Le future serre su Marte e sulla Luna

Produrre cibo nello spazio sembra essere l’unica soluzione per permettere agli astronauti di effettuare dei viaggi nello spazio per una lunga durata. Il progetto consiste nella creazione di delle serre all’interno delle basi lunari e marziane. Gli esperti si sono riuniti nel convegno organizzato a Roma dall’Agenzia Spaziale Italiana e il nostro ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, ritiene molto importante un ruolo attivo dell’Italia in questo progetto.

Le diverse idee per la produzione di ortaggi dello spazio

Molte aziende italiane sono già partite nella progettazione di soluzioni che siano sostenibili e adattabili alle diverse condizioni, come la Thales Alenia Spaced, che ha avviato delle sperimentazioni sulla coltivazione di micro-ortaggi e patate. L’obiettivo è quello di usare un sottile substrato di coltivazione stampato in 3D; la stampa 3D è un processo di produzione che consente la creazione di oggetti tridimensionali a partire da un modello digitale.

La Ferrari Farm, che è un’azienda agricola di Rieti, sta lavorando alla creazione di serre elettroniche in grado di gestire le coltivazioni tramite un computer in spazi ermetici e illuminati a led. In sviluppo anche una versione per coltivare verdure all’interno di un appartamento, il che permetterebbe di coltivare anche nelle città.

Microortaggi. Fonte: Defense Visual Information Distribution Service / Picryl.com

La startup genovese Space V sta lavorando allo studio di una serra che che sia in grado di modificare il proprio volume in base allo spazio richiesto dalle piante. L’utilizzo di un bioreattore per riutilizzare acqua e residui vegetali, facendoli digerire da microalghe in modo da trasformarli in substrato per la coltivazione.

Anche Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, è impegnata nella sperimentazione di un orto ipertecnologico: la serra è automatizzata e dotata di un braccio robotico, si coltivano ravanello e cavolo rosso. Questa serra innovativa sarà destinata alle basi marziane nella missione Amadee-24 organizzata dall’Austrian Space Forum e l’Agenzia Spaziale Armena.

Ma cosa sono i micro-ortaggi?

I micro-ortaggi sono piantine giovani e tenere di ortaggi che vengono raccolti dopo 7-20 giorni dalla semina. Sono un’innovazione anche nel campo della salute, in quanto sono ricchi di minerali, vitamine, antiossidanti, acido folico, e altre sostanze bioattive, circa 10 volte più dei normali ortaggi. Sono uno strumento essenziale per la prevenzione della malnutrizione e di molti altri disturbi in quanto rinforzano il sistema immunitario; al contrario una dieta carente di queste sostanze bioattive aumenterà il rischio di sviluppare patologie o malattie di diverso tipo e gravità nell’individuo. Quindi, un consumo frequente di questi prodotti ci permette di sentirci più energici e di stare meglio, ci aiutano a ridurre le infiammazioni al fegato, ridurre l’accumulo di colesterolo cattivo nel sangue, aiutano i processi digestivi, disintossicano l’organismo, permettono un migliore funzionamento del sistema nervoso.                                                                                                                           Sono davvero tantissime le specie di ortaggi utilizzate in questa produzione: spinaci, bietola, sedano, carota, finocchio, radicchio, lattuga, cavolfiore, grano tenero e duro, avena, mais, orzo, riso e tante altre.

Nonostante siano già partite le diverse sperimentazioni, non si sa ancora quando sarà possibile l’avvio di questo progetto nelle basi lunari e marziane. Il prossimo viaggio sulla luna è previsto nel settembre 2025 e per questo sarebbero auspicabili dei risvolti interessanti sul progetto di coltivazione spaziale.

