Essere madre


Mamma, mum, maman, mama
… È chiamata in vari modi, nel mondo, ma ciò che rappresenta è universale. Depositaria di una virtù al limite del sacro, in quanto ventre fecondo da cui si origina l’umanità stessa, quella della madre è una figura che, per ovvie ragioni, esiste da sempre, e che per sempre esisterà.

Prescissa la sua funzione riproduttiva, sono, però, numerosi i ruoli e i connotati che, nel corso dei secoli, le sono stati attribuiti, andando a colmare l’immaginario collettivo di prospettive contrastanti su ciò che essa dovrebbe incarnare.

Se preponderanti sono state, e continuano ad essere, le narrazioni che ritraggono la madre come divinità e fonte di divinità, assai peculiari sono invece quelle che, distaccandosi dalla tradizione e da un alto ideale di genitorialità, ne fanno una matrigna.

Partendo dal mito di Gea, fino a giungere al personaggio di Caterina Sforza, tentiamo di costruire e de-costruire la complessità di questa entità dualistica, al contempo creatrice e mortifera.

God is a… mother

Gea, la Madre TerraFonte: Gea, Guidi Raffaello
Gea, la Madre Terra, di Guidi Raffaello

Prima della sua comparsa, esisteva solo il Chaos, una voragine oscura, intricata, senza fine. Poi, da quell’abisso, lei riuscì a emergere e niente fu più lo stesso.

Gea, profilandosi in quella astrattezza indefinita come essere tangibile, portò ordine ed equilibrio, creando uno spazio florido dove poter prosperare. Qui, generò la sua prima progenie: Urano e Ponto, rappresentazioni del Cielo e del Mare.

Fra i due, Gea guardava solo a Urano come un suo pari. Stagliandosi sopra di lei, imponente e fiero, Urano era, infatti, la perfetta metà di un tutto che poteva dirsi, ora, compiuto.

Con il Cielo, la Madre Terra concepì i Titani, i Ciclopi e gli Ecatonchiri, tutti esseri enormi, potenti e, seppur dalle fattezze umane, bestiali.

Timoroso di ciò che questa nuova generazione di divini potesse costituire per il proprio dominio, non servì molto affinché Urano li esiliasse e imprigionasse nel Tartaro.

Gea, succube della violenta prova di forza del marito, il cui peso inoltre le gravava costantemente addosso, opprimendola, in un primo momento non contestò le sue volontà. Quando, però, nelle sue viscere i figli cominciarono ad agitarsi, ferendola per tentare di fuggire, e a causa di quella stessa apprensione che, come madre, covava dentro di sé, Gea si ribellò.

Riuscita a liberarli, li aizzò contro l’amato. Solo Crono, però, si disse disposto a combattere il padre. Munito di una falce, seguì le direttive della madre e lo colse di sorpresa nel suo giaciglio, ancora intento a unirsi con lei. Lo evirò e ne gettò lontano i genitali.

 

In quanto Madre Terra che si auto-genera e dal cui grembo si originano il mondo e la vita stessa, Gea rappresenta perfettamente l’archetipo del divino femminile. Con il suo potenziale creativo, si delinea come una figura materna che non solo è fonte di divinità, ma divinità in sé.

“Come ti ho creato, ti distruggo”

Medea con i suoi figli morti, fugge da Corinto su un carro trainato dai draghi, di Germán D. Hernández Amores
Medea con i suoi figli morti, fugge da Corinto su un carro trainato dai draghi, di Germán D. Hernández Amores

Per amore, Medea uccise. Ma l’amore tradì entrambi.

Quando Giasone e gli Argonauti approdarono nella Colchide, di cui suo padre era re, per aiutarli a portar via il Vello d’oro e fuggire, Medea arrivò a togliere la vita al suo stesso fratello, Apsirto. Ne sparse i resti in mare, costringendo Eete, il sovrano, a rallentare l’inseguimento dell’Argo per riuscire a recuperarli e dargli, quindi, una degna sepoltura.

