Covid-19: gli asintomatici non sono sani

Asintomatici sani? “Pericolosa bugia”. Esordisce così Roberto Burioni sul blog scientifico Medical Facts. Ma cosa spinge l’esperto, come molti altri del settore, a sbilanciarsi in maniera così netta su un argomento considerato dai più poco chiaro? Partendo dalla definizione, sappiamo che in medicina si considera asintomatico un paziente portatore di una malattia o di un’ infezione che non presenta sintomi solitamente associati a tali condizioni. Da qui la risposta alla prima e più comune domanda: “l’asintomatico è considerato malato”? Sì, lo è. 

Molti studi hanno già dimostrato che gli infetti asintomatici, in assenza di tosse e febbre, sono in grado di diffondere il virus. Ma c’è dell’altro su cui bisogna fare chiarezza. Dai dati più recenti emerge non solo che in questi pazienti sembri non esserci un quadro polmonare di assoluta normalità ma che, dato ancora più sorprendente, molti di essi abbiano addirittura una carica virale più alta rispetto ai sintomatici.

HRCT ed ecografia: due metodiche a confronto

HRCT

Uno tra i primi approcci per identificare una polmonite, oltre l’esame clinico, è sicuramente quello dato dalla diagnostica per immagini. Metodica più comune e sicuramente più diffusa tra le tecniche di imaging polmonare è l’ HRCT polmonare, utilizzata sfruttando l’elevato contenuto aereo del polmone normale.

Una polmonite interstiziale causa una riduzione degli scambi gassosi, portando alla riduzione del contenuto aereo e di conseguenza alla attenuazione della fisiologica radiotrasparenza polmonare. Ciò porta ad un aumento dell’opacità polmonare, motivo per cui il quadro radiologico più comunemente osservato nei pazienti Covid è quello dell’opacità a vetro smerigliato (GGO).
Il prezioso apporto dato dall’HRCT ha spianato la strada verso un singolare studio condotto dal Care Centre in Kashmire  (India) che è partito arruolando una popolazione di 137 pazienti asintomatici e sottoponendoli ad un primo esame CT, tramite il quale si poteva avere contezza del quadro polmonare dei singoli malati, quindi ad una o più CT di follow-up per monitorare l’andamento della patologia.

Immagine CT di un paziente asintomatico, la figura “a” mostra la presenza di una vistosa consolidazione nel polmone destro al momento del ricovero. La figura “b” mostra invece l’attenuazione del quadro sei giorni dopo la prima acquisizione.

Nella popolazione di 137 pazienti circa la metà aveva lesioni polmonari alla prima CT. I pazienti con lesioni sono stati ulteriormente divisi in quattro gruppi in base al quadro che mostravano nei successivi follow-up: completa risoluzione, parziale risoluzione, quadro stabile, quadro in peggioramento, che coincideva poi con lo sviluppo di sintomatologia conclamata.

Nonostante una prevalenza nel 79% dei casi di opacità a vetro smerigliato, è stato possibile osservare una discreta eterogeneità. Circa il 15% dei pazienti presentava una situazione ancora più complessa con il pattern crazy paving, caratterizzato dalla presenza di aree di GGO sovrapposte ad ispessimento liscio dell’interstizio interlobulare ed intralobulare; il 3% presentava consolidazioni irregolari; solo il 2% minime consolidazioni regolari.

Evoluzione del quadro polmonare in paziente asintomatico di 29 anni. La figura “a” mostra la presenza di opacità a vetro smerigliato a livello subpleurico nel polmone sinistro, la figura “b” mostra la CT di follow-up rilevata solo cinque giorni dopo, nella quale è presente un evidente peggioramento del quadro con evoluzione in franco consolidamento.

Ecografia

Questo è tutto? Niente affatto! Se da un lato è vero che la CT rappresenta il gold standard nella diagnostica polmonare, informazioni preziose provengono anche da un’altra metodica di imaging, ovvero l’ecografia polmonare.
Che l’ecografia polmonare fosse un’arma vincente per il monitoraggio del paziente Covid lo si era già intuito nel lontano marzo, quando uno studio cinese aveva riscontrato la validità scientifica dell’ultrasonografia per la diagnosi e il monitoraggio del Covid-19.

