Il genio comico di Nino Frassica: presentato il suo ultimo libro “Piero di essere Piero”

Sabato 21 dicembre, l’Aula Magna del Rettorato ha ospitato la presentazione dell’ultimo libro dell’attore comico messinese Nino Frassica, dal titolo Piero di essere Piero,  organizzato dalla Feltrinelli Point di Messina, regalando ai presenti all’evento una serata di risate e momenti di grande coinvolgimento.

L’evento ha avuto inizio con l’intervento della Magnifica Rettrice, la Prof.ssa Giovanna Spatari, che ha accolto “il genio comico surreale” di Frassica in un’aula gremita di persone, in un sabato pomeriggio a pochi giorni dal Natale.

Tra il pubblico erano presenti alcune delle personalità del mondo accademico e culturale, tra cui Titti Batolo, associata alla libreria Feltrinelli Point e il presidente del Conservatorio Arcangelo Corelli di Messina il dr. Egidio Bernava Morante.

 

Nino Frassica
Nino Frassica durante la presentazione del suo libro Piero di essere Piero. ©UniVersoMe

 

IL LIBRO E LA SUA CREATIVITÀ

Piero di essere Piero: un’opera che si presenta come una raccolta di racconti su numerosi personaggi chiamati Piero. Ma chi è Piero?

«Piero è un nome di fantasia, un nome simpatico», ci dice Frassica. Nella narrazione ricorrono il Piero Gigio, Piero Luperto, Piero Fois, San Piero Cavaliere, Piero il timido, Piero Moscati, ognuno dei quali è descritto con una fantasia sfrenata.

 

Nino Frassica
Nino Frassica nell’Aula Magna del rettorato. ©UniVersoMe

                                                             

  TRA DIALOGO, DIVERTIMENTO E TANTI RICORDI

Moderato dal professore Dario Tomasello, coordinatore del Dams, l’evento ha visto alternarsi momenti di dialogo con l’autore, racconti di aneddoti e storie divertenti che hanno portato alla memoria l’inizio della carriera di Nino Frassica, iniziata proprio a Messina, sua città natale. Ricordando i suoi trascorsi  messinesi «nel cabaret locale alla discoteca El Toulà, la sala Laudamo, il Vittorio Emanuele, il giornale il Soldo, in cui tenevo una rubrica umoristica e il giornalino dello Jaci, la scuola che frequentavo», Frassica ha confermato la sua innata capacità d’improvvisazione.

 

L’ARTE DELL’IMPROVVISAZIONE E LA SCRITTURA DEI LIBRI

«Penso che un bravo attore si riconosca anche dalla sua abilità nell’improvvisare. Il paragone che faccio è tra un prodotto fresco e uno surgelato: il prodotto fresco è l’improvvisazione, quello surgelato è la recitazione».

Tra risate, divertimento, qualche domanda e curiosità dal pubblico, Frassica afferma:

«quando scrivo, ma anche quando recito , non voglio lanciare nessun messaggio. La gente pensa che ci sia qualche significato nascosto nei miei libri, ma voglio solo far ridere e mi diverto anche io. Non c’è nessun copione; ogni tanto mi annoto qualche frase e quando sono pronto inizio a scrivere. Mi sento più libero così».

La presentazione si è conclusa con un numeroso firmacopie, durante il quale Nino Frassica ha dimostrato ancora una volta la sua disponibilità e accoglienza con i suoi lettori, confermando il profondo legame con la sua terra.

 

Il ritorno di Gerber nel nuovo romanzo di Donato Carrisi

Una lettura brillante e coinvolgente, dall’attrazione magnetica che ci proietta in un mondo pieno di lati oscuri e spirali di luce, alla costante ricerca della via giusta da seguire. Voto UvM: 5/5

 

Donato Carrisi ritorna nelle librerie italiane con il terzo volume del ciclo di Pietro Gerber La casa delle luci, edito da Longanesi per la collana La Gaja Scienza.

