda, oggi meno del solito. Ci ha sgridato soltanto una volta».
«Cosa?! Una sola?! Becero si sta rammollendo» alzò le spalle e tirò una fumata «Beh, prima tira le cuoia meglio è; ci sarà solo sporcizia in meno».
Raldo era probabilmente una delle poche persone sane di mente di Larvaria e di cui io e Gargan ci potessimo fidare ciecamente.
Lo conoscevamo sin da piccoli, fu lui che si prese cura di noi per un breve periodo dopo che i nostri genitori morirono; molte volte abbiamo chiesto di sdebitarci ma non ha mai voluto nulla in cambio, neanche una maledettissima pinta di birra.
Era una brava persona e meritava tutto il nostro rispetto.
«Conosco quello sguardo Wilord».
«Che sguardo?»
«Gargan ti ha ancora chiesto di lasciare Larvaria, vero?» chiese come se stesse leggendo un libro aperto.
«Già…» risposi abbassando la testa verso le mie scarpe logore.
«Sai, non dovresti prendertela con lui» tirò un altro boccata dalla pipa «In un posto come questo sognare è un privilegio raro; Gargan è sempre stato un sognatore, non togliergli questo dono».
Innalzai il viso al cielo color pietra che avevo sopra la testa e pensai:
Ho davvero sbagliato con Gar? Non voglio dargli false speranze però…
«Beh Wilord, io inizierei il mio turno» disse mentre gettava per terra la cenere della pipa «È stato bello poter scambiare due parole su Gargan con te».
«Anche per me Raldo; se hai bisogno di qualsiasi cosa sai dove abitiamo».
Lui sorrise e si diresse verso la porta alla mia destra.
Il vicolo in cui ci trovavamo era buio ma le luci provenienti dalla strada alla fine del cunicolo illuminavano quanto bastava per riconoscere i bordi degli elementi presenti intorno a noi: immondizia, lerciume, pezzi di casse sfondate da chissà chi e la vecchia insegna della locanda accanto all’uscita sul retro.
Quando Raldo aprì la porta però, un fortissimo urlo c’investì:
«AAAAH! ALL’ASSASSINO! HANNO UCCISO IL VECCHIO BECERO».
Inutile dire che sia io che Raldo entrammo di corsa e ci dirigemmo verso la sala principale della locanda per poi svoltare verso la camera del vecchio.
I clienti seduti ai tavoli scostarono la testa all’indietro, cercando di capire cosa fosse successo senza lasciare le loro bevande sul tavolo; probabilmente per paura che qualcuno gliele rubasse.
Arrivammo sul luogo dell’accaduto: Greta, la sguattera umana gridava tenendosi la bocca con una mano e cercando di trattenere il vomito.
Io e Raldo la scostammo dall’uscio e guardammo all’interno della stanza.
Il corpo di Becero giaceva per terra cosparso da fori che sembravano essere quelli dello stesso pugnale che giaceva in mezzo ai suoi occhi senza vita.
«Che diamine è successo?!» disse Raldo rivolgendosi a Greta.
«Non lo so, davvero» rispose singhiozzando «Stavo pulendo il bancone e mentre asciugavo sono incappata in una moneta d’argento. Volevo portarla a Becero ma l’ho ritrovato così».
Raldo parlava con Greta chiedendogli ogni dettaglio mentre io mi guardavo intorno in cerca di Gargan.
Ad un tratto un pensiero terribile mi assalì la mente: “Non può essere, non può proprio essere” dissi continuando a girare su me stesso.
Un uomo con una folta barba, calvo e con una cicatrice sulla guancia, ad un tratto si alzò dal suo tavolo portandosi appresso il suo boccale di birra:
«E così è morto il vecchio Becero» disse sporgendosi dalla porta e richiamando la nostra attenzione continuò «Beh, parlerò senza mezzi termini: se qualcuno di voi è o conosce il responsabile parli adesso e sarà trattato con i guanti d’oro, altrimenti lo scopriremo e se la vedrà coi Rapaci».
All’udire di quel nome il mio sangue, quello di Raldo e di Greta gelò all’istante.

Umberto Spaticchia

Quel tiranno chiamato tempo

Passavo la mia vita sentendomi perennemente in ritardo. 

