Muri d’odio – ieri e oggi

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, nuovi confini e chilometri di filo spinato dividono continuamente il mondo; sono barriere fisiche o ancora immateriali. 

La notte di Berlino 

15 Giugno 1961. Riecheggiano nitide le parole di Walter Ulbricht, presidente del consiglio di Stato della DDR – “Nessuno ha intenzione di costruire un muro” – alle porte di Brandeburgo. 

13 Agosto 1961. Data simbolo della costruzione del muro che per 28 anni dividerà una città in due, separerà famiglie, affetti; le sue fondamenta sono nient’altro che la bassezza degli interessi politici. 

Il buio e il freddo calano su Berlino in una notte lunga come quei 155 km dai quali non sembra oltrepassare un alito di vento: il filo spinato, le torri di guardia, i fossati, i campi minati, i bunker inaspriscono l’aspetto già crudele di un recinto che vuole sottolineare la prigionia. 

Se è stata sufficiente una notte per costruire la Grande Muraglia della Germania, è stata altrettanto sufficiente una notte per abbatterla. 

9 Novembre 1989. Il rumore della moralità, della speranza abbattono la costruzione dell’oppressione di un popolo: il muro di Berlino cade, diventando esempio della libertà oltre le barriere imposte. 

 

I muri di oggi 

Se trent’anni fa si contavano 16 muri – con la caduta di quello di Berlino – oggi gli studiosi ne contano circa 77. Paradossale, no? Lo avreste mai detto, ad oggi, in questa nostra società che sproloquia tanto la cosiddetta ‘’globalizzazione’’? 

Tra Ungheria e Serbia, tra Ucraina e Russia, tra Corea del Nord e Corea del Sud, tra Turchia e Iran, tra Stati Uniti e Messico; in Palestina erge un ‘’muro di prigione’’ che circonda Gerusalemme. 

Muri come barriere oltre la dignità, oltre la tolleranza, oltre l’umanità. I muri di cemento di oggi vedono la loro progettazione nei cardini della paura dello sconosciuto, del potere di chi può attraversarli ghettizzando la popolazione confinata. 

 

Muri oltre la geografia 

Dimentichiamoci, se pur possibile, delle barriere presenti sulla nostra cartina geografica e pensiamo a quali altri muri – oggi, tutti i giorni – ergiamo o da cui veniamo emarginati. 

Sono i muri costruiti dalle parole che diciamo, che giudicano, che allontanano e, perché no – volendo usare un ossimoro- abbattono le persone costruendo fortezze inespugnabili di insicurezza e solitudine. 

Ci sono i muri mediatici, quelli di informazione e di comunicazione che alimentano ignoranza, individualismo e i soliti muri dei potenti che silenziano spesso la realtà per impedire crescita e consapevolezza. 

 

Ma a somme fatte: a cosa servono realmente questi muri? La risposta è semplice: a niente. 

I muri – geografici e interumani- non hanno mai risolto un problema, ma hanno solo alimentato odio e discriminazione; hanno tolto e tolgono aria e libertà, incentivando lo smarrimento. 

I muri, le barriere, le parole che si innalzano come limiti possono spaventare, ma mai spegnere sogni e speranza. 

 

Jessica Cardullo

 

L’illegalità di decidere per sé stesse 

 

I diritti. I nostri diritti. 

Sono lì, scritti ed assodati, scolpiti sulla pietra, intoccabili. 

Eppure – relationes docent – mai dare niente per scontato, nemmeno ciò che sembra così radicato nella nostra vita o nella nostra società. 

Francia – maggio 1968. La fondatrice del femminismo contemporaneo Simone De Beauvoir alza la voce a favore delle donne e pone l’accento su questioni scomode. Il 5 Aprile del 1971 LA donna del femminismo francese scrive il testo de “le manifeste des 343″, n cui 343 donne ammettono di aver avuto un aborto, esponendo sé stesse alle relative conseguenze penali. 

Italia – 22 maggio 1978. Trionfa Emma Bonino e la legge 194, un insieme di norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. 

Alabama – 15 maggio 2019. La governatrice Kay Ivey, retrocede nel medioevo dei diritti in quella che dovrebbe essere una società avanzata. Iquesto stato americano, infatti, vige adesso un incostituzionale divieto per cui l’aborto diventa illegale anche in condizioni di stupro ed incesto. La suddetta decisione, inoltre, viene proposta (e approvata) come una sorta di movimento pro life che si sostiene sui saldi pilastri della vita come dono dall’alto, un inaccettabile ossimoro di un paese in cui vale la pena di morte.  