Sequel de La casa delle voci (2019, Longanesi) e La casa senza ricordi (2021, Longanesi), lo psicologo infantile Pietro Gerber, da cui proviene il nome della serie di romanzi, dovrà fare i conti con l’ennesimo mistero che si cela attorno alla figura di una bambina. Anzi, di due bambini.

Dall’esordio alle vette delle classifiche

Donato Carrisi, nato a Martina Franca (TA) il 25 marzo 1973, viene considerato il Maestro del Thriller su carta stampata.

Laureatosi in giurisprudenza con una tesi su Luigi Chiatti, ne è seguita poi la specializzazione in criminologia e scienza del comportamento. Non solo scrittore di romanzi ma anche sceneggiatore, drammaturgo, regista di serie tv e film d’autore, e collaboratore per il Corriere della Sera.

In televisione, coadiuva in numerose serie televisive marchiate Rai come Casa famiglia ed Era mio fratello, invece per Taodue di Mediaset in Squadra Antimafia – Palermo Oggi e Nassiryia – Per non dimenticare.

Dal romanzo d’esordio il suggeritore (2009, Longanesi) vince il premio bancarella 2009 e, successivamente, con l’edizione in francese le Chuchoteur, il Prix Livre de Poche 2011 e il Prix SNCF du polar 2011. Le sue opere thriller forse più famose,  La ragazza nella nebbia (2015, Longanesi), L’uomo del labirinto (2017, Longanesi) e Io sono l’abisso (2020, Longanesi), hanno trovato una trasposizione cinematografica di cui lo stesso Carrisi ne è stato regista.

Donato Carrisi
Donato Carrisi (al centro) presenta il suo nuovo romanzo “La casa delle luci” a Radio Deejay, con Nicola Savino (a sinistra) e Linus (a destra). Fonte: deejay.it

Cosa cela Gerber?

Pietro Gerber, protagonista della saga “Il Ciclo di Pietro Gerber”, è uno psicologo infantile, specializzato nell’ipnosi di bambini per aiutarli a superare dei traumi causati da eventi drammatici. Infatti, proprio per questa sua caratteristica, viene soprannominato “l’addormentatore di bambini”.

Ha trentatré anni e lavora a Firenze nel Tribunale dei minori, considerato dai suoi colleghi come il migliore nel suo campo.

Questa volta dovrà occuparsi del caso della piccola Eva, una bambina agorafobica di dieci anni, che vive in una grande casa in collina con la governante e una ragazza finlandese au pair, Maja Salo. Dei genitori nessuna traccia: il padre ha abbandonato la famiglia anni prima e la madre viaggia in giro per il mondo, comunicando con la figlia tramite sms.

Sarà proprio Maja a chiedere aiuto all’ipnotista Pietro Gerber. La bambina, che preferisce stare a casa rinchiusa senza voler vedere nessuno, sembra non essere più sola. A farle compagnia c’è un presunto amico immaginario senza nome e senza volto. Non è però solo un amico immaginario e potrebbe portare la piccola in pericolo.

Pietro, al fronte di una reputazione quasi allo sbaraglio, accetta il confronto con Eva. O meglio, con il suo amico immaginario.

Ma ciò che si troverà davanti va oltre il pensiero umano: la voce del ragazzino che comunica attraverso Eva non gli è indifferente. E, soprattutto, quella voce conosce Pietro. Conosce il suo passato e sembra possedere una verità rimasta celata troppo a lungo su qualcosa che è avvenuto in una calda estate di quando lui era ancora bambino.

Perché sentiva una specie di desiderio segreto dentro la pancia. E voleva sapere cosa si prova a sfidare Dio. Ma ora so che a Dio non importa se i bambini muoiono. E il signore con gli occhiali voleva provare almeno una volta a sentirsi come si sente Dio, prima di diventare vecchio e di morire… Perché la sua vita non gli piace, la sua vita è tutta una bugia.

