Amici Miei: ridere a denti stretti

 

Un monumento alla commedia all’italiana, una ricerca continua della serenità che nasconde un’amarezza senza fine . Voto UVM: 5/5

 Amici Miei rappresenta uno dei punti più alti della commedia all’italiana, la descrizione di una realtà sociale splendidamente nostrana del quale esso stesso è finito per diventare un pilastro indiscusso.

Uno spaccato dell’Italia di metà anni ’70, alle prese con le conseguenze del boom economico del decennio precedente, le rivolte proletarie ed una profonda instabilità politica: di queste problematiche si possono percepire degli echi che saltuariamente si riverberano nelle vite dei personaggi, le cui vicissitudini rappresentano la parte fondante della pellicola.

Prodotto e distribuito dalla Cineriz, per la regia di Mario Monicelli, soggetto di Pietro Germi e musiche di Carlo Rustichelli.

Un momento iconico di "Amici Miei"
La prima iterazione della “supercazzora brematurata” del Conte Mascetti. “Amici Miei” (1975) di Mario Monicelli.

LA TRAMA

Firenze, anni ’70: un gruppo di 5 amici affiatatissimi sulla cinquantina combatte la noia architettando scherzi ai poveri malcapitati che gli si parano davanti.

La trama, apparentemente scarna ed inconsistente, rappresenta il vero punto di forza della pellicola: non solo l’assenza di indicazioni stringenti permette agli attori di elevare la loro interpretazione e di renderla più personale, ma conferisce alle scene un’atmosfera più spontanea e ritmata, in maniera non dissimile da quello che avveniva nella “commedia dell’arte” a teatro (tutt’ora la base della moderna “commedia all’italiana” che vediamo al cinema o in Tv).

Non a caso i personaggi appaiono più come delle maschere, con una personalità in parte stereotipata ma anche iconica ed immediatamente riconoscibile: il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete), il nobile decaduto Raffaello Mascetti (Ugo Tognazzi), l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), il capo redattore Giorgio Perozzi (Philippe Noirete il professor Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), l’ultimo arrivato del gruppo.

LA STORIA PRODUTTIVA E LA “TOSCANITÀ”

La realizzazione della pellicola fu indubbiamente tribolata: il progetto fu inizialmente ideato da Pietro Germi, regista di capolavori quali “Divorzio all’Italiana” e “Sedotta e abbandonata”, il quale curò soggetto e sceneggiatura ma dovette rinunciare alla regia a causa dei problemi di salute che nel 1974 lo porteranno alla morte; il testimone passò a Mario Monicelli, il quale si limitò ad attuare alcuni cambiamenti funzionali, coadiuvato dall’aiuto di Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli.

Furono proprio questi ultimi due a suggerire di spostare l’ambientazione da Bologna, com’era originariamente previsto, a Firenze: di fatti questa modifica si rivelò fondamentale, in quanto riuscì a far emergere una comicità tipica toscana, un umorismo situazionale crudele ed immediato, spietato verso il prossimo e tendente al botta e risposta, ma anche una forma primordiale di “tormentone” che avrebbe poi fatto le fortune della televisione italiana a partire dagli anni ’80.

I cinque protagonisti di "Amici Miei"
La comitiva che architetta la prossima “zingarata”. “Amici Miei” di Mario Monicelli.

IL VALORE CULTURALE DELLA “SUPERCAZZOLA” 

L’impatto che ebbe la pellicola sul pubblico italiano fu immediatamente positivo: la semplicità dell’intreccio, basato su dinamiche quotidiane capitate un po’ a tutti, ma anche la regia invisibile di Monicelli, che in maniera quasi voyeuristica si intrufola nelle vite dei personaggi per raccontarci dei loro drammi e delle loro gioie, riuscirono a coinvolgere gli spettatori al punto tale da entrare a far parte della lingua parlata.

Che si dica “supercazzora” come originariamente pensata da Tognazzi, o “supercazzola” com’è arrivata alle nostre orecchie, ha poca importanza: le battute di “Amici Miei” sono ideate, scritte e recitate con una carica ilare spaventosa, come se fossero degli aforismi legati intrinsecamente alle scene in cui vengono pronunciate ma allo stesso tempo dei tormentoni da poter estrapolare e riutilizzare a piacimento per stemperare la situazione.

LE “ZINGARATE” COME RISPOSTA ALLA NOIA BORGHESE

Secondo il filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662) dinanzi ai problemi fondamentali, esistenziali, come quello riguardante il senso della vita, l’uomo reagisce abbandonandosi al divertissement (“distrazione”, “diversione”, “divertimento”), termine filosofico con il quale si indica il complesso di occupazioni, relazioni, intrattenimenti quotidiani e sociali: attraverso il lavoro ed il divertimento l’uomo rifugge dalla propria infelicità e dalle questioni più annose.