Marta Cloe Scuderi

Fonti: ansa, pubmed
https://www.ansa.it/amp/canale_scienza/notizie/spazio_astronomia/2024/03/21/micro-ortaggi-e-stampa-3d-per-le-future-serre-su-luna-e-marte_bcf6e87a-b93f-4a51-bc5e-1aa02c22db83.html

La corsa allo spazio tra costi e benefici

Qual è la cosa più sensazionale che abbiate mai fatto in 108 minuti? Il tempo di un’uscita in buona compagnia, un pranzo in famiglia, quasi, ahimè, il tempo che si impiega per percorrere in auto la tratta Messina-Palermo. Qualunque cosa abbiate potuto fare in quest’arco di tempo, non supererà mai l’impresa di Jurij Gagarin. L’astronauta russo, infatti, sessant’anni fa è stato il primo essere umano ad essere spedito nello spazio: completò un giro attorno alla Terra in ben 108 minuti (Jules Verne sarebbe impallidito al risultato). Era il 12 aprile 1961, quando la corsa allo spazio tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America era sempre più accesa. Fu proprio questa competizione per il dominio spaziale a far crescere esponenzialmente i finanziamenti per la ricerca su questo fronte, tant’è che alcune imprese ad oggi non sono state mai più ripetute. Poco più di un anno dopo, il presidente John Kennedy annunciava: “Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare le altre cose non perché sono facili, ma perché sono difficili! […] perché quella è una sfida che siamo disposti ad accettare, una che non siamo disposti a posticipare ed una che intendiamo vincere”. Così, con la missione Apollo 11, il 20 luglio 1969 Neil Armstrong e Buzz Aldrin furono i primi uomini a mettere piede sulla Luna, dove piantarono la bandiera americana come simbolo. Da quel momento, conclusasi anche la Guerra Fredda, la corsa alla supremazia spaziale rallentò molto, così come diminuirono gli investimenti.

Yuri Gagarin con la tuta spaziale – Fonte: skytg24.it

Per renderci conto dell’imponente crescita scientifica che ha caratterizzato quegli anni, immaginiamo una linea temporale. Partiamo dalla Grecia: Tolomeo studia gli astri ad occhio nudo. Ci vorranno circa 1500 anni prima che Galileo inventi il primo sistema di lenti capace di osservare i corpi celesti “da vicino”: il telescopio. È il 1609 e sono solo pochi visionari a credere nella teoria eliocentrica. Dobbiamo aspettare i primi decenni del ’900 per vedere i primi razzi a propellente, ma è solo nel ’42 che si riesce a spedirne uno oltre l’atmosfera. Da qui il primo satellite inserito in orbita terrestre, lo Sputnik 1, poi Gagarin e l’uomo sulla Luna: tutto concentrato, insomma, in pochi decenni.

Ma perché continuare a investire nell’esplorazione spaziale? È una domanda che potrebbe far indignare un qualsiasi astrofisico sommerso da formule e numeri, ma anche alimentare (come ha già fatto) diverse critiche, soprattutto sul web. La risposta è semplice. Basti pensare ad internet ed ai GPS che ci aiutano a trovare il ristorante di cui ci ha parlato un amico. O ancora, il semplice controllo delle previsioni meteo prima di uscire, per sapere se è meglio portare l’ombrello oppure no. Chissà cosa ne pensano i sopravvissuti ad uragani e inondazioni devastanti, salvati dai presagi tempestivi che ne hanno permesso l’evacuazione. Dalla salvaguardia delle foreste e l’avanzare degli incendi, allo scioglimento dei ghiacciai, al monitoraggio del buco nell’ozono e all’inquinamento atmosferico: tutti dati satellitari. Se volessimo parlare di benefici indiretti, si pensi, solo per fare un esempio, ai miglioramenti dati alla diagnostica medica: è grazie al telescopio Hubble che si può fare prevenzione individuando microcalcificazioni al seno, indicatrici di possibili tumori. E questi sono soltanto pochi ed essenziali benefici di cui godiamo giornalmente e che sono possibili grazie all’esplorazione spaziale, anche se sconosciuti ai più.