Fronteggiando l’ignoto

Con i primi due romanzi della serie, il personaggio di Pietro Gerber è riuscito a farsi conoscere: un protagonista all’apparenza tutto d’un pezzo, disteso nel suo ruolo da psicologo infantile e fermo nella sua logica pungente. Ma addentrandosi nella narrazione, le fragilità tendono a scoprirsi piano piano, ponendosi in bilico tra il suo passato avvolto nell’oscurità e il presente incerto delle sue basi d’appoggio.

Gli interrogativi sono molti, tanti, e non tutti hanno la propria risposta esaustiva. Carrisi lascia sospeso il racconto, dove al di là si trova un’atmosfera cupa, coerente con l’ambientazione. Non è una novità e neanche una fatalità che gli elementi paranormali, le paure della mente e dell’immaginario, le presenze oscure, fanno un po’ leva e anche da protagoniste, nel turbinio di emozioni che lo stesso Gerber, ma anche chi intraprende il viaggio con lui, si trova ad affrontare a pieni polmoni.

La lettura è lenta ma scorrevole, razionale ed oggettiva nella descrizione, tutti i punti sono ben trattati e non lascia nulla al caso. Anche i pensieri espressi dai personaggi hanno un che di razionale, quasi a non volersi scomporre troppo, per non doversi aprire e temere un improvviso out of character.

Una nota di merito, come spiega lo stesso Carrisi nelle note dell’autore alla fine del romanzo, si deve fare sulle pratiche ipnotiche presenti nella storia, che sono effettivamente quelle utilizzate nelle terapie, così come gli effetti prodotti. Lo studio meticoloso di Carrisi, forte del contributo di professionisti qualificati e certificati, come cita nei ringraziamenti finali, non si ferma solo sugli effetti scientifici ma frantuma la “quarta parete cinematografica”, piazzando davanti ai nostri occhi un testo ricco di potere metaforico racchiuso nelle parole e nei frammenti di ignoto che, via via, si incastonano uno con l’altro, dando vita alla storia de La casa delle luci.

 

Victoria Calvo

NextGenerationME: Luciano Giannone, l’architetto che ha “viaggiato nel tempo”

Riparte la rubrica “NextGenerationME” dedicata ai giovani talenti messinesi. Il protagonista di oggi è l’architetto Luciano Giannone, autore di un’opera di ricostruzione virtuale della Messina degli anni ottanta del settecento, poco prima del catastrofico terremoto del 5 febbraio 1783.

Il giovane architetto ha pubblicato un volume intitolato “Messina nel 1780: viaggio in una capitale scomparsa“, presentato giovedì scorso (9 dicembre) presso il Salone delle Bandiere del Palazzo comunale, alla presenza dell’Assessore alla Cultura Enzo Caruso, della Sopraintendete per i Beni culturali e ambientali di Messina Mirella Vinci e del Presidente dell’Ordine degli Architetti di Messina Pino Falzea.

Classe 1996, Luciano Giannone è nato e cresciuto a Messina, dove ha conseguito nel 2014 la maturità scientifica presso il Liceo Archimede. Nello stesso anno si è trasferito a Firenze per intraprendere il percorso di studi in Architettura, concluso nel 2020 -con lode- con un progetto di tesi che ha posto le fondamenta del suo libro. Nello stesso si è iscritto all’Albo degli Architetti di Messina e attualmente esercita la professione.

©Luciano Giannone – L’architetto Luciano Giannone, Firenze 2018

Noi di UniVersoMe abbiamo avuto il piacere di fare una chiacchierata con lui.

Buongiorno Luciano. Quando è nata in te l’idea di concludere il tuo percorso di studi con una tesi su Messina?

L’idea è andata evolvendosi con il tempo: a partire dalle conoscenze pregresse sulla storia di Messina, ho iniziato ad approfondire l’argomento da circa cinque anni, studiando la storia monumentale della Messina che non c’è più. Immergendomi in questi studi ho visualizzato, ma solo nella mia immaginazione, le vestigia di una città bellissima, e ho pensato che, ogni Messinese -appassionato o no a queste tematiche- avrebbe dovuto necessariamente conoscerla. 

Quanto tempo hai impiegato per completare l’elaborato?