Ma quali sono i motivi che spingono all’utilizzo dell’ecografia? Prima di tutto, quello di essere una metodica prontamente disponibile ed eseguibile al letto del malato o a domicilio, una metodica non invasiva, quindi un crocevia diagnostico fondamentale, tramite il quale in numerosi pazienti asintomatici non sottoposti a CT sono state evidenziate lesioni parenchimali. Ma, soprattutto, risulta essere una metodica con estrema sensibilità nell’individuazione delle lesioni polmonari. Infatti, sappiamo che il polmone sano non viene identificato ecograficamente perché l’aria contenuta ne ostacola la visione. E’ perciò necessaria una qualsivoglia affezione polmonare che modifichi il contenuto aereo per mettere in risalto eventuali alterazioni parenchimali o pleuriche.

Ecografia polmonare normale

Proprio per questa singolare caratteristica, in ambito di ecografia polmonare si parlerà di semeiotica artefattuale, che individua cioè artefatti tra cui il più comunemente visibile è quello dato dalla pleura. Quest’ultima, una volta investita dal fascio di ultrasuoni, da vita alle fisiologiche linee A, nell’imaging linee orizzontali equidistanti tra loro di ecogenicità inferiore rispetto a quella della pleura, che sono indice di un polmone normalmente aerato.

Quando il polmone comincia a perdere la sua fisiologica quantità di aria a discapito, ad esempio, di un’aumentata quantità di liquido, ciò è indice di un coinvolgimento interstiziale, che va dalla più comune polmonite virale fino ad arrivare a quella da Covid-19.
La semeiotica artefattuale comincerà così a modificarsi e inizierà ad esserci una patologica accentuazione delle linee B, ovvero linee verticali che si dipartono sempre dalla linea pleurica e riducono vistosamente l’ecogenicità del parenchima polmonare, classico indice di polmonite interstiziale in fase iniziale.

Da qui l’altissima specificità nell’individuare in fase asintomatica un paziente, ma anche altre emergenze internistiche importanti quali l’edema polmonare acuto cardiogeno fino ad arrivare al quadro di white lung (polmone bianco) tipico di una grave polmonite da Covid che evolve in ARDS.

Ecografia polmonare di un paziente Covid asintomatico. Nelle tre figure si vedono linee B che cancellano progressivamente le linee A. Un quadro del genere va costantemente monitorato in ecografia per la possibilità di evoluzione in white lung.

Appare evidente, quindi, come l’approccio di imaging tramite diverse metodiche, che hanno comunque numerosi aspetti sovrapponibili, ci permetta non solo di fare diagnosi e monitorare il paziente, ma anche di individuare lesioni nell’asintomatico impercettibili con il solo esame obiettivo, ma soprattutto insospettabili dato l’apparente stato di benessere.

Fonte: Giornale italiano di cardiologia

La carica virale non deve trarci in inganno

Recentissimo è inoltre uno studio pubblicato sulla rivista Infezione, che mette in luce il ruolo della diffusione asintomatica nella pandemia da SARS-CoV-2. Lo studio si è basato sulla raccolta di 360 campioni rinofaringei, orofaringei, rettali, urinari ed ematici prelevati da 60 pazienti, tra i quali il 25% era asintomatico, mentre il 75% presentava sintomi. I ricercatori hanno sottolineato che la carica virale dei pazienti asintomatici era più alta rispetto ai pazienti sintomatici ed è stata osservata una riduzione della stessa all’aumentare della gravità della malattia. Come se non bastasse, tutti i fattori legati ad una prognosi infausta, tra cui l’età, le opacità a vetro smerigliato e la bassa conta dei linfociti sono tutte correlate ad una bassa carica virale.

In conclusione, abbiamo visto che l’imminente arrivo del vaccino non può permettere un totale abbassamento della guardia. Con molte persone che non presentano i sintomi dell’infezione, per evitare di essere infettati dal virus è fondamentale come non mai l’utilizzo dei DPI, il distanziamento, l’igiene delle mani e mantenere sempre alta l’attenzione.

                                                                                                                                                                           Saro Pistorìo

Per approfondire:

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32166346/

https://www.birpublications.org/doi/10.1259/bjro.20200033

 

Covid 19: la trasmissione oro-fecale è possibile?

Da quando la minaccia Covid19 ha iniziato a prendere forma, destando un notevole allarme mondiale per la sua rapida diuffusibilitá e altissima contagiosità, un particolare su tutti venne immediatamente identificato: il coronavirus responsabile si trasmette per via aerea mostrando perciò un’elevatissima somiglianza con l’allora ben più nota SARS. Il virus si trasmette tramite le goccioline di flügge ed è responsabile di una serie di manifestazioni che hanno come comune denominatore l’assoluta aspecificità: tosse e febbre (tipici di un’infezione acuta delle vie aeree inferiori) che possono complicarsi in alcuni casi con lo sviluppo di dispnea, ipossiemia e ARDS.