Analizzando i costi, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) nel 2018 ha ricevuto finanziamenti dai vari membri dell’Unione pari a 5,6 mld di euro con un PIL europeo pari a 13.483 mld di euro. Nel 2019 soltanto gli italiani hanno speso 110,5 mld in gioco d’azzardo. La NASA invece, sempre nel 2018, ha ricevuto finanziamenti per 19 mld di dollari; la guerra in Iraq ha avuto un costo complessivo di circa 2.400 mld di dollari. Come se non bastasse, secondo uno studio della London Economics, in Europa il ritorno economico diretto sugli investimenti ESA sarebbe di 3-4 euro per ogni euro investito. Le conclusioni che possono essere tratte da questi dati sono molto semplici.

Dopo lo sbarco sulla Luna, il progresso è stato in crescendo: basti pensare alle sonde Voyager (lanciate nel 1977) ancora attive, al telescopio Hubble mandato in orbita negli anni ’90, alla Stazione Spaziale Internazionale che è continuativamente abitata dal 2 novembre del 2000. Siamo anche riusciti a fare atterrare dei piccoli robot su Marte, in ordine: Spirit, Opportunity e Perseverance (atterrato il 18 febbraio). Non finisce qui: nel 2022 inizierà il programma Artemis che punterà a riportare l’uomo sulla Luna nel 2024.

Il rover Perseverance – Fonte: esa.it

È probabile che, alla base dell’esplorazione, ci sia più di tutto questo. È la voglia di conoscere insita in ogni essere umano, la paura di pensare che tra miliardi di galassie in un universo in continua espansione potremmo essere soli, persi in un oceano nero su una nave blu senza una rotta precisa, a spingerci ad esplorare le profondità dello spazio. È la possibilità di vedere il nostro pianeta da una prospettiva diversa, come la vide Gagarin che, via radio, disse:” Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini”.

Giovanni Alizzi

Fonte immagine in evidenza: astronautinews.it

Perseverance: il rover è su Marte

Dopo 7 mesi di estenuante attesa e 470 milioni di chilometri di spazio percorsi, alle 21:55, ora italiana, il rover Perseverance della NASA ha toccato il suolo di Marte. Ma perché questa missione è così importante?

Gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, USA, osservano il primo test di guida per Perseverance della NASA il 17 dicembre 2019.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Prima dell’ammartaggio: i ‘’sette minuti di terrore’’

Così viene definito il tempo necessario all’ammartaggio, in cui il centro di controllo non può correggere eventuali errori causati dai famosi sette minuti di ritardo tra la Terra e Marte. Tutto è quindi nelle mani dei sistemi di bordo a dir poco precisi del rover. Perseverance è entrato nell’atmosfera raggiungendo i 1300 C° ad una velocità di 1600 chilometri orari, protetto da uno scudo termico. Quando quest’ultimo si è sganciato, ha lasciato spazio all’apertura del paracadute di circa 21 metri che ha attutito la caduta, rallentando la discesa del rover a circa 400 chilometri orari. Da questo momento in poi sono entrati in gioco i retrorazzi, che hanno accompagnato il robot fino al suolo, facendolo scendere dolcemente tramite l’argano montato sulla sommità dei propulsori ed attaccato tramite cavi al corpo di Perseverance, per poi sganciarsi ed atterrare poco più distante.

Perseverance ha raggiunto sano e salvo il cratere Jezero, letto di un antico lago marziano, il 18 febbraio 2021. Il viaggio e l’esplorazione del pianeta rosso fanno parte della missione spaziale Mars 2020, iniziata proprio con il lancio della sonda lo scorso 30 luglio da Cape Canaveral in Florida.

Perseverance lanciato su un razzo Atlas V-541 dal Launch Complex 41 a Cape Canaveral Air Force Station, Florida.
Fonte: https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/launch/

Gli obiettivi della missione

Uno degli obiettivi di Perseverance è quello di cercare segni di antica vita microbica su Marte. Ciò permetterà alla NASA di studiare la passata abitabilità del pianeta. In particolare, gli scienziati sono interessati ai sedimenti trasportati dagli antichi fiumi nel cratere. Queste rocce sono molto importanti in quanto potrebbero tener traccia di sostanze organiche, segno della possibile vita passata di Marte. Il rover si impegna, inoltre, a raccogliere rocce vulcaniche, in modo tale da poter stabilire i cambiamenti geologici e ambientali nel corso del tempo.