Se la vita va difesa sempre, dal concepimento alla morte naturale, è ovvio il contrasto dell’essere contro l’aborto ma a favore della condanna a morte contemporaneamente. le contraddizioni sembrano non scomparire mai, essendo qui garantita la libertà di possedere armi con quello che ne consegue, di totale disprezzo della vita altrui. 

Le donne, il femminismo, la lotta per la PARITA’ DEI DIRITTI senza disuguaglianze, accompagnata dal potere decisionale ugualmente esercitato da donne e uomini, sembra voler essere calpestato da queste leggi rimarcanti l’impossibilità di una donna di decidere per sé stessa – o per il proprio corpo. 

 

A sostenere l’illegalità dell’interruzione della gravidanza, sono tantissimi paesi. Volendoci avvicinare alle nostre acque, ritroviamo l’arcipelago maltese, dove la maternità è qualcosa di sacro e quindi sostenuto ed inviolabile con questa pratica. 

Nel ciclone anti-aborto c’è anche la Polonia, dove ogni anno ci sono migliaia di interruzioni clandestine e dove sussiste un trasporto dagli stati confinanti di pillole abortive, in assoluta riservatezza. 

In Albania è legale, ma  purtroppo viene praticato anche quello selettivo, ovvero, in una società fortemente patriarcale, si pratica più spesso quando il feto è femmina. 

 

Diritti. I nostri diritti; quelli delle donne, che spesso sembrano schiacciati dal volere altrui, da menti retrograde e ingiuste. 

Per citare ancora Simone de Beauvoir, questa sosteneva che le donne devono scegliere la trascendenza, che niente è dato, niente è eterno e che anche la condizione più penalizzante e ingiusta è frutto delle nostre scelte.  

Nella nostra società, nella vita di tutti i giorni hanno tentato, tentano e tenteranno di limitare la libertà di noi donne, che è il presupposto della nostra esistenza. ‘’Trascendere i fatti dell’esistenza significa scegliere di non arrendersi alla propria condizione e partecipare al cambiamento del mondo. E questo non vale solo per le donne, ma per tutti gli esseri umani, che sono egualmente dotati di libertà’’. 

 

Jessica Cardullo

Caro Babbo Natale

 

Caro Babbo Natale, 

Io vorrei sapere: il Natale cos’è? 

So che il Natale è fatto di addobbi, di lucine, di alberi di Natale di ogni tipo, di presepi.  

Ogni anno, i primi di Dicembre si riaprono gli scatoloni e con loro si riscopre anche quella famosa magia del periodo che, poi, il sei Gennaio verrà posata nel ripostiglio e accantonato l’incanto natalizio.

Allora ti dico, caro Babbo Natale: non sembra quasi una routine, con le parti assegnate e imparate a memoria, che si ripete ogni anno? 

Ci insegnano fin da piccoli che in questo periodo dovremmo volerci un po’ più bene, dovremmo imparare a donare, scambiarci i regali. Siamo tutti pronti a brindare, a rispondere ‘’anche a te e famiglia’’. Sembriamo tutti addestrati a goderci queste festività, ad amarci di più, a fare e ricevere doni. 

Ed in fondo, mi dico: che male c’è? 

Forse è una festa comandata dalla religione o forse è una festa in termini consumistici. 

Ma, caro Babbo Natale, che ci costa poi allontanare un po’ di questo cinismo ed interpretare questa parte che, alla fine, ci rende felici? 

Basti pensare a tutti i bambini che ti scrivono lettere, in cui esprimono i loro desideri; che credono davvero che il Natale sia speciale e che dal camino o dai tetti, questa notte passerai tu con le tue renne e la tua slitta. 

 E sai cos’altro mi piace di questa magica commedia che è il Natale? Quell’esatto momento in cui addobbo l’albero di Natale con la mia famiglia, e siamo tutti lì riuniti in una stanza, dove le preoccupazioni sembrano non entrare.  

E’ magico anche il materialismo dei regali, sì.