In una società in cui né il lavoro né la famiglia riescono a togliere all’individuo quel senso di ansia, quell’insoddisfazione che affligge persino il dottor Sassaroli, che secondo una scala di valori borghesi dovrebbe essere il più realizzato dei 5, non rimane altro che l’amicizia: è così che i nostri protagonisti, con una presa di coscienza quasi pirandelliana sull’ipocrisia e sull’insensatezza della società, decidono a loro volta di affrontare la vita in maniera surreale ed insensata, compiendo scherzi demenziali e lanciandosi di punto in bianco in avventure grottesche per sfuggire all’estenuante normalità delle loro giornate.

Anche nel dolore permane questo atteggiamento folle di costante derisione di tutto e tutti; persino di fronte alla morte gli amici cercano di rinchiudersi in una dimensione comica, pur di allontanare ciò che non riescono a sopportare, ed è questo a renderli squisitamente umani.

 

Un estratto da "Amici Miei"
L’inganno dei “marsigliesi” ai danni del povero Righi (Bernard Blier). “Amici Miei” (1975) di Mario Monicelli.

L’EREDITÀ DI AMICI MIEI

Ciò che distingue i fasti della commedia all’italiana dai cinepanettoni più scadenti, che hanno lentamente invaso il cinema italiano a partire dal primo “Vacanze di Natale” (1983) dei fratelli Vanzina, è l’attitudine dell’autore verso i propri personaggi.

Mentre in questi ultimi si tende a glorificare i protagonisti, portando in trionfo personaggi arrivisti ed amorali, in “Amici Miei” la rappresentazione dell’uomo medio che ci regala Germi non è mai positiva: le “zingarate” perpetrate dai nostri eroi non sono altro che il costante promemoria di come ogni tanto abbiamo anche noi bisogno di gioire delle disgrazie altrui.

Per questo la risata scaturita dal film a primo impatto inizia sempre di più ad assomigliare ad una smorfia pessimista man mano che riguardiamo le varie scene iconiche della trilogia: i personaggi li percepiamo vicino a noi perché sono bastardi esattamente come lo siamo noi, e non c’è alcuna redenzione.

Ma almeno, loro ne sono consapevoli.

 

Aurelio Mittoro

 

 

Un borghese piccolo piccolo: la parabola della classe media

Film del 1976 diretto da Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo è tratto dall’omonima opera letteraria di Vincenzo Cerami. La vita dell’impiegato ministeriale Giovanni Vivaldi (uno straordinario Alberto Sordi) scorre tra la sicurezza di un lavoro modesto ma sicuro, un altrettanto routinario ménage familiare e modeste aspirazioni.

Alle soglie della pensione il signor Vivaldi coltiva il sogno di “sistemare” il proprio figlio unico, diplomato ragioniere, presso il ministero in cui ha lavorato. Approfittando dell’imminente concorso pubblico, per conseguire il proprio scopo, utilizza l’arma della adulazione e della sottomissione al potente di turno ed agli esponenti dell’apparato politico-burocratico. Per amore del figlio non esita nemmeno ad affiliarsi ad una loggia massonica.

L’idillio immaginato da Giovanni viene sconvolto da un evento drammatico.

Il giorno del concorso, infatti, un evento fortuito, una rapina, una pallottola vagante, determinano la morte del figlio: il significato dell’esistenza del misero impiegato viene irrimediabilmente spezzato.

La moglie di Vivaldi (un’inedita Shelley Winters rubata ai fasti hollywoodiani), appresa fortuitamente la tragica notizia, viene colta da un ictus che la relega paralitica ed afasica in una sedia a rotelle.

Il signor Vivaldi abbandona il ruolo di misero ed ossequioso impiegato per impersonare quello dell’implacabile e spietato vendicatore, come Charles Bronson nel Giustiziere della Notte (1974).

Innumerevoli gli spunti di riflessione. Tra questi, lo sviluppo di un cupo dramma che assume i toni della tragedia greca, laddove le tranquille vicende umane vengono stravolte dall’intervento di un dio o del fato. Il paradosso sta nel fatto che il regista e l’attore principale sono tra i protagonisti assoluti della Commedia all’Italiana, eppure riescono mirabilmente a riprodurre le miserie, le aspirazioni e la rabbia di un uomo e forse di un’intera generazione.

Vivaldi rappresenta il prototipo di un borghese piccolo piccolo, che ha barattato i propri ideali (lo stesso nel film ha partecipato alla resistenza), la libertà e la dignità in cambio di un modesto posto fisso, di una modesta abitazione e di un altrettanto modesto ma certo futuro per il proprio figlio. Il mancato conseguimento del compenso pattuito per colpa dell’uomo o del destino, trasforma il mite e sottomesso impiegato in una belva assetata di vendetta.

Nell’opera letteraria, e dopo cinematografica, si coglie una capacità di prevedere le trasformazioni della società italiana ed occidentale: la classe media tradita dal sogno di benessere, segnata dalla crisi economica, intimorita dall’immigrazione, sgomenta dal senso di impotenza di fronte al fenomeno delinquenziale, abbandonerà i vecchi strumenti di rappresentanza politica ed erigerà muri, frontiere anteponendo la richiesta di sicurezza e tutela personale ai precedenti ideali.

Renata Cuzzola