Oltre a queste, innovative tecnologie verranno testate per aumentare i sistemi protettivi delle tute spaziali, in vista di possibili e future missioni umane sul pianeta rosso. Le missioni saranno supportate anche grazie allo studio dell’ossigeno estratto dall’atmosfera, volto a verificare con maggior chiarezza la possibilità di autosostentamento degli astronauti sul gemello della Terra.

Prima immagine di Marte da Perseverance.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Operazioni al suolo di Perseverance

Perseverance è dotato di sette strumenti, tra cui fotocamere, radar e sistemi laser per l’analisi del suolo e della sua composizione. Vi è anche un trapano rotante in grado di perforare il terreno di circa 5 centimetri. I frammenti ottenuti verranno raccolti e sigillati ermeticamente dentro tubi di titanio (il peso di ogni campione è di circa 15 grammi). Il rover trasporterà a bordo i campioni sigillati, fino a quando il team che si dedica alla missione deciderà di depositarli sulla superficie marziana.

Secondo il piano, Perseverance sistemerà le capsule in posizioni strategiche, in modo tale da poter essere raccolte da missioni future. A questo proposito, l’European Space Agency (ESA) prevede di usare il Sample Fetch Rover durante la missione Sample Retrieval Lander della NASA. Il rover dell’ESA raccoglierà i campioni che Perseverance ha depositato e li porterà al lander, dove saranno accuratamente conservati in un Mars Ascent Vehicle (MAV). Il MAV lancerà il container con i campioni dalla superficie marziana, mettendolo in orbita intorno a Marte.

Ingenuity

Insieme a Perseverance c’è Ingenuity, un drone di piccole dimensioni a forma di elicottero . Sarà utilizzato per testare l’effettiva possibilità di volare sul suolo marziano per potersi spostare con più facilità e a una velocità maggiore, in quanto il rover può percorrere pochi metri al giorno. Una serie di test di volo sarà eseguita su una finestra sperimentale di 30 giorni marziani che inizierà nella primavera del 2021. Per il primo volo, l’elicottero decollerà a pochi metri da terra, si aggirerà in aria per circa 20-30 secondi e atterrerà. Dopo di che, il team tenterà ulteriori voli sperimentali di crescente distanza e maggiore altitudine. Dopo che l’elicottero avrà completato la sua dimostrazione tecnologica, Perseverance continuerà la sua missione scientifica.

Rappresentazione artistica di Ingenuity sul suolo marziano.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Un barlume di speranza

Ieri il team della National Aeronautics and Space Administration ha raggiunto un grande obiettivo, dal momento che sul totale di missioni verso il suolo marziano, circa il 60% è risultato fallito. Perseverance rappresenta un barlume di speranza per avvicinarci ancora di più alla risposta alla domanda: siamo mai stati soli nell’Universo?

”Mi sono dato come legge di procedere sempre dal noto all’ignoto, e di non fare alcuna deduzione che non sgorghi direttamente dagli esperimenti e dall’osservazione.”

 

Serena Muscarà

 

Bibliografia
https://mars.nasa.gov/mars2020/mission/overview/

https://mars.nasa.gov/technology/helicopter/

https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/launch/

https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/surface-operations/

https://www.esa.int/ESA_Multimedia/Images/2020/04/Perseverance_rover

https://mars.nasa.gov/news/8865/touchdown-nasas-mars-perseverance-rover-safely-lands-on-red-planet/

 

The Martian: la fisica strampalata di Hollywood

Un’analisi scientifica del film di Ridley Scott, tra buffe imprecisioni e trovate (poco) geniali.