Sentivo le lancette del tempo muoversi addosso, sulla pelle, come aghi pronti a far sentire tutta la loro pesantezza, la loro presenza.
Mi trovavo intrappolato in una realtà altra, fatta di un tempo altro, un tempo che sapeva, a volte scorrere troppo velocemente, altre troppo lento.
Un tempo che sembrava beffarsi del mio continuo correre, come a dire “contro di me non potrai vincere”.
Io e il tempo, una maratona infinita che sembrava persa in partenza.
Chiusa nei miei rigidi programmi, schemi mentali, mi soffocavano come quel tempo tiranno che era sempre li pronto a ridere di me.
Troppo presto per arrendermi, troppo tardi per cambiare strada. 
TIC TAC.
Continuavo, schiavo, ad andare avanti, quasi per inerzia, arrancando in quel cammino da cui non riuscivo a intravedere un punto d’arrivo, con un masso attaccato alle gambe pronto a rallentarmi.
TIC TAC.
Le lancette scorrevano inesorabilmente, come un fiume in piena ed io non riuscivo a nuotarci, mi trovavo travolta.
TIC TAC.
Secondi, minuti, ore che sembravano anni e che segnavano il mio viso, la mia anima come se un giorno valesse un secolo.
TIC TAC.
Alla cieca, andavo avanti cercando di programmare minuziosamente ogni attimo per non farmi più trovare impreparato, per non dover incassare un altro colpo dal mio nemico, il tempo.
Agile, lui, sembrava conoscere ogni mia mossa, pronto, spedito, al contraccolpo, con il suo ghigno peggiore, indifferente alle mie suppliche, ai miei lividi, ai miei tentativi di rivalsa.
TIC TAC.
Un’altra giornata stava finendo, anche oggi lui aveva vinto, vani erano stati i miei tentativi di padroneggiare quelle lancette.
Il sole stava calando, un caldo e timidi tramonto colorava il cielo davanti a me.
Colori cosi vivi che presero spazio tra i miei pensieri, tra le mie lotte perse.
Colori che si contrapponevano a quel grigio che ero io, un grigio che a loro confronto era imbarazzante.
Non so cosa cambiò da quella vista, ma lì, davanti a quel cielo presi coscienza che io ero lì, io senza il tempo, senza le lancette, senza il fardello del passato, senza le ansie del futuro…io e il cielo.
Io e il silenzio.
Nessuna voce pronta a rimproverare i miei ritardi, il mancato “fatto” sull’agenda.
In quel momento capì che stavo perdendo qualcosa che non avevo scritto tra le mille cose da fare, qualcosa che non avevo annotato sui mille post-it attaccati ovunque, qualcosa che, in quel momento, prepotentemente dimenava per farsi vedere, sentire: LA VITA.
Scalciava lì, come un bambino in cerca di attenzioni, per troppo tempo l’avevo trascurata, eppure era rimasta sempre lì, cosi colorata, così energica, così calda.
Occupata nella mia eterna lotta contro il tempo, l’avevo lasciata lì sul ciglio di quella strada che, affannosamente, cercavo di percorrere e adesso rivendicava la sua presenza.
Quel giorno capì che lei, la Vita, non mi avrebbe più aspettata. 

 Marika Spanò 

Ti è mai capitato ?

Ti è mai capitato di sentirti vuota, una mattina meno fredda delle altre, con le coperte fin sopra la testa, i capelli sugli occhi e le ginocchia ben strette al petto, ti è mai capitato?

Guardarti intorno e non capire nessuno, non riuscire a trovare una spiegazione a nulla, nemmeno alla vita. Sentire qualcosa di insensato nel presente, nonostante sia la vita che hai sempre desiderato, e al contempo rifiutarsi di tuffarsi nel passato, non riuscire a immaginare il futuro.

Questa situazione di limbo tra una salita e una discesa allo stesso modo ripida.

Ti è mai capitato di sentirti alla ricerca di qualcosa una sera da sola, tra le strade di una città che non è la tua, con in bocca una sigaretta finita troppo velocemente, e una porta che non si riesce a varcare, ti è mai capitato?

