Il valore di un’esperienza, un cardiochirurgo che ha creduto nell’uomo

Quanti di voi stanno già contando i giorni che mancano a Natale? Tranquilli, non è nessuna strana sindrome dello studente! Tra lezioni, tirocini e studio può diventare difficile organizzarsi e trovare il giusto equilibrio tra l’impegno e lo svago, mantenendo desta la coscienza del proprio cammino. E quindi, nonostante la buona volontà, l’entusiasmo per quello che ci appassiona può affievolirsi, a meno che non si trovi una guida o un modello che testimoni concretamente l’essenza dell’essere medico.

Gian sulle Dolomiti.

In modo più o meno diverso, ciascuno di noi ha incontrato l’esperienza preziosa di un giovane cardiochirurgo italiano che ridestando il nostro desiderio, ci ha uniti nell’intento di raccontarla anche a voi.

Giancarlo Rastelli (per noi solo Gian) ebbe una vita breve, ma intensa. Nato a Parma nel 1933 da una famiglia benestante dell’epoca, già da bambino è sicuro di voler studiare medicina finché, dopo avere frequentato il liceo in città, riesce finalmente ad intraprendere la facoltà tanto desiderata. Quelli dell’università sono degli anni intensi che passano veloci, tra lo studio di una materia ed un’altra.

Gian si contraddistingue per le sue particolari doti intellettive che si combinano con una grande mitezza ed attenzione nei confronti dei compagni in difficoltà. Piero, un compagno del tempo, ricorda in una testimonianza il garbo con cui Gian gli diede una mano a studiare in un periodo particolarmente difficile di ristrettezze economiche.

Da studente non ci fu mai nulla che riuscì a distoglierlo dal desiderio di imparare per bene la scienza medica. Capitò, per esempio, che non tutti i professori durante i vari corsi fossero disposti a trasmettere le proprie conoscenze; in particolare, uno di questi, un uomo colto e di grande professionalità, era così geloso delle cartelle cliniche dei suoi pazienti e dei macchinari sanitari, tanto da custodirli gelosamente in uno scantinato a cui solo pochi avevano possibilità di accesso. Fu solo grazie ad un assistente del professore che alcuni studenti, tra cui Rastelli, riuscirono a soddisfare la voglia smisurata di imparare “sul campo”. Ad ogni modo, da neolaureato, ebbe anche l’onore di vedere pubblicata la sua tesi e, poco dopo, vinse una borsa di studio per la ricerca che lo portò nel “fantastico” mondo americano. Erano gli anni dell’American dream e scelse di continuare il lavoro alla Mayo Clinic di Rochester che ancora oggi rimane uno tra i più grandi ed importanti centri di ricerca. Proprio qui trovò l’ambiente favorevole per poter sviluppare appieno la propria creatività, non accontentandosi soltanto di quanto gli veniva insegnato dal suo direttore ma nutrendo il desiderio di approfondire e condurre sempre nuove ricerche.

Questo suo zelo lo portò persino a contraddire la diagnosi del suo maestro, il prof Kirklin, riuscendo ad intuire la condizione anomala del cuore del piccolo paziente prima ancora che venisse portato in sala operatoria: era il dicembre 1962.
Accanto alla soddisfazione ed il successo, questi furono anche gli anni in cui scoprì di avere un linfoma di Hodgkin, una malattia maligna che colpisce il sistema linfatico, all’epoca non curabile. Con una forza d’animo invidiabile ma che Gian sapeva bene da dove attingere avendo ricevuto e maturato nella sua giovinezza una Fede naturaliter christiana, continuò fino all’ultimo respiro la sua attività di clinico e ricercatore. Ciò è testimoniato dalle diverse pubblicazioni scientifiche in cui, meticolosamente, descrisse la morfologia di alcune cardiopatie congenite poco caratterizzate all’epoca. In particolare, dedicò molto tempo alla definizione anatomica del Canale atrio-ventricolare comune (si tratta di una “famiglia” di patologie legate ad una alterata formazione della porzione centrale del cuore, costituita dalle valvole atrio-ventricolari e le porzioni di setto inter-atriale ed inter-ventricolare ad esse contigue) e di altre due cardiopatie congenite molto gravi quali la trasposizione dei grossi vasi e del tronco comune arterioso. Grazie a questi studi poté formulare le tecniche chirurgiche, Rastelli 1 e Rastelli 2 che consentirono di ridurre sorprendentemente la mortalità ospedaliera dei pazienti operati dal 60 al 20%!