Avere una laurea in fisica ha diverse ripercussioni. La perdita della sanità mentale? Certo, soprattutto quella. Ma anche guardare un film con occhio critico (anzi, ipercritico). Così è stato quando ho avuto la felice idea di guardare “The Martian – Il sopravvissuto”, prodotto e diretto da Ridley Scott.

Siamo su Marte. L’equipaggio della missione Ares 3 della NASA raccoglie campioni da analizzare. Ancora non ho fatto in tempo a trovare la mia sedia al multisala che noto il primo errore: la camminata degli astronauti. Essendo la gravità marziana, infatti, circa un terzo di quella terrestre, gli astronauti avrebbero dovuto procedere per piccoli balzelli.

L’equipaggio ad un certo punto è costretto a partire a causa di una violenta tempesta. Domanda: ci sono tempeste così violente su Marte?  Parecchio improbabile, quasi impossibile. Questo perché la densità dell’atmosfera marziana è circa 1/100 di quella terrestre. Ma vabbè, partono.

L’astronauta Mark Watney (Matt Damon) viene colpito da dei detriti e trafitto da un palo di metallo; creduto morto a causa dei danni elettronici riportati nella tuta, viene lasciato sul pianeta rosso. Ovviamente, da buon americano, si toglie il palo ben inserito nel suo intestino con estrema facilità, per poi chiudersi la ferita con una spillatrice, senza nemmeno imprecare un po’ per il dolore. Se fossi un medico mi indisporrei un po’, ma sono un fisico, dunque glisso su questa parte e vado avanti.

A questo punto il nostro Superman marziano, conscio che nel breve periodo non c’è nessuna possibilità che la NASA possa tornare a riprenderlo, è costretto ad affidarsi al suo ingegno e alle sue conoscenze scientifiche per sopravvivere all’angusto territorio marziano. Da buon botanico (ma anche ingegnere, fisico, chimico, biologo, Iron man e uomo ragno) pianta delle patate, presenti nella base che avevano costruito, nella notoriamente fertile terra marziana, che concima con un po’ di escrementi dei suoi colleghi et voilà, ecco una coltivazione intensiva di patate!

Watney: passione agricoltore.

“Oh cavolo, manca l’acqua”. Così prende l’idrazina, elemento fondamentale nei carburanti liquidi per i razzi, e la unisce all’ossigeno per creare dell’acqua. Il tutto andrebbe fatto in un ambiente completamente isolato. È interessante sottolineare come, se proprio voleva dell’acqua, poteva riscaldare della terra marziana! Infatti, per ogni metro cubo di terra marziana ci sono circa 35 litri di acqua sotto forma di ghiaccio. Ma effettivamente fa meno figo.

Le patate crescono, Watney balla e se la spassa nella sua beata solitudine, trova anche il modo di mettersi in contatto con la Terra. Qui il regista sottolinea come la comunicazione fra i due pianeti sia un po’ problematica, e questo è più che giusto. Infatti, i segnali che trasportano le informazioni, per percorrere il tragitto Terra-Marte possono impiegare dai 6 ai 40 minuti. Finalmente una cosa fisicamente corretta, direte. Si, è vero. Ero contento.

La gioia di Watney sapendo che su Marte non c’era la suocera.

A questo punto Ridley Scott si è accorto che il suo capolavoro stava diventando un film della Disney e inserisce di prepotenza un colpo di scena. A causa di un malfunzionamento, si stacca il portellone che manteneva la base spaziale pressurizzata e con una temperatura umanamente accettabile. Infatti, la temperatura di Marte può andare da un minimo di -140 °C in “inverno” fino ad un massimo di 20 °C in “estate”. Ora, ammesso che fosse estate, comunque il nostro astronauta sfortunato si ritrovava a dover risolvere il problema della forte differenza di pressione (pari circa ad una atmosfera) tra il dentro e il fuori della base spaziale. E lui ci riesce! Come? Con un telo di plastica e un po’ di scotch. È una cosa possibile? Manco per scherzo. Con una tale differenza di pressione nemmeno la colla di Giovanni Mucciaccia poteva tenere il telo ancorato alla base.