”Perché?” dirai tu, Babbo Natale? Perché sai quant’è bello la sera del ventiquattro scambiarsi i regali con le persone care? Quell’istante in cui effettivamente non importa cosa c’è sotto la carta regalo, conta solo chi lo ha fatto. 

Ma soprattutto, caro Babbo Natale, quant’è bello quando tornano tutti i miei amici dal freddo Nord e finalmente li ritrovo tutti qui, seduti attorno ad un tavolo a giocare a carte. 

 

Caro Babbo Natale, alla fine lo so cos’è il Natale. 

Il Natale è stare con le persone che ami, è tornare a casa.  

 

Jessica Cardullo

Vita

No, non è uno dei soliti pezzi in cui si racconta di quanto la vita sia bella o di quanto sia facile alzarsi e sorridere dopo aver spento quattro/ cinque volte la sveglia. 

No, non è un lungo trafiletto che si trasforma in un inno alla vita. 

Sono qui per dirvi la nuda e cruda verità: la vita è fragile. 

Già.  

Magari già conoscete una frase come questa o aforismi simili come “la vita è un soffio”.  

Frasi fatte, sentite e risentite, postate e condivise un po’ come se volessimo trovare un motto di auto incoraggiamento. 

Che, poi, forse è anche giusto: d’altronde ogni giorno siamo impegnati ad affrontare quella che è una ” serie di sfortunati eventi”.  

Ma intanto viviamo e non ce ne accorgiamo; ci adagiamo nella convinzione che siamo noi a governare questa vita, a gestire i nostri impicci. E invece lo sappiamo, sappiamo che non è così: camminiamo come marionette appese a dei fili in mano al destino o a chissà chi. 

Pertanto ci ritroviamo a svegliarci la mattina pensando a quanto sia terribile il lunedì, a quanto sia noioso studiare, andare a scuola o all’università o a lavorare; pensiamo solo che vorremmo dormire qualche ora in più.  

E intanto non ci accorgiamo che quella frase motivazionale è vera, la vita è fragile. Si spezza come un fiore in balia del vento: sembra cullarti ma in realtà da un momento all’altro è pronto a sradicarti dal tuo solido e forte terreno. 

È la vita. Che va. 

Chi non fa progetti per il futuro, chi non si immagina da grande con un bel lavoro, con una grande famiglia, con i capelli bianchi? Chi non si immagina di essere felice?  

Il problema della nostra esistenza fondamentalmente è questo: ci illude di un futuro senza farci soffermare sul presente.  

Adesso. In questo labile adesso cosa ti rimane? Cosa ci rimane se da un momento all’altro può rimanerci…nulla. 

L’unica cosa che persiste, in questa vita, è l’amore. L’amore in ogni sua forma, per noi stessi o per gli altri.  

Resta donarci totalmente a questa vita, che sia solo per oggi o per il domani che chissà se verrà.  

Abbiamo la speranza e la forza di vivere e di continuare a farlo, nonostante le cose succedano.  

Ci rimane meritarcela questa vita e credere che oggi sia il nostro futuro. 

 

Per Francesco e Raniero,

La redazione

 

4 marzo

A meno di una settimana dal 4 marzo, la domanda che molti si pongono è: chi votare? Gran bel quesito. 

Di certo non sarò io, confusa ventiduenne, a dirvi chi, in questa giungla politica, sia meritevole di un voto. Però, posso dirvi che avvalersi di informazioni che vanno oltre le proposte del caldo periodo pre-elezioni, serve. 

In questi giorni si parla, e anche tanto, ma solo di quelle che sembrano semplicemente promesse da campagna elettorale, riassumibili in delle proposte sociali che non richiedono competenza. Così, c’è chi suggerisce il rimpatrio di migliaia di clandestini (senza parlare dei costi del ”rientro in patria”); c’è chi sostiene l’abolizione di tasse universitarie (una proposta che andrebbe ad agevolare solo i figli dei ricchi); c’è chi dice di abolire la legge Fornero (senza sapere che ciò porterebbe ad un buco di 350 miliardi di euro da qui fino al 2060). 

Direte: come è possibile affidare l’Italia a gente che non sa nemmeno di cosa parla? A politici che si gonfiano la bocca per ergersi su castelli di sabbia!? 

Eccoci, quindi, arrivati a questo bivio elettorale, nella strada di chi dice assolutamente sì e di chi asserisce assolutamente no; di chi sostiene una cosa e chi un’altra, in questa biforcazione dissestata di sole parole e di inconsapevolezza nei fatti. 