Nonostante l’America e la Mayo Clinic gli avessero dato la grande opportunità di realizzarsi appieno dal punto di vista professionale, Gian non dimenticò mai le sue origini italiane tanto che creò subito un cordone ombelicale con la sua Parma e l’Italia, avviando quello che venne definito “un pellegrinaggio della speranza” dei bambini cardiopatici italiani. Non solo offriva la disponibilità di intervento, ma spesso aiutava le famiglie a sostenerne i costi, pagando di persona, o organizzando delle vere e proprie

A. Il cartellone nello studio di Gian;                               B. Gian con Vincenzo dopo l’intervento.

campagne per raccogliere fondi. E’ straordinaria la storia di Vincenzo Ferrante, all’epoca un bambino considerato inoperabile che, invece, giunto alla Mayo, venne adeguatamente curato e visse fino a qualche tempo fa lavorando come ingegnere a Napoli. Come lui molti altri bambini ebbero la stessa opportunità e le loro storie sono tutte raccolte in un poster che Gian teneva nel suo studio. Ancora oggi si legge la scritta centrale “L’amore vince” con tutte le firme dei bambini operati.

Una vita simile non può che stupire nella misura in cui viene riportata alla nostra realtà. S’impone forte il desiderio di vivere in modo autentico il nostro studio e, un giorno, la professione medica, proprio come Gian faceva. Questi che stiamo vivendo sono degli anni fondamentali in cui dobbiamo formarci per raggiungere l’obiettivo, essere bravi medici. Spesso Gian diceva che la prima forma di carità ai malati è la scienza, per questo non si tirò mai indietro di fronte alla ricerca. Dobbiamo essere capaci di curare i pazienti come va fatto, altrimenti tutto rischia di ridursi ad un paternalismo, ad un pietismo che non serve. E’ evidente che lo studio di oggi potrà fare la differenza un domani; con questa consapevolezza è possibile superare la fatica dell’apprendere, mantenendo fervida la motivazione.

E’ vero, però, che il percorso è lungo e la strada irta di ostacoli, così la stessa passione che ci ha portati a compiere certe scelte -per alcuni ben più radicali che per altri- viene e sarà messa alla prova costantemente (pensate a tutti i vostri colleghi che sono stati disposti a lasciare casa, gli amici di sempre e le loro città solo per poter studiare medicina, magari sei proprio tu che leggi!).

Capiremo man mano quanto siamo disposti al sacrificio, alla fatica di comprendere come funziona questo corpo. Pian piano le conoscenze si rafforzano e tassello dopo tassello saremo sempre più in grado di inquadrare le diverse condizioni ed assisterle. Capiremo anche che solo lo studio non basta, che la scienza da sola alla fine è sterile. Anche Gian lo aveva capito, infatti, durante le sue ore di studio con i compagni, improvvisamente incominciava a recitare l’inno alla Carità di San Paolo ed una volta medico diceva spesso: “Sapere senza saper amare è nulla, anzi meno di nulla!”.

Questa frase è probabilmente paradigmatica di tutta la sua esperienza umana, racchiude tutto il significato di una vita e, come tale, è preziosa.
La conoscenza, tutta la conoscenza che acquisiamo sarà, in definitiva, del tutto sterile se non la mettiamo a servizio dell’affetto, della simpatia nei confronti dei malati. Infatti, persa di vista l’ottica del servizio, la scienza diventa un mero tecnicismo applicato, ma non a favore dell’uomo.

Magari starete pensando che si tratti di una felice eccezione, probabilmente irripetibile o anacronistica. Eppure un grande scrittore del secolo scorso, C.S.Lewis, diceva: “Ciò che salva un uomo è fare un passo. Poi ancora un altro”. Per cui mettetevi anche in discussione, ma continuate a camminare tenendo alto il cuore. Sicuramente anche tra mille difficoltà e dispiaceri troverete chi, nel suo piccolo, vive la professione medica come totalizzante per la vita in una sintonia quasi spirituale con Gian.