Ma siamo sicuri che quella respiratoria sia l’unica via di trasmissione?

Infezione oro-fecale da Covid19, cosa sappiamo oggi

Gli ultimi dati provenienti da un recentissimo studio pubblicato sulla rivista ufficiale della società Americana di gastroenterologia “Gastrojournal” mettono in evidenza, tramite una serie di attente osservazioni cliniche, la presenza di tracce di RNA virale in campioni fecali. Ciò confermerebbe l’infezione gastrointestinale avvalorando maggiormente la tesi di una trasmissione oro-fecale. Dal 1 al 14 Febbraio 2020, 73 campioni unici ottenuti da pazienti infetti provenienti da un unico nosocomio, in accordo con le Linee guida del controllo e della prevenzione della Cina, sono stati isolati e sottoposti al test di amplificazione molecolare (PCR). I risultati confermano che su 73 campioni fecali analizzati 39 (53,42%), di cui 25 uomini e 14 donne, contenevano tracce di RNA virale con una positività dagli 1 ai 12 giorni. Il dato che però più sorprende è la positività del test fecale anche dopo la completa negativizzazione del tampone naso faringeo su 17 pazienti dei 39 positivi, che tradotto clinicamente indicherebbe una potenziale infezione oro-fecale, principalmente con acque contaminate da feci infette, anche con la completa negativizzazione dell’espettorato.

Prelievi bioptici multipli, colorati con Ematossilina Eosina testimoniano l’ingresso del virus nei vari distretti del tubo digerente.    Fonte: Gastrojournal.org

 

Come penetra il virus?

E’ stato ormai appurato che, alla base del processo infettivo, ci sia lo spiccato tropismo del Sars-CoV-2 per i recettori ACE2 che il virus sfrutta ampiamente per colonizzare le cellule che lo esprimono. I prelievi bioptici eseguiti a livello della mucosa esofagea, gastrica, del piccolo e grande intestino su più pazienti positivi al test fecale non hanno dimostrato danni macroscopici alla colorazione con ematossilina eosina, la quale ha piuttosto messo in risalto un’elevata presenza di recettori virali e di conseguenza di proteine appartenenti al nucleocapside virale a livello del citoplasma delle cellule gastriche, duodenali e rettali particolarmente predilette dal virus e sfruttate per la produzione di nuovi virioni. In merito a ciò un altro studio cinese ci mette di fronte a due importantissime chiavi di lettura:

– per infettare tali distretti il virus dovrebbe riuscire a resistere all’acidità gastrica. Lo stomaco in condizioni normali vanta un PH altamente acido (1-3) dato dalla elevata produzione di HCL da parte delle cellule parietali costituenti le ghiandole gastriche e che renderebbe impossibile il transito gastrointestinale del poco gradito ospite. È stato notato però che bastano moderate variazioni di PH (5-9) per far sopravvivere il virus;

– l‘età media dei positivi al test fecale è di 49 anni, ciò suggerirebbe che un eventuale rischio di infezione oro-fecale è prevalentemente, ma non esclusivamente, correlato con l’età. L’aumento del PH gastrico in relazione all’età sarebbe giustificato da una serie di condizioni morbose statisticamente appannaggio dell’adulto. In particolar modo l’infezione da Helicobacter Pylori, nota ai più come responsabile di una gastrite acuta, se non adeguatamente trattato con terapia antibiotica eradicante tende a determinare un quadro di gastrite cronica attiva, che in una piccola percentuale di soggetti tende ad evolvere in una gastrite atrofica e successivamente in metaplasia intestinale. In quest’ultima condizione avviene una completa sostituzione delle ghiandole gastriche con ghiandole intestinali le quali sono responsabili della produzione di mucine in ambiente gastrico, ciò tenderebbe a determinare un’alcalinizzazione del PH gastrico (5-9) data l’assenza totale di cellule secernenti HCL, ambiente che diventerebbe, secondo quanto detto precedentemente, ideale per la stabilizzazione del virus.

La presenza di queste due chiavi di lettura ci porta a dire che nei soggetti con tali condizioni cliniche il virus sopravvive all’acidità gastrica, diffondendosi ampiamente anche a livello intestinale e rettale. La mucosa esofagea sembra essere solo in parte coinvolta mentre, sono ancora in fase di studio possibili coinvolgimenti pancreatici ed epatici, lievi innalzamenti di amilasi e transaminasi sembrerebbero più da attribuire agli effetti sistemici del virus sull’organismo.