Ecco, io questa sera non riesco a tornare a casa, son già tre volte che faccio il giro dell’isolato e ogni volta, senza nemmeno fermarmi, supero il portone e torno a fare il giro lungo. Come se fossi alla ricerca di qualcosa, una soluzione forse. E allora, stanca di camminare, mi siedo nella panchina in piazza, sotto un albero. Sono completamente vestita di nero, in modo da mimetizzarmi nell’ombra. Sono giorni che mi vesto unicamente di nero, è l’unico colore che riesco a sopportare senza farmi venire la tachicardia o l’emicrania.

Ho sempre considerato tristi le persone solitarie il venerdì sera, e oggi che la solitaria sono io mi sento ancora più triste, e stranamente pesante. C’è come una grossa pietra tra la gola e la bocca dello stomaco. Difficile da spiegare.

Mi sento come fuori posto, tutti sentono la necessità di pensare e ripensare sulle cose, parlarne e riparlarne e ripetere sempre le stesse parole, ma io no, io penso forse troppo velocemente. Vivo una situazione e mi rendo conto di averla già pensata e aver già preso decisioni su di essa. Sono forse sbagliata?

E non sopporto farmi vedere debole e triste. Io …

In cuor mio so già cosa fare, devo lasciare tutto , magari cambiare casa, trovare qualcosa di più grande.

Ho sempre sognato di viaggiare ma scappare è ben diverso: quando scappi, qualsiasi posto diventa la meta. Un viaggio alla Kerouac, che ormai nessuno fa perché nell’era digitale basta aprire internet e prenotare il primo volo meno costoso a giorno stabilito nell’hotel meno costoso ma più vicino al centro storico circondato da ottimi ristoranti o dai più bei paesaggi da fotografare all’alba per il nostro profilo Instagram come se ci fossero davvero dei “followers” in attesa della nostra foto della colazione o di un selfie con annessa frase filosofica che non ha nulla a che vedere con la foto o del nostro piatto caldo che nel frattempo diventa freddo.
Vivo male questi momenti d’insicurezza, il “vivere comune” insegna che i problemi corrono più veloce delle proprie gambe, che quella di scappare non è mai la “scelta giusta”.
E poi basta con questa questione della scelta giusta! Giusta per chi? Sulla base di cosa?

Così, sotto questo albero, guardando tutte le persone che passeggiano, i ragazzini che ridono e scherzano, un musicista poco più avanti che cerca malamente di suonare “Sweet child o’mine” , mi riprometto di non pensare più alle “scelte giuste” o alle “scelte sbagliate”. Di respirare più a fondo, guardarmi di più intorno.

Alcune soglie invarcabili sono invisibili, sono tutte quelle paure che non sappiamo affrontare. Così mi dico che è arrivato il momento di prendere in mano la mia vita, smetterla di cercare di essere capita come se fosse l’unica soluzione per dimostrare che esisto, smetterla di essere alla ricerca di qualcosa sapendo che la soluzione è scappare. Smetterla di pensare al passato o al futuro e continuare a costruire il presente.

Mi levo il cappello nero, sposto i capelli dietro le orecchie, devo riuscire a varcare quella porta.

L’incapacità di andarmene mi rende fragile e arrendevole. L’incapacità di restare mi rende polemica e instabile.

Faccio un altro giro dell’isolato, dopo magari riuscirò a tornare a casa.

Serena Votano

Momenti

Come coriandoli,

rossi di passione, neri di dolore, rosa di dolcezza, gialli di felicità, blu di tranquillità, verdi di speranza, grigi di tristezza.

Prendine un pugno, senza farne differenza, lanciali sopra di te!

Li vedrai salire e spinti dal vento, cadere intorno a te:

Solo pochi ti rimarranno addosso, altri col tempo li perderai.

Altri ancora saranno lì; lì per scivolare o li condividerai con chissà chi.

I primi, i più forti, i più fortunati resteranno su di te, nascosti tra i capelli, nelle tasche di qualche vecchio jeans. Non te ne libererai mai.

Ti condizioneranno la vita, li ritroverai nei giorni a venire e si ripresenteranno a te, ingestibili e pieni di emozione.

In fondo sono “solo” momenti!

Andrea Barbarello