Che poi, l’Italia è biforcata da quella frattura tra partiti di sinistra e partiti di destra, scissa tra quelli che vogliono fermare il processo di integrazione e quelli che vogliono rafforzarlo.  

E infondo che politica è questa? Canticchiando Giorgio Gaber siamo arrivati al punto in cui ”ma cos’è la destra? Cos’è la sinistra?”, o, probabilmente, lo siamo sempre stati. 

L’Italia è un paradosso, riassumibile persino in una canzone o, forse, due: mi viene in mente quel pezzo di Ghali che fa cambiano i ministri ma non la minestra”. Ed in effetti i politici si avvicendano e le idee sembrano proporre rivoluzionarie realtà, ma alla fine dei conti ogni cosa rimane statica e uguale al passato. 

Mentre scrivo continuo a chiedermi: chi voto?  

E alla fine, alea iacta est: so chi non voto. 

Io non voto quelli che vogliono il cambiamento del mondo però poi tengono in ”vita” le province; quelli che elogiano la sobrietà comodamente seduti in villa di proprietà a Capalbioquei comici che fanno i politici e quei politici che comici lo sono.
Io non voto chi ha migliorato l’ambiente, l’occupazione e la sicurezza VISIBILMENTE, tanto che l’Istat e i cittadini sono perfettamente d’accordo, no? Io non voto chi fa le manovre e non vuole che si parli al manovratore.  

E allora? Che ne resta, o cara Italia, del nostro diritto al voto? Forse resta ”il voto consapevole” o forse rimane il voto come un dovere nei confronti di una flebile speranza di risanamento.  

E nell’attesa, ‘muti pensando all’ultima
ora dell’uom fatale’. 

 

Jessica Cardullo

Arm in arm con la solitudine

”La società non esiste, esistono gli individui” Margaret Thatcher, 1988. 

  

I malati abbandonati in corsia; gli anziani senza posti letto, i pazienti morenti in pronto soccorso: sono solo alcuni segni del preoccupante quadro clinico che mostra la profonda crisi del Regno Unito. 

L’atmosfera ospedaliera è lo specchio della depressione e dell’abbandono in cui la società britannica si riflette; è il cordone sanitario infetto a cui si rimane legati. 

La premier britannica, Theresa May, ha così deciso nominare un minister for Loneliness, per affrontare quella che definisce ‘la triste realtà della vita moderna’. Il ruolo sarà ricoperto da Tracey Crouchche, onorata, ha spiegato la sua strategia contro l’isolamento sociale e che creerà un indicatore per misurare la solitudine delle persone.  

 

Se negli anni del capitalismo la solitudine era sinonimo di libertà, il XXI secolo, friabile e cagionevole, trasforma la solitudine in malattia 

L’uomo moderno, infatti, soffre di quel frutto avvelenato del progresso. 

Le città sono trafficate; i palazzi sono pieni di appartamenti; le scuole, le università sono frequentate da eserciti di studenti; le autostrade sono intasate; le stazioni, gli aeroporti, sempre affollati. Viviamo nei nonluoghi di Marc Augè – spazi comuni transitori di individualismo solitario – in cui milioni di individualità si incrociano senza entrare in relazione. 

Si è sempre così pieni attorno, ma alla fine si è vuoti dentro. 

Si è sempre circondati dalla ”folla” in qualsiasi momento della giornata, in qualsiasi posto, a qualsiasi età. 

E, intanto, paradossalmente, la solitudine aumenta, si trasforma in un grido soffocato, silenzioso, che si apostrofa contro la gente, altrettanto sorda quanto muta. 

La solitudine diventa un contrasto alla società così piena di oggi e si manifesta non fisicamente, ma mentalmente: ciascuno è talmente preso da se stesso, dai ritmi insostenibili della modernità, dai tristi riti del consumismo da non riuscire più a comunicare con gli altri. 

Si è sempre così soli da affidarsi addirittura al proprio smartphone per colmare il vuoto che la società odierna è come se ci imponesse di vivere; si è sempre così soli da non capire quanto lo si è veramente e quanto avremmo bisogno di sentirci pieni dentro e non fuori. 

Forse la May ha letto Pavese ( o forse no), ma ha sicuramente capito che il vero problema della vita di oggi è questo: capire come rompere la propria solitudine e come comunicare con gli altri. 