Sintomi gastrointestinali da Covid19

Sulla base di quanto detto quali sintomi dovrebbero allarmarci? Anche le manifestazioni gastrointestinali sono altamente aspecifiche. Uno studio retrospettivo condotto su 1141 pazienti affetti da Covid19, ricoverati allo “Zhongan hospital of  Wuhan university” , ha evidenziato che 183 di questi presentavano solo sintomi gastrointestinali estremamente comuni a quelli di una normale infezione gastrointestinale. La maggior parte dei pazienti al ricovero lamentava perdita di appetito, nausea e vomito seguiti solo successivamente da dolore addominale e diarrea con la quale ovviamente i malati eliminano il virus.

In un momento in cui il distanziamento sociale è all’ordine del giorno non sappiamo ancora quanto questi dati possano influire sull’inizio imminente della stagione balneare, ma rimane indiscusso come una nuova possibilità di contagio non farà dormire sogni tranquilli coloro i quali, ormai da tempo, sono in prima linea nella lotta contro il nuovo nemico. Ancora una volta il Sars-CoV-2 sa sorprenderci.

Saro Pistorio

Bibliografia

  • Gastrojournal: https://doi.org/10.1053/j.gastro.2020.02.055

 

Sintomi neurologici da covid-19: alterazioni di gusto e olfatto

 

La malattia da Coronavirus SARS-CoV-2, nota col nome Covid-19, comporta principalmente un quadro clinico caratterizzato da sintomi respiratori. L’evenienza più grave, come ben sappiamo, è rappresentata dalla polmonite interstiziale, ma questo virus ha la capacità di diffondersi anche in altri distretti. In particolare il sistema nervoso sembra poter essere interessato precocemente e le manifestazioni lievi connesse potrebbero aiutare a velocizzare il processo diagnostico. Ciò sarebbe utile a discriminare i soggetti che non svilupperanno polmonite ma sono portatori attivi dell’infezione.

Quali sono i sintomi neurologici del coronavirus?

La risposta arriva da dove ci si sta avviando ad una lenta ripresa delle attività dopo la fase critica dell’epidemia, ovvero dalla Cina. Proprio uno studio cinese, recentemente pubblicato su JAMA Neurolgy, ha portato alla luce possibili sintomi e complicanze neurologiche della Covid-19. I partecipanti allo studio sono stati 214 pazienti ospedalizzati SARS-CoV-2 positivi, sia uomini che donne, sia con infezione severa che non. Di questi, 78 pazienti (il 36,4%) mostravano una sintomatologia neurologica, più frequente in coloro con malattia grave. In base alla sede coinvolta, hanno distinto i sintomi in:
– Manifestazioni del sistema nervoso centrale: mal di testa, perdita della coscienza, accidenti cerebrovascolari acuti (coinvolti il 24,8% dei pazienti oggetto di studio, ictus nel 6%).
Manifestazioni del sistema nervoso periferico: compromissione del senso del gusto (ageusia: perdita della capacità di discriminare i sapori) e dell’olfatto (anosmia: mancanza della percezione degli odori nell’aria), ma anche problemi visivi (8,9%).
– Danni ai muscoli scheletrici, con coinvolgimento del 10,7% della popolazione studiata.
La maggior parte dei sintomi neurologici si sono mostrati precocemente, anche in assenza del classico quadro respiratorio, potendo costituire quindi un elemento utile al riconoscimento precoce ed un miglior trattamento. Comunque un grande limite di questa analisi è la bassa numerosità del campione in esame.

Quali riscontri nel vecchio continente?