 

Per approfondire:

 https://www.itacaedizioni.it/catalogo/giancarlo-rastelli/ 

https://www.annalsthoracicsurgery.org/article/S0003-4975(04)02308-2/fulltext

 

Ivana Bringheli

Daniele Carrello

Annalisa Ceruti

Benedetta Cherubini

Federica Mazzone

10 Cose da Scroccare al tuo Collega

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Una delle tecniche che si affina di più all’università non è, purtroppo, il metodo di studio ma è il metodo di scrocco. E noi, da veri specialisti dello scroccare, ne abbiamo voluto parlare con voi. NB: a tutte le presenti e future matricole raccomandiamo di fare buon uso di questo vademecum di stron… cose intelligenti.

#1 Le Sigarette. Dall’alba dei tempi l’esempio di sigaretta ed accendino come beni complementari ha condizionato la tua vita; ecco perché se te ne manca uno probabilmente non avrai neanche l’altro. Capita a tutti di uscire in ritardo da casa e sapere di dover comprare le sigarette perchè la sera prima, con gli amici, le hai finite tutte. Ma sei in ritardo per la lezione, quindi ti si pone davanti un dilemma: arrivare tardi a lezione e comprare le sigarette oppure arrivare in orario a lezione e scroccare le sigarette a un collega? Se dovessi essere un abile scroccatore la risposta già la sai. Così con la tua “faccia tosta” ( perchè lo scroccatore DEVE avere la “faccia tosta”) chiedi con nonchalance, e quasi sempre allo stesso collega (il collega va puntato, non si può scroccare a chiunque) ” senti ma hai per caso una sigaretta?” e lui che, con la faccia da ” perennemente scroccato” c’è nato, te la offre. Ma durante la giornata non chiederai mai soltanto una sigaretta, così utilizzerai le solite frasi per poter evitare che tu possa essere etichettato come scroccatore: ” poi, la prossima volta te le compro io!”, oppure ” dimmi quanto hai speso così facciamo a metà!”. Solitamente chi dice queste frasi spera anche che dall’altro lato si dia una risposta negativa, perchè probabilmente, in quel momento, non avrai neanche soldi con te! PS: Ma, peggio di chi chiede una sigaretta, c’è solo chi chiede di fare un tiro o lasciargli due tiri e sta lì, vicino a te come un avvoltoio.

#2 Gli Accendini. Ovviamente alla frase ” senti ma ce l’hai una sigaretta per me?”, segue sempre “…e l’accendino?”. Chiedere un accendino non richiede una particolare abilità, è molto più semplice rispetto al chiedere una sigaretta, ma è anche un’arma a doppio taglio. Nel momento in cui ti passano un accendino, potrebbe essere amore a prima vista. Tutto rallenta, spunta il sole e un coro di angeli fa da sottofondo al vostro primo incontro. Se dovessi aver preso in mano “l’accendino della vita” è tuo DOVERE scoccarlo. Quindi c’è chi lo mette abilmente in tasca per poi dire, una volta scoperto:” ah scusa! mi viene automatico!” oppure chi approfitta della confusione al bar e la disattenzione del proprietario (un mix perfetto) per mettere in atto il colpo. Chiaramente non potrai mai mostrare questo tuo trofeo in pubblico, vivendo con il costante timore di essere scoperto.

#3 I Passaggi. Capita, nella vita, che tu scelga di studiare in una città che non è la tua. Capita, sempre nella vita, che tu scelga di vivere nella suddetta città perché ti sembra “più comodo così”. Capita, bisogna proprio essere dei geni nella vita, di riuscire a trovare una casa situata in una via senza nome a due passi da quel paesino chiamato “IN CULO AL MONDO” (esiste, cercate nella cartina, mi vedrete salutare dalla finestra). Ora quando logisticamente sei fuori dal mondo, non hai una macchina e neanche gli autobus più lerci della città hanno il coraggio di venirti a trovare, sorge un problema: “ma… non è che mi daresti un passaggio?”. Volente o nolente ti ritrovi a scroccare passaggi anche per andare in bagno e sai che trovare il collega che ti assicura sempre il passaggio equivale a trovare l’amico più fedele. Altro che Frodo e Sam.