Dal momento in cui ho iniziato l’attività, non mi sono più fermato. Ho passato i primi 6-8 mesi a studiare: ho stampato un’enorme mappa del centro storico della città e l’ho appesa sopra la mia scrivania, catalogando tutta la documentazione reperibile sui singoli edifici della città. Finita questa fase è iniziata la modellazione, durata da giugno 2019 fino a inizio 2020; l’ultimo passo è stato quello di convertire i vari blocchi ricostruiti a seconda dell’elaborato che volevo offrire (vista 2d, video, tour virtuale). Seppure in maniera ormai sporadica, ancora oggi continuo ad affinare parti della città ogni qualvolta che reperisco nuove fonti di riferimento.

©Luciano Giannone – Mappa qualitativa delle documentazione

Perché hai scelto di “viaggiare” proprio nella Messina del 1780?

Chi conosce la storia di Messina sa bene che il terremoto del 1908 non è stato l’unico evento che ne ha offuscato la memoria e la stessa identità culturale. Già nella Messina anteriore al sisma novecentesco non era più possibile ammirare il Palazzo Reale, la Loggia dei Mercanti, il campanile normanno e la Palazzata del Gullì, tutti monumenti unici e ampiamente documentati; anche l’immagine stessa della Messina tardo-ottocentesca è comunque ancora oggi tangibile attraverso la documentazione fotografica. L’idea di fondo dunque è stata quella di restituire l’immagine di una città “integra”, nella quale fosse ancora ben tangibile la sua stratigrafia storica, urbanistica e monumentale.

 

                             

                                   Trailer della Ricostruzione di Messina nel 1780 a cura di Luciano Giannone.  ©Luciano Giannone

La grande peculiarità della tua opera consiste nella creazione di un vero e proprio tour virtuale. Quali software hai utilizzato? Il tour virtuale sarà disponibile alla cittadinanza in futuro?

L’idea di iniziare un viaggio virtuale è nata dopo un viaggio in Svizzera fatto a fine 2018: lì, indossando un visore VR in uno spazio espositivo, ho compreso l’importanza di queste tecnologie nella didattica e musealizzazione e ho intuito che l’unico modo per poter riportare in vita la Messina Antica era di farlo attraverso questa tecnica

Il grande vantaggio del workflow 3d è quello di modellare singolarmente le varie porzioni e poterne disporre in molteplici modi, creando un’infinità di formati e scene a seconda del supporto scelto; il tour virtuale non è altro che la ripetizione di singole immagini renderizzate a 360° con 3d Studio Max e combinate tramite un linguaggio Java “preconfezionato”.

La scelta di includere il tour nel libro è stata fatta per aggiungere un contenuto importante a conclusione della lettura, ma, in linea con i miei scopi originari, intendo renderlo totalmente disponibile a breve, soprattutto con la speranza di riuscire ad affiancarlo ad un supporto hardware permanente (come una postazione Oculus) in qualche spazio culturale della città ,per poterne apprezzare appieno le funzionalità; a questo ci stiamo lavorando!

©Luciano Giannone – Piazza Duomo nel 1780: la Cattedrale e il campanile normanno, la chiesa di San Lorenzo e la statua di Carlo II

Al termine delle note storiche del libro hai parlato della catastrofe del 1908 e della successiva ricostruzione ad opera dell’ingegnere Borzì, accusato più volte di aver stravolto la struttura storica della città. Qual è il tuo personale giudizio sul piano Borzì? Credi che ad oggi ci sia l’esigenza di un nuovo piano regolatore?

Chi ancora oggi reputa il piano Borzì come la radice di tutti i mali urbanistici di Messina è oltremodo ingeneroso e pigro nella ricerca dei veri episodi nefasti che hanno interessato il centro cittadino. Dobbiamo ricordare che il piano Borzì fu adottato nel 1911, nel momento in cui a Roma si dibatteva ancora se fosse conveniente ricostruire la città o raderla al suolo per riadattarla a scalo ferroviario. La condizione imposta per la sua rinascita fu il rigido disegno di una scacchiera e l’edificazione di isolati di altezza non superiore ai due piani, e Borzì, come chiunque altro fosse stato incaricato di redigere il piano, dovette attenersi a ciò.