Anche in Europa sono in corso delle ricerche a riguardo. Uno studio condotto su 417 pazienti ricoverati in 12 località diverse si è soffermato sulle disfunzioni di gusto ed olfatto. Il 34,5% dei soggetti studiati era nella fase acuta della malattia. Le principali comorbilità del gruppo erano rinite allergica, asma, ipertensione arteriosa ed ipotiroidismo.
Per quanto riguarda i sintomi olfattori i risultati sono stati i seguenti:
– L’85,6% della popolazione campione presentava disordini dell’olfatto, di cui la maggior parte lamentava anosmia.
– La fantosmia, ovvero la percezione di un odore per il quale nell’ambiente non è presente alcuna molecola, interessava il 12,6% dei soggetti durante il decorso clinico.
– Mentre la parosmia, cioè lo scambiare un odore per un altro, veniva lamentata dal 32,4%.
– In 247 pazienti con infezione clinicamente risolta, in cui erano scomparsi tutti i sintomi “canonici”, le disfunzioni olfattive persistevano per un tempo indeterminato nel 63% delle persone.
Riferendoci alle alterazioni del gusto, queste hanno dato manifestazioni nell’88,8% dei pazienti. Consistevano in una riduzione o distorsione della percezione di alcuni sapori, in particolare salato, dolce, amaro ed acido.
Basandoci sui risultati dello studio, i disturbi olfattivi e gustativi sono risultati essere sintomi significativi dei pazienti Covid-19 europei. Inoltre possono rappresentare, in alcuni casi, anche gli unici sintomi in assenza di complicanze e per questo necessitano di essere riconosciuti per aiutare nella limitazione della diffusione del contagio.

Trattamento anosmia
Opzioni terapeutiche adottate in questo studio europeo per i pazienti con problematiche dell’olfatto (Da https://link.springer.com/article/10.1007/s00405-020-05965-1#citeas ).

 

Come SARS-CoV arriva al sistema nervoso?

L’esame del liquor cefalorachidiano è in genere negativo, quindi il virus non attraversa la barriera emato-encefalica. Certo, sono possibili eccezioni, ma non sono state riscontrate frequentemente meningiti o encefaliti, come invece può avvenire con gli Herpes virus. Per identificare le porte di ingresso del Coronavirus al SNC le ipotesi sono due.
La prima prende in considerazione la possibilità che il virus possa risalire dai neuroni del bulbo olfattivo. Questo spiega l’elevata frequenza di anosmia riscontrata negli studi sopra citati ed è una via già utilizzata da altri virus respiratori.
Secondo l’altra ipotesi il danno neurologico non sarebbe diretto, bensì scatenato dalla tempesta di citochine sistemica dovuta all’infezione. Le nostre difese immunitarie iperattivate andrebbero fuori controllo e coinvolgerebbero altri distretti, fra cui il sistema nervoso ma anche il cuore (possibilità anche di miocarditi).

Struttura delle vie olfattive
Bulbo olfattivo ed epitelio olfattivo nel naso separati solo dalla lamina cribrosa dell’osso etmoide (Da Stanfield, Fisiologia umana)

 

Anche i neurologi possono quindi essere aggiunti alla lista degli specialisti che, insieme ad infettivologi e pneumologi (oltre ai medici di medicina generale), potranno avere contatti con pazienti covid già alla prima diagnosi od essere coinvolti durante il loro trattamento. Già si sta cercando di scrivere delle linee guida ad hoc che permetteranno di affrontare l’infezione da coronavirus dal punto di vista multidisciplinare. Così da prepararci al meglio a quella che sarà la fase 2, di cui iniziamo a vedere gli spiragli, in cui si auspica la messa in funzione dei Covid hospital. Si tratterà di centri interamente dedicati ai pazienti covid con l’obiettivo di facilitare anche la ripresa degli altri reparti ospedalieri, le cui attività ambulatoriali sono state momentaneamente sospese.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://link.springer.com/article/10.1007/s00405-020-05965-1#citeas
https://jamanetwork.com/journals/jamaneurology/fullarticle/2764549
https://www.focus.it/scienza/salute/la-covid-19-da-anche-manifestazioni-neurologiche

Quando l’infezione da COVID-19 si ‘traveste’ da ictus o da stato confusionale

Antibiotico-resistenza, un’emergenza che potrebbe diventare più pericolosa del cancro

 

Il ventesimo secolo merita di essere ricordato per la scoperta di una delle sostanze che più contribuì ad aumentare l’aspettativa di vita della popolazione: la penicillina, il capostipite dei moderni antibiotici.

A partire dalla metà del secolo scorso, infezioni che generalmente si concludevano nel peggiore dei modi, divennero improvvisamente controllabili e ben curabili; malattie come polmoniti e meningiti fecero sempre meno paura e non furono più sinonimo di una morte preannunciata.

Il progresso scientifico portò alla scoperta di sempre più tollerabili ed efficienti antibiotici tanto che, nel decennio compreso tra il 1983 e il 1992, la FDA (Food and Drug Administration, ente statunitense che si occupa della regolamentazione dei farmaci) approvò più di 30 nuove molecole per l’uso clinico.