 

Jessica Cardullo 

Il sapore della magrezza

Anoressica. Ci si sente un’etichetta sotto questo sostantivo. Una nomea del proprio corpo colmo di assenza, di quella mancanza di sapore.
Che tipo di sapore? Il sapore del cibo, quello che ormai ha solo il gusto delle calorie; ma quanti altri tipi di sapori è l’anoressia? È quel tipo di sapore che manca verso l’amore, verso la vita; è mancanza di appetito nei confronti del mondo. E’ un’assenza che si fa presenza in ogni momento della giornata, in ogni sentimento, in ogni emozione, in ogni sorriso scarno che stenta a mostrarsi.

L’anoressia viene classificata come un disturbo alimentare, che porta ad un vero e proprio disgusto e rigetto del cibo; ma la vera e propria affezione, la vera malattia, è quella mentale, in cui al rifiuto del mangiare, sintomo principale, si aggiungono altri disturbi somatici e psichici.

Cosa c’è, quindi, dietro questo (esclusivamente apparente) malessere alimentare? Si cela un carattere insicuro, fragile, che si lascia trasportare dalla fermezza e dalla durezza dell’anoressia; come un tarlo che si impone, con il suo orgoglio, contro il nemico più grande di ogni persona: se stessi. Si diventa spietati contro sé e ci si continua a ripetere: DEVO dimagrire, DEVO pesare di meno, DEVO ”navigare” dentro i miei jeans, DEVO lasciare qualcosa nel piatto. E’ tutta una questioni di doveri, ma verso chi? Verso quella malattia nervosa ed assillante che non si vergogna nel farci desiderare un corpo ”tutt’ossa”, che non si fa problemi nel rimanere impassibile di fronte chi cerca di aiutare. Perché? Perché cedere alla ”carità” altrui sarebbe come perdere il controllo e per un’anoressica, perdere il controllo, significa mangiare una briciola di pane in più rispetto a quanto mentalmente stabilito.

E la perdita del controllo è vista come una sconfitta contro se stessi.
Il controllo è tutto: la gestione del peso diventa un modo per concedersi il sintomo, perché anche una volta raggiunto il numero tanto agognato, la malattia impone di andarne al di sotto, essere sempre al risparmio di calorie, energia.
Senza alcun preavviso, diventa il peso il vero conduttore dell’umore, del benessere, dell’autostima.

Il desiderio di sparire prende forma in un non-corpo e tenta di svuotare la propria persona di ogni altra forma di ambizione e di piacere, facendo del dolore l’unica sensazione rimasta; quel dolore che ti prende quando ti guardi allo specchio e non sei quello che vorresti, quando vedi ancora troppa carne, quando le tue mani ancora non si toccano accerchiando la coscia, quando il mondo prende sapore solo se sei abbastanza magra.

L’anoressia diventa un vortice di incertezze e di solitudine, in cui il giudizio della gente fa paura, talmente tanto da non riuscire a chiedere aiuto anche se vorresti: le persone sono pronte a parlare, a commentare, ad accusarti perché ”potevi reagire diversamente” o a sminuire il problema con frasi del tipo ”mangia e risolvi tutto”, o ti offrono del cibo, che tu proprio in quel momento vorresti solo scomparisse, come te, che ti senti ferita ed infantile davanti ad un problema che ti sei creata da sola.

A questo punto credi così tanto di avere il controllo, da non renderti conto che l’anoressia non si fa controllare. Sì, perché diventa una gabbia in cui si conoscono a memoria le proteine, i carboidrati, i grassi di ogni singolo alimento. E’ questo il sapore della magrezza: una sfida continua contro se stessi, il rifiuto di anche un solo morso di mela, ogni lacrima versata quando ci si sbricia per sbaglio allo specchio.

L’anoressia ti scava dentro, trasforma la tua vita in un ammasso di ansia fra le ore dei pasti, in una conta continua fra calorie e ore che scorrono senza perdere un grammo.
L’anoressia è una malattia estrema, è una dipendenza da cui ci si può liberare chiedendo aiuto, senza timore, liberandosi dagli schemi rigidi che ci si impone, scoprendo le stampelle sane di cui avvalersi, la ricomposizione di relazioni umane vere e prendendosi cura di sé ogni giorno.

Jessica Cardullo