“Cos’altro potrebbe andare storto?” e si stacca il portellone.

Ah, nel frattempo si vede un bellissimo tramonto così simile a quello terrestre. Anzi, aspetta, troppo simile: il tramonto sulla Terra è rosso perché i raggi solari vengono deviati in un certo modo dalle particelle presenti nell’atmosfera, ma avendo l’atmosfera marziana densità e composizione molto differenti da quella terrestre il tramonto sarebbe dovuto apparire di colore blu-indaco.

I compagni di avventura del buon Watney vengono poi informati del fatto che lo hanno lasciato solo a marcire su Marte. Dato che si sentivano più in colpa di me quando mangio la pizza al primo giorno di dieta, allora decidono di tornare a prenderlo. Atterrare sulla Terra e ripartire costerebbe troppo e gli farebbe perdere troppo tempo, così sfruttano l’effetto fionda per prendere velocità e tornare su Marte. Questa manovra è corretta e spesso usata nei viaggi spaziali per far prendere velocità alle navicelle: in poche parole, ci si avvicina abbastanza al pianeta per essere attirati dal suo campo gravitazionale, ma non troppo da caderci dentro e schiantarsi al suolo. In questo modo, come suggerisce il nome, si viene catapultati a velocità maggiore, proprio come funzionerebbe con una fionda. Nel frattempo gli astronauti, per alcune riparazioni, si avventurano in passeggiate spaziali senza nessun tipo di imbracatura o sostegno. Tanto, se sbagli di un millimetro puoi solo fluttuare per l’eternità nello spazio, che sarà mai.

Watney è estasiato (e giustamente direi, dopo tutti quei mesi a mangiare patate). Per poter effettivamente ricongiungersi al resto dell’equipaggio, Watney necessitava, ovviamente, di una navicella: fortuna che su Marte c’era già quella destinata alla missione successiva ad Ares 3, che riesce a raggiungere grazie ad un Rover marziano vicino alla sua base. Dalla NASA, però, gli dicono che deve alleggerirlo parecchio per far sì che parta. Bene, praticamente lo smonta tutto, e la parte finale del razzo, smontata anche quella, la copre con un telo di plastica attaccato con dello scotch (si, lo so, la fantasia non è il suo forte).

Rover marziano.

Gli altri astronauti nel frattempo arrivano in soccorso e Watney parte. Piccola parentesi: sapete cosa sono quelle stelle cadenti che vedete la notte di San Lorenzo? Sono piccoli detriti che entrano nell’atmosfera terrestre e, viaggiando ad alta velocità a causa dell’attrazione gravitazionale, prendono fuoco a causa dell’attrito con l’aria. Ora, va bene che l’atmosfera marziana è molto più rarefatta di quella terrestre, ma può un telo di plastica sopportare la velocità e il calore prodotto dall’attrito dovuto dal contatto telo-atmosfera? No. Lo scotch non avrebbe retto e il telo avrebbe preso fuoco.

Il signor Scott ha voluto inserire un ultimo colpo di scena. I fisici della NASA hanno sbagliato i calcoli di 200 metri. Possono sembrare pochi, ma a quelle velocità, anche solo qualche metro può risultare decisivo. Watney non sa come raggiungere i suoi compagni. Allora gli viene l’idea: “Buchiamo la tuta, in modo da sfruttare il getto d’aria come propulsore”. Dopo essermi ripreso dallo shock, con la mia ragazza che mi assicurava che presto sarebbe finito tutto, ho analizzato la situazione. Le tute spaziali sono pressurizzate e isolanti. Se fai un buco nella tuta, oltre a morire subito di freddo, a causa della fortissima differenza di pressione i polmoni collasserebbero. Quindi, in effetti, non gli rimane che scegliere come morire.