Un atto crudele, senz’altro, di cui si macchiò perché innamorata. E non fu l’unico: ben altre due volte, infatti, la maga uccise a causa di Giasone. Per favorirlo, ma anche per ferirlo.

Banditi da Iolco, patria dell’uomo, per aver provocato la morte del re, i due amanti si rifugiarono a Corinto. Qui, insieme, misero al mondo Mermere e Fero. Saranno proprio loro le ultime vittime di Medea.

Accecato dalla prospettiva di conquistare potere, un potere che gli giungeva in contro sotto le sembianze della principessa Glauce, Giasone accettò la proposta di prenderla in moglie. Medea venne esiliata. Le sue preghiere furono inascoltate, e tutti gli sforzi – le barbarie – che aveva fatto per l’amato vani.

Così, meditò vendetta. Nonostante il cuore a pezzi, pur di riscattare il tradimento che aveva subito, Medea vinse la sua natura di madre e sottrasse ai figli la stessa vita di cui aveva fatto loro dono.

 

La storia di Medea scardina quell’ideale che vuole la madre vivere in funzione dei figli.

È una donna, in primo luogo. E per questo umana, fallace, egoista, passionale.

Distrutta nell’orgoglio e consumata dall’ira, infatti, abbandona il suo ruolo e, sovvertendo le leggi della natura che l’hanno resa posseditrice del suddetto potenziale creativo, diviene la distruzione in persona.

Benedetto è il frutto del tuo seno

La Pietà, di Michelangelo
La Pietà, di Michelangelo


Maria di Nazareth
è forse la madre per eccellenza. D’altronde, è la Madre di Dio, non una qualsiasi. L’utero santo che partorì il Messia, il Salvatore dell’umanità, il Cristo redentore. Una notorietà più che meritata.

La sua fu una maternità che, seppur avvenuta in circostanze insolite ed eccezionali, rappresenta un emblematico atto di volontà. L’accettazione del messaggio che l’arcangelo Gabriele le rese noto durante l’Annunciazione fu, se vogliamo così definirla, rivoluzionaria. Non una costrizione, ma una scelta libera e consensuale.

Maria, in questo senso, potrebbe essere considerata la nuova Eva, poiché con il suo “sì” si contrappose al “no” della prima donna della Genesi.

 

Spesso associata ai concetti di purezza, obbedienza, sacrificio e amore incondizionato, è proprio tale veste a connotarla con maggiore carattere, a renderla, più che madre di e una paradossale appendice, una vera e consapevole protagonista.

Di mamma ce n’è solo una. Di figli se ne possono fare a bizzeffe

Lo sguardo di Caterina, di Dario Gobbi
Lo sguardo di Caterina, di Dario Gobbi

Il potere richiede un prezzo. Rende ciò che ami una debolezza, un’arma che ti si può rivoltare contro.

Caterina Sforza, signora di Imola e contessa di Forlì, lo sapeva bene.

Correva la fine del Quattrocento e la Romagna era nel caos. La politica autoritaria e le ingenti tasse che Girolamo Riario, suo marito, aveva imposto ai cittadini alimentavano come benzina sul fuoco il loro malcontento. Un dissenso, ormai impossibile da contenere, che maturò e culminò in una congiura.

Una notte, la residenza della famiglia, Palazzo Riario, fu presa d’assalto. Girolamo cadde nelle mani dei predoni e il suo corpo venne gettato in pasto alla folla inferocita, desiderosa di sangue.
Caterina riuscì a scappare, ma lasciò indietro i figli.

Quando gli Orsi, fautori dell’attacco, minacciarono di ucciderli, ordinando la sua resa, la Contessa reagì in modo assai inaspettato. Dalle guglie della Rocca in cui aveva trovato rifugio, Caterina alzò le gonne, mostrò il pube e urlò loro di procedere pure.

«Tanto, ho lo stampo per farne altri!»

Oggi, lo chiameremmo bluff: un azzardo che, però, se fallimentare, sarebbe costato la vita dei suoi frugoletti.