Tuttavia, è impossibile non nascondere i conclamati interessi economici di imprese e potentati che forzarono la demolizione di fabbricati recuperabili, come è difficile non biasimare il sistema economico-finanziario dei comparti edificatori introdotti dal piano che crearono un asfissiante e opprimente regime fondiario.

In generale ritengo che uno degli errori più grandi sia stato quello di non aver introdotto un piano urbanistico nell’immediato secondo dopoguerra, in grado di sostituire l’emergenziale piano Borzì e di impedire i fenomeni di speculazione edilizia che hanno deturpato irrimediabilmente il centro storico.  

Attualmente ritengo che Messina abbia urgentemente bisogno di un piano del verde pubblico, essendo tra le tre città d’Italia con la maggiore quantità di verde pubblico inutilizzato e potendo disporre di soli 14.8 mdi verde pubblico per cittadino contro i 32.8 m2 della media nazionale (dati 2020).

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Hai ancora qualche idea in mente per Messina?

Il progetto di ricostruzione virtuale della città sta andando avanti, pur potendoci lavorare nei sempre più esigui ritagli di tempo dettati dalle esigenze lavorative. Di recente è stato completato un video immersivo nel quale, come una ripresa fatta col drone, si vola attraverso le strade della Messina del XVIII secolo: tale esperienza, presentata in anteprima alla presenza delle autorità cittadine, sarà a breve disponibile a tutti all’interno degli spazi del nascente “teatro immersivo” del Palacultura.

Non nascondo che l’interesse riscontrato nel progetto ha sollecitato l’invito da parte di molti nel proseguo e nello sviluppo ulteriore del progetto. Sarebbe bello poter creare una stratigrafia storica della città nelle diverse epoche o incrementare il software di visualizzazione sfruttando la Realtà Aumentata.

Sicuramente, per creare qualcosa di duraturo e mettere a sistema l’intero progetto ci vorrebbe tanto impegno e anche la creazione di un gruppo di lavoro; ma sicuramente questa potrebbe essere l’occasione giusta per creare un sistema di visualizzazione AR/VR di un ambiente interamente ricostruito nello scenario di un’intera città, sulla base di una documentazione completa: Messina costituisce un unicum in tal senso e potrebbe essere capofila di un sistema innovativo che in Italia e in Europa ha pochi precedenti.

Grazie per il tempo che ci hai dedicato

Grazie a voi!

©Luciano Giannone – Il Monte di Pietà nel 1780

Luciano è uno dei tanti giovani che per causa di forza maggiore ha dovuto lasciare per motivi di studio la città di Messina, ma che non hai mai dimenticato le sue origini e non ha mai soffocato il desiderio di poter contribuire con la propria professione alla rinascita materiale, culturale e spirituale della nostra città.

Con questo viaggio nel passato Luciano ha squarciato i limiti dello spazio e del tempo, dando la possibilità di immergerci completamente nell’antico splendore di Messina; le sue ricostruzioni -citando la prefazione di Nino Principato- “hanno la capacità di suscitare un’intensa emozione e una totale partecipazione sul piano estetico e affettivo”.

Non possiamo che ringraziare Luciano per averci restituito la memoria di un glorioso passato e aver rinvigorito un’identità collettiva che ha bisogno di essere nutrita costantemente per rafforzare il legame tra urbe civitas.