Inoltre, ci sono due piccole e insignificanti leggi della fisica che cozzano con questa genialata: i principi di conservazione della quantità di moto e del momento angolare. Infatti, una volta bucata la tuta, Watney doveva calcolare l’angolo di uscita del getto con elevatissima precisione, perché una volta stabilita la direzione del getto d’aria (e quindi una certa direzione del moto in un sistema isolato, come lo spazio) non la si può più cambiare in virtù del fatto che la quantità di moto si conserva. La stessa cosa vale per la conservazione del momento angolare: sempre se non fosse morto subito, una volta bucata la tuta molto probabilmente avrebbe cominciato a girare intorno ad un asse del tutto casuale. Anche se avesse raggiunto il comandante della missione, che nel frattempo si era fiondata a prenderlo, avrebbero cominciato a girare insieme senza riuscire a fermarsi, come nel tagadà della fiera. Tutto ciò perché lo spazio è vuoto e non si ha l’attrito.

Alla fine il nostro eroe, dopo mille peripezie, torna sano e salvo a casa ad insegnare come sopravvivere mangiando patate su Marte.

Nonostante i continui mancamenti durante la visione del film, devo dire che tutto sommato mi è piaciuto. Pieno di errori, certo, ma da un film di Hollywood non pretendo l’accuratezza scientifica dei documentari di Alberto Angela. Quindi gustatevelo, ma con occhio critico… da fisico.

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Su Marte scoperto ossigeno nell’acqua

Finora si era sempre supposto che su Marte potessero vivere solo microrganismi ed entità biologiche monocellulari simili ai batteri presenti sulla Terra, tipici degli ambienti privi di ossigeno.

In realtà la scoperta scientifica dell’ossigeno contenuto nell’acqua salata presente nel sottosuolo del pianeta aprirebbe scenari di vita e sopravvivenza inediti e sorprendenti.

L’acqua riuscirebbe a catturare l’ossigeno dalla’atmosfera circostante “il pianeta rosso” all’interno della quale il gas sarebbe presente in piccole tracce.

L’ossigeno, certamente sinonimo di vita, potrebbe trovarsi anche all’interno dell’acqua ricca di minerali del lago scoperto dal radar italiano “Marsis” sulla sonda spaziale europea “Mars Express”, a condizione che vi possano essere delle contaminazioni di gas con l’atmosfera.

Queste le novità scientifiche ed i dati emersi dagli studi scrupolosissimi condotti dal “California Institute of Technology”.

Le analisi indicano che la presenza d’ossigeno potrebbe garantire la vita sia di piccolissimi microrganismi che di animali più complessi come le spugne.

“Non siamo sicuri se Marte abbia mai ospitato la vita”, affermano i ricercatori, ma “i risultati dei nostri studi sicuramente estendono le possibilità di cercarla”.

Per le forme di vita, che basano la loro esistenza sulla presenza imprescindibile dell’ossigeno nell’aria, Marte aveva rappresentato fin qui una condizione biologica impossibile, data la scarsa presenza di questo gas nella sottilissima atmosfera del pianeta rosso.

Gli aggiornamenti scientifici dunque mostrano orizzonti biologici nuovi ed inaspettati: il gas fondamentale per la vita dall’acqua salata potrebbe entrare in contatto con le altre sostanze aeriformi dell’atmosfera attraverso fessure della crosta, come fanno i “mari terrestri”, evidenzia E. Pettinelli dell’Università Roma Tre.

Quanto sostenuto dall’astrobiologa di Tor Vergata D. Billi, “i nuovi dati allargano la gamma delle possibili forme di vita che Marte potrebbe ospitare”.

Spiega infatti la Dottoressa che, “nel tempo i livelli di presenza di ossigeno nell’atmosfera potrebbero essere diventati tali da supportare organismi dal metabolismo basato sull’ossigeno.

La scienza dunque, ancora una volta come magico luogo di scoperte per la vita e di nuove possibilità di esistenza per l’uomo anche su altri pianeti, dettate forse dall’istinto di sopravvivenza.

Antonio Mulone