Tutto è bene quel che finisce bene. Il suo coraggio venne ripagato e i figli liberati.

Gli Orsi, però, non subirono un finale altrettanto idilliaco. Fatta piazza pulita dei traditori, Caterina, infatti, dedicò loro tutta la sua attenzione: fece bruciare e radere al suolo ogni possedimento della nobile famiglia, e mise un punto alla loro storia di dominio. Da quel momento in poi, governerà da sola la città.

 

Caterina ha anteposto il bene della sua reggenza a quello della sua stessa prole. Perché prima di essere madre, è, anzitutto, una contessa, e vi sono dei doveri che prescindono dalle proprie volontà.

 

Fonti:

https://www.fondazionesinapsi.it/orione/gea-una-divinita-in-ombra/

Storia Caterina

Il mito intramontabile di Medea

Hermann Hesse e Messina

Herman Hesse in una foto del 1927

Da Gaienhofen, un piccolo centro di tremila anime affacciato sull’Untersee, estensione del Lago di Costanza, giunge ai nostri giorni, dal 1909, una lettera dedicata alla Messina distrutta dal terremoto dell’anno precedente e che porta la firma di Hermann Hesse.

Le poche righe che lo scrittore dedicò in lingua tedesca alla città dello Stretto dimostrano il legame tra Hesse e Messina nei suoi ricordi, memorie che cercheremo di ripercorrere in questo appuntamento della rubrica “Messina da Leggere”.

Il legame tra gli Hesse e Messina nasce nel 1865 quando Marie Hesse, madre di Hermann, intraprese un viaggio con Charles Isemberg, missionario con il quale aveva stretto una relazione, seguendolo, anche dopo il matrimonio, nelle tappe dei suoi viaggi. Fu proprio per questo motivo che, all’età di ventitrè anni, nell’anno del ’25, Marie partì dall’India con il coniuge a bordo della nave “Möris”, documentando in lettere e in pagine di diario tutto ciò che avrebbe visto.

E fu proprio durante una notte di navigazione che la Hesse costeggiò le rive di Messina, ricordando il paesaggio caratterizzato dai dorsali delle montagne buie nell’oscuro cielo stellato, riferendo delle onde danzanti e delle luci rosse e verdi della lanterna del faro. La città, a quell’ora della notte, era sopita in un sonno, probabilmente, senza luci e tutto sembrava, agli occhi di Marie, come lo scenario di un sogno incantato. Tale memoria, infatti, ritorna nella sua confessione con la quale ammise: “Non dimenticherò mai l’incantevole impressione di quella notte in mare”.

Che cosa abbia potuto vedere Marie Hesse in quella notte del 1865? Una descrizione più dettagliata della Messina di quell’epoca si può evincere dai ricordi di Edmondo De Amicis, il quale, proprio negli anni ’60 del 1800 era di “guarnigione” a Messina per la guerra tra Italia e Austria.

Quale fu il valore delle memorie di Maria Hesse per il figlio Hermann lo si evince, invece, dalle righe del romanzo “Hermann Lauscher”, opera autobiografica in cui Hesse rivolge un pensiero alla madre:

Ho ascoltato lettori e narratori e conversatori di fama mondiale e li ho trovati freddi e privi di gusto non appena li paragonavo ai racconti di mia madre.[…] Da dove traggono le madri quest’arte potente e gaia, questa plasticità, questa instancabile sorgente magica dalle loro labbra? Ti vedo ancora, madre mia, con il bel capo piegato verso di me, esile, flessuosa e paziente, con i tuoi incomparabili occhi scuri

Da un legame, dunque, affettivo, caratterizzato da testimonianze indirette, nasce il riguardo il padre letterario del “Siddharta” espresso per Messina nella sua lettera del 1909, emessa dal piccolo borgo di Gaienhofen, nel quale soggiornò, non appena sposatosi con Maria Bernoulli, dal 1904 al 1911, anno in cui Hesse, poi, si trasferì brevemente in India, terra natale della madre, stabendosi, successivamente a Berna.

Francesco Tamburello