La copertina del libro

 

 

Mario Antonio Spiritosanto

 

Di seguito, in attesa dei mancanti, potete trovare i link degli articoli che abbiamo dedicando  ai vari quartieri di Messina, nella ricostruzione dell’Architetto Giannone.

https://universome.unime.it/2022/05/03/messina-nel-1780-il-quartiere-palazzo-reale/
https://universome.unime.it/2022/05/17/messina-nel-1780-il-quartiere-piazza-duomo/
https://universome.unime.it/2022/06/25/messina-nel-1780-il-quartiere-grande-ospedale-collegio/
https://universome.unime.it/2022/05/31/messina-nel-1780-il-quartiere-quattro-fontane-purgatorio/

Luciano sui social:

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“Duecento giorni di tempesta”: il nuovo romanzo della scrittrice messinese Simona Moraci

 Duecento giorni di tempesta” è l’ultimo romanzo della giornalista e insegnante messinese Simona Moraci. L’autrice, che vanta una lunga carriera ventennale da giornalista (redattrice del quotidiano “la Gazzetta del Sud), intraprende la tortuosa – e meravigliosa – strada dell’insegnamento.  Dopo aver pubblicato i romanzi “I confini dell’anima” (1996) e “Giornalisti, e vissero per sempre precari e contenti” (2014), la scrittrice torna nelle librerie e store online con un romanzo, pubblicato dalla casa editrice Marlin, che affronta il delicato tema della scuola, in particolare della scuola di “frontiera”.

Sonia e i suoi duecento giorni di tempesta

Ed è Sonia, protagonista e voce narrante, che coinvolge il lettore nei suoi duecento giorni di tempesta. La protagonista è una giovane docente che viene catapultata in una scuola particolarmente ostica, all’interno di un pericoloso quartiere siciliano dimenticato dalle istituzioni. Sonia, che ancora combatte con i demoni del suo passato, si rende presto conto della grave situazione di disagio che vivono i ragazzi e le ragazze della scuola. I suoi alunni, o i “suoi bambini” come ama chiamarli, sono gli emarginati, gli ultimi, condannati dal contesto sociale in cui sono nati. Violenza, frustrazione, dolore e rabbia sono i sentimenti che animano i suoi bambini, costretti a crescere in un quartiere – come tanti nel sud Italia – stritolato dalla malavita.  Sonia comprende di essere l’unico punto di riferimento per i suoi alunni, prova a scolarizzarli e a instaurare con loro un rapporto che vada ben oltre il rigido ruolo insegnante – alunno, nonostante le grosse difficoltà e i fallimenti iniziali.

L’autrice racconta la scuola di “frontiera”

Simona Moraci ha il pregio di raccontare non soltanto la sua storia, ma quella di molti insegnanti che ogni giorno sono costretti a lavorare in un ambiente violento e senza alcun tipo di supporto.  Gli insegnanti risultano abbandonati e con mezzi non sufficienti per affrontare le problematiche non solo della scuola, ma soprattutto di un quartiere ai margini della vita civile. Essi sono costretti ad insegnare in un ambiente che non li tutela abbastanza; spesso sono vittime non solo di violenza verbale, ma anche fisica. I docenti rappresentano per questi ragazzi l’unico barlume di speranza e di parvenza di legalità. Compito che risulta estremamente complicato: i ragazzi sono abituati alla violenza, all’illegalità, alla mancanza di rispetto per l’autorità. Molti di loro sono cresciuti all’interno di una mentalità criminale, presentando un comportamento disfunzionale ed evidente, e anche ovvia, è il disinteresse delle famiglie. Una delle chiavi per aprire i cuori dei ragazzi “esplosivi” è l’amore: “l’amore è l’unica via per uscire dal buio”. Sonia ripete più volte questo leit motiv, anche quando lo sconforto e la frustrazione sembrano prendere il sopravvento.

Simona Moraci, l’autrice del romanzo

L’autrice sottolinea: ‹‹questo romanzo nasce dalla mia esperienza maturata negli ultimi anni di “frontiera”, nelle scuole di quartieri a rischio. E’ come un universo a sé stante: tutti i sentimenti, le emozioni sono amplificati e occorre trovare un equilibrio “nuovo”. La mia passione per la scrittura e il mio amore per l’insegnamento mi hanno a raccontare di rabbia e innocenza, di pianto e risate, di questi bambini straordinari e fuori da ogni schema. In particolare, l’affetto nei confronti dei ragazzi è stato uno stimolo potente. L’amore è l’unica via per uscire dal buio.››