#4 Il Caffè. Il giorno che scegli di immatricolarti tu ancora non lo sai che la caffeina ti salverà la vita. Il giorno dopo sì, lo hai già scoperto. Nella desolazione della tua università, tra lezioni infrequentabili e libri illeggibili, ti sentirai sempre Gatto Silvestro che prova a tenere gli occhi aperti con gli stuzzicadenti. Sarà allora che ti farai una nuova amica: la macchinetta del caffè. Diventerai un sommelier, saprai individuare quella che fa il caffè più disgustoso e quello che lo fa un po’ meno disgustoso, vagliando con attenzione il quantitativo di zucchero perfetto. Poi, un giorno, per caso, ti capiterà una disgrazia: ti accorgerai di non avere spicci. Così, inizierà la tua carriera da scroccatore di caffè: ‘’ collega, me lo offri un caffè? Ricambio domani’’. Quel domani non è mai arrivato.

#5 Il Cibo. Tutto ha inizio al momento della fecondazione (o giù di li) quando, accartocciato nel grembo di tua madre, comincia la tua carriera da ciucciatore di cordone ombelicale. E, si sa, una volta provate certe sensazioni non ti abbandonano più. Passi dunque dal livello BASE di scroccatore di merendine scolastiche, a quello PRINCIPIANTE da raccattatore di panini da ricreazione: “sì, ma prima dagli almeno un morso”. Quando la posta in gioco aumenta, raggiungi il livello AVANZATO (che prevede uno scambio di tessere e identità) e ti ritrovi ad affermare di essere la nuova Platinette, ma di aver lasciato a casa il costume da donna, pur di mangiare sulle spalle della tua collega fuori sede che ha fatto la tessera alla mensa universitaria (ah, chiaramente in tutto ciò, tu hai una barba folta e rigogliosa). Il livello ESPERTO lo raggiungi quando, dopo anni di file ai buffet delle conferenze più disparate, i tuoi amici decidono di farti la spesa e sistemartela direttamente in frigo (e tu ti ostinerai, per declinazione professionale ormai, a chiedere al vicino un pasto caldo). Ps: Il livello MAESTRO è il piú nobile del curriculum: specializzato nel furto della punta del cornetto. Ecco, li puoi considerarti un professionista (dell’incitazione all’omicidio volontario).

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#6 Gli appunti. Qui si parla di sopravvivenza. Immagina: è una fredda serata di gennaio, ti guardi intorno in camera tua. È buio, ma hai paura di accendere la luce. Vedresti montagne di libri intorno a te che ti ricordano l’imminente appello. Sei in trincea. Non hai via di scampo: 700 pagine non le fai neanche pagato. In quel momento ti tornano alla mente le lezioni. Succede sempre. Tu, ignaro, eri lì in classe, di fronte al professore che parlava. Ma non hai preso appunti. Hai preferito dormire. Ti senti una merda. Poi l’illuminazione. Viene subito dopo lo sconforto e l’autocommiserazione. Pensi al tuo collega. Facciamo che di solito è una ragazza, quella brava che sotto al 30 non è mai scesa. Lei gli appunti li ha presi. Le chiedi in ginocchio di salvarti, ti fidi di lei, dovrebbe apprezzarlo. E lo fa. Accetta. La vita torna a scorrere nelle tue vene. È una sensazione strana. Sì, è la speranza. Superi l’esame. 30. Lei prende il suo primo 28. Ti senti una merda nuovamente. È il ciclo della vita. Lo accetti.

#7 Le “Masticanti”. Cicles, cicca, gingomma, chewing gum. Insomma, qualsiasi sia la tua provenienza geografica, qualunque sia il modo in cui la chiami, TU SEI DI CERTO UNO SCROCCATORE SERIALE DI MASTICANTI. Nel momento esatto in cui un pacchetto di gomme da masticare viene aperto o mostrato in tua presenza, il tuo cervello attiva un meccanismo grazie al quale gli occhi ti si illuminano e le mani si posizionano autonomamente, come se avessi appena finito di lavare il vetro di un’auto e stessi aspettando la tua sudata ricompensa. Ti ritrovi dunque ad elemosinare quell’impasto gommoso che ti trasforma in un ruminante soddisfatto e felice, chiedendoti dopo pochi minuti: “ma che schifo ho in bocca? Colla?” . Sono aperte, inoltre, le iscrizioni al campionato di “gomme sotto al banco” (sai bene che sotto al banco, non ci mettevi le gomme da cancellare).