Sir Alexander Fleming, inventore della penicillina, tuttavia, in una intervista successiva alla vincita del Premio Nobel nel 1945, ci lasciò un messaggio molto importante:

Chiunque giochi con la penicillina senza pensare alle conseguenze, è moralmente responsabile del decesso di chi morirà per una infezione sostenuta da un microrganismo resistente alla penicillina

anticipando quello che sarebbe stato uno dei più gravi e pericolosi problemi del ventunesimo secolo: l’antibiotico-resistenza.

Secondo una review del 2017 infatti, in Europa, i batteri resistenti sono responsabili di circa 33 mila morti ogni anno. Emerge un dato drammatico in Italia dove, nel 2015, si sono verificate ben 10762 morti, tanto che il nostro, insieme alla Grecia, rappresenta il peggior paese per rischio infettivo in Europa. Si stima che le infezioni resistenti provochino lo stesso numero di morti dovute a tubercolosi, HIV ed influenza messe assieme.

In particolare, in un recente lavoro pubblicato su The Lancet Infectious Diseases è stata eseguita un’analisi su otto specie batteriche più frequentemente rinvenute in liquidi biologici, tra cui: Pseudomonas aeruginosa multifarmaco-resistente; Klebsiella pneumoniae carbapenemi e cefalosporine di terza generazione-resistente; Pneumococco penicilline e macrolidi-resistente; Stafilococco aureus meticillino-resistente. Tutti batteri responsabili di infezioni diffuse alle vie urinarie, apparato respiratorio, apparato digerente e dei siti chirurgici che, nei peggiori casi, possono portare a setticemia (condizione grave caratterizzata dalla presenza di batteri nel sangue).

Abbiamo infatti indotto i batteri ad adattarsi ai nostri tentativi volti a combatterli, tanto che alcune popolazioni batteriche, come riportato, risultano completamente immuni alle terapie. La causa di questo fenomeno si deve ricercare nell’uso sregolato di questi farmaci: spesso vengono utilizzati antibiotici “di ultima generazione” per infezioni banali o anche lì dove non sarebbero necessari.

Occorre infatti precisare che numerose malattie stagionali quali raffreddori ed influenze, non sono generalmente causate da batteri (cellule viventi a tutti gli effetti) ma da virus (macromolecole incapaci di riprodursi fuori dall’organismo ospite), sui quali gli antibiotici non hanno alcuna efficacia e quindi, vanno evitati ad ogni costo. Numerosi studi confermano tra l’altro che l’uso di antibiotici in caso di alcune patologie delle alte vie respiratorie non migliora significativamente né la sintomatologia né la clinica dell’infezione che si risolve nello stesso periodo di tempo, rischiando però di provocare, ovviamente, maggiori effetti collaterali. Quindi, alla prossima influenza, bisogna rifletterci un po’ prima di chiedere l’antibiotico.

La situazione in ospedale non è dissimile: a causa della comparsa di specie sempre più resistenti gli infettivologi sono obbligati ad utilizzare potenti antibiotici di nuova generazione che per adesso danno ottimi risultati, ma ai quali i batteri, in futuro, potrebbero diventare immuni per lo stesso principio. La colpa non è comunque solo di medici e pazienti, infatti più del 65% del consumo di antibiotici annuo è destinato agli allevamenti animali e nell’agricoltura, ambienti nei quali si creano facilmente dei batteri super-resistenti che talvolta possono essere trasmessi all’uomo.

Complessivamente, stando agli ultimi dati, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza nel 2018 continua ad essere in crescita. Da poco si è conclusa la settimana dedicata all’antibiotico-resistenza (12-18 Novembre) in cui, oltre ad iniziative mediche, sono state avanzate iniziative sociali e politiche al fine di migliorare la gestione dei farmaci a disposizione. L’obiettivo è quello di promuovere l’uso di linee guida standardizzate per la prescrizione e un servizio attivo di monitoraggio per l’eventuale comparsa di altre specie multi-resistenti.

Purtroppo, nonostante ciò, l’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede che, senza adeguate misure di prevenzione, da qui al 2050 i super-batteri killer saranno la prima causa di decesso a livello mondiale, superando cancro, diabete ed infarti.

Il cambiamento dovrà quindi comunque partire da medici e pazienti e da una reciproca fiducia per i farmaci prescritti in quanto, come detto prima, contrariamente alle credenze, l’antibiotico non è comunque il rimedio a tutti i mali. Con l’augurio di trovare meno spesso “mostri” come questo:


Antonino Micari