Un pericoloso triangolo

Durante l’anno scolastico, Sonia si ritrova in un tempestoso triangolo amoroso che scoprirà soltanto successivamente essere più grande, complicato e intenso di quanto possa inizialmente immaginare. La protagonista, dopo la grandissima delusione del suo precedente e unico amore, cade nella tempesta di questi due amori tanto diversi quanto imprevedibili e coinvolgenti. Andrea, insegnate di Arte di bella presenza e dal carattere fortemente espansivo i cui occhi celano una rabbia nascosta e repressa, e Stefano – anche lui suo collega insegnante – riservato e sfuggente, poetico e disilluso, che rappresenta l’opposto di Andrea, due volti diversi dell’amore. Ma i due colleghi insegnanti nascondono qualcosa di più, già si conoscono e lasciano intendere a Sonia – e di conseguenza al lettore – che il loro passato, cupo e misterioso, è in qualche misura legato. Sonia è ancora tormentata dalle esperienze che ha dovuto affrontare: dal rapporto complicato con la sua famiglia, dal suo primo e unico amore che l’ha distrutta lentamente e dall’immisurabile dolore della perdita di un figlio nato prematuramente. A Sonia serviranno duecento giorni di tempesta per rinascere, trovare un equilibrio interiore e aiutare i ragazzi ad immaginare un futuro migliore e alternativo a quello che il quartiere offre loro.

 

Francesco Benedetto Micalizzi

 

 

Link per il libro: https://www.marlineditore.it/shop/83/83/1879_duecento-giorni-di-tempesta.xhtml?a=117

 

Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino: top o flop?

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” (2021) non sarà al pari di film e romanzo, ma non così mediocre come tutti affermano – Voto UVM: 3/5

Dopo quaranta anni ritorna in scena Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino nella veste di una serie tv disponibile su Amazon Prime Video e Sky Q.

Il film e il libro hanno sconvolto varie generazioni, sono opere entrate a far della storia non solo del cinema, ma anche della società, quindi di tutti noi. Difatti raccontano la vera storia della protagonista Christiane F e del suo periodo buio  nella Berlino degli anni 70, tra droga, discoteche e primi amori col sottofondo musicale della voce indimenticabile di David Bowie.

La serie tv è approdata nella piattaforma streaming il 7 Maggio 2021 ed è il secondo adattamento del romanzo, uscito a puntate nel 1979 sulla rivista tedesca Stern. Questa nuova versione della storia di Christiane F. ha fatto subito parlare di sé, ma non è stata accolta in modo positivo né dalla critica e né dal pubblico. Per quale motivo? Cosa non ha funzionato? Ma soprattutto è davvero così mediocre questa produzione?

La protagonista Christiane F (Jana McKinnon) – IFonte: today.it

Noi, ragazzi dello zoo di Berlino (2021): tre ragioni per guardarla

Si imparava in maniera del tutto automatica che tutto quello che è permesso è terribilmente insulso e che tutto quello che è vietato è molto divertente.

Grande attesa e grandi spersanze si prospettavano, ma la serie non ha avuto la critica sperata: difatti, dopo meno di 24 ore, gli haters più accaniti, come fossero Zorro in prima linea col loro smartphone, si sono riversati sui social e hanno detto la loro: c’è chi ha elogiato la serie, chi l’ha definita una produzione da quattro soldi, c’era anche chi si era svegliato con la luna storta ed era spinto a demolire accompagnato più da un gusto personale che da reale senso critico. O forse, ancor meglio, la maggior  parte degli utenti ha seguito la massa dei pareri negativi.

Ma ora fermiamoci un attimo e immaginiamo: se la serie avesse avuto recensioni positive, gli utenti social l’avrebbero comunque criticata? Io credo di no. Ma voglio dire la mia: Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (2021) a pieno neanche me, ma, analizzandola nei minimi dettagli, è un’opera che ha il suo perché . Per ben tre ragioni:

1) Si presenta allo spettatore in modo onirico, narra