#8 La penna. Se sei uno di quegli studenti svogliati e sempre di corsa, che vanno a lezione trascinati dalla forza gravitazionale che move il sole e l’altre stelle (ah no?!), allora sei uno di quelli che parcheggia alle 8.59, con tutto lo stress che questo può comportare, e corre alla ricerca dell’aula nella quale dovrà subire le varie torture del caso. Sono già le 9.10. La lezione cominciava alle 9.00 ma vabbè, il prof ritarda. Entri, ti guardano tutti. Trovi posto. Ti stanno ancora fissando tutti, dopo aver alzato la testa dal foglio sul quale stanno freneticamente prendendo appunti. Dissimuli. Provi a confonderti in mezzo agli altri. Trovi un pezzo di carta ma… NON HAI LA PENNA“. Cominci a bisbigliare: “Compare, hai una penna in piú?”. Nessuno ti accontenta. Sudi freddo. Continui la tua opera di ricerca, finché il prof si ammutolisce e poi esclama: “tenga signor Rossi, gliela presto io la penna”. Hai perso la dignità oramai, non sei nemmeno convinto di restituirgliela e, finita la lezione, scappi furtivo e torni a casa. Finalmente la tua collezione di penne scroccate è completa (magari, se sei uno di quelli simpatici, gliela riporti all’esame per farti segnare il 18 che gli hai ulteriormente scroccato).

#9 Il carica batterie. Nell’era dell’aifon e degli smartfon, li vedi tutti che camminano con la testa piegata su degli schermi illuminati: siamo noi, studenti allo sbando. Tu stai là, in quel posto oscuro detto Università, 45 ore su 24 e l’unica cosa in grado di farti avere ancora una vita (a)sociale è la tua piccola scatola luminosa. Tu, studente, ogni mattina ti svegli e sai che devi correre più veloce della gazzella, del leone e di tutta la settima generazione, se vuoi arrivare in aula prima che la tua batteria sia passata da un meraviglioso 100% a un deprimente 2%.  Così tu, sempre tu studente alla deriva, prendi l’abitudine di portarti dietro il carica batterie. Anzi, non tu, ma l’altro, quel tuo collega accucciato accanto alla presa che neanche Gollum mentre sussurra ‘’il mio tesssssoooooro’’. Ecco che entri in gioco tu: ‘’scusa, non è che me lo presteresti per 5 minuti?’’. Non tutti ne escono vivi.

#10 Il Perennemente Scroccato. Tu con la faccia da “perennemente scroccato”. Sì, proprio tu, mi rivolgo a te in quest’ultimo punto. Tu che non sai, non puoi e non vuoi dire mai di no, tu che esageri con la gentilezza, tu sei il migliore amico dello scroccatore. A te a cui viene chiesto di tutto e con il sorriso sulle labbra dici sempre di ‘’sì’’, per poi pentirtene l’attimo dopo. Solitamente sei quello che non chiede mai nulla e quello provvisto di qualunque cosa che possa essere chiesto, perciò sei perfetto. Hai la macchina, le sigarette, l’accendino, i soldi, il cibo, le masticanti, gli appunti, le penne e il carica batterie. Sei un elemento raro e quindi vai custodito. Gente che non sapevi neanche frequentasse il tuo stesso corso ti chiede: “senti non è che potresti darmi un passaggio?”, e tu che, dall’inizio della giornata, non hai fatto altro che pensare al momento in cui saresti tornato subito a casa, dopo quella domanda, realizzi che va tutto in frantumi. Perché? Perché ovviamente il passaggio da dare non ti verrà mai di strada, perché tu abiti a due passi dall’università! Ma sei buono e solitamente lo fai volentieri. Un consiglio? Per evitare di restare in mutande, un giorno, comincia ad attuare delle “tattiche di sopravvivenza” per aggirare il destino: ti chiedono una sigaretta? Rispondi dicendo: ” questa che sto fumando era l’ultima!”, ti chiedono l’accendino? Non darlo mai in mano a loro, offriti di accenderla tu. Il mondo è bello perché è vario, ma c’è una regola che governa il mondo: per ogni ” perennemente scroccato” ci saranno almeno dieci scroccatori pronti ad amarlo!

 

Elena Anna Andronico

Elisia Lo Schiavo

Vanessa Munaò

Nicola Ripepi

Derek, Meredith e Grey’s Anatomy: perché metterlo in play

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Ci sono serie tv e serie tv: drammatiche, ironiche, comiche, sanguinolente; corte, lunghe, che durano dai 20 ai 120 minuti.

Ma una serie tv, per tenerti davvero incollato alla sedia e farti perdere il senso del tempo e dello spazio, deve avere una trama coinvolgente e sconvolgente, una trama che ti lasci sempre con il fiato sospeso, almeno quel tanto che basta per dirti: ’’ok, dormirò in un altro momento’’ e farti così rimettere play sul tuo sito di streaming.

Una di queste serie è Grey’s Anatomy. Al bando gli scettici che dicono che è solo un’enorme cavolata, più lunga di Beautiful e troppo distante dalla realtà: quando inizi a guardarla non puoi più farne a meno. Io, da fan numero uno, sono riuscita a convertire un sacco di persone e a farle diventare tossicodipendenti da Grey’s Anatomy.

Grey’s Anatomy è una serie televisiva statunitense trasmessa dal 2005. È un medical drama incentrato sulla vita della dottoressa Meredith Grey, una tirocinante di chirurgia nell’immaginario Seattle Grace Hospital di Seattle. Il titolo di Grey’s Anatomy gioca sull’omofonia fra il cognome della protagonista, Meredith Grey, e Henry Gray, autore del celebre manuale medico di anatomia Gray’s Anatomy (Anatomia del Gray). Seattle Grace (poi Seattle Grace Mercy West e, ulteriormente, Grey Sloan Memorial Hospital) è invece il nome dell’ospedale nel quale si svolge la serie. I titoli dei singoli episodi sono spesso presi da una o più canzoni.

Tra personaggi che vanno e vengono, che nascono e muoiono, Grey’s Anatomy riesce a lasciare veramente un segno. Durante la progressione della trama, che si svolge in 12 stagioni per un totale di 268 episodi, ognuno di noi può trovare una citazione, una situazione, un momento in cui riconoscersi. Ed io, da studentessa in Medicina, posso dire che (a parte qualche caso assolutamente irreale) è anche molto vicina alla realtà medica. I gesti, i protocolli, il lessico, infatti, sono assolutamente presi dal campo.

Tutti conosciamo Meredith e Derek, sappiamo la loro storia d’amore e chi come me è da 11 anni che sta appresso a loro e ci ha perso cuore, lacrime e vita, sa che non sono solo ‘’Meredith e Derek’’: sono due personaggi pieni di umanità, che fanno e dicono cose che tutti noi abbiamo fatto e detto, anche e soprattutto le peggiori. È questo il segno che contraddistingue tutti i personaggi della serie, dal più importante al meno: l’umanità. Sono esseri umani a 360°, con i difetti e i pregi, con l’egoismo, i sogni, la cattiveria, la gentilezza, la bontà, la forza e la debolezza, le paure e il coraggio.

Ed, a parte l’intramontabile ‘’prendi me, scegli me, ama me’’, il sesso e la tequila, ci vuole poco a capire che Shonda Rimes (l’autrice) voleva andare oltre a tutto questo e insegnare ad accettare argomenti che ancora sono, per la società, tabù.

È una serie tv che vuole insegnare la speranza, il rischio e la speranza che può derivare dal rischio. Che non tutto è come sembra, che una coppia perfetta può spesso scoppiare ma questo non esclude il fatto che si può andare realmente avanti, a qualsiasi età. Che puoi sempre conoscere una persona, che essa sia maschio o femmina.

Vuole abbattere i muri dell’omofobia. Tra i personaggi principali abbiamo una coppia lesbica costituita da una donna omosessuale ed una bisessuale, vuole far capire alle persone che non c’è niente di strano nella transizione, che i transgender sono persone come noi in corpi nei quali stanno troppo stretti.

Vuole insegnare che non esistono barriere di tipo religioso, che la scienza e la religione possono coesistere e convivere, che essere ateo non è sinonimo di essere vuoto. Insegna il perdono, l’amicizia, la lealtà, la sana competizione e quella che ti porta a impazzire perché parte da basi sbagliate.

Tra gli argomenti principali troviamo anche temi molto attuali quali l’adozione e l’inseminazione artificiale. Viene anche approfondito l’argomento ‘’psicoterapia’’, cercando di trasmettere il messaggio che prendere consapevolezza dei propri problemi e affrontarli con qualcuno che può realmente aiutarti non è una vergogna ma un segno di coraggio.

E che, a prescindere da tutto, negli ospedali si fa tanto sesso e ci sono davvero tantissimi fighi e fighe.

Elena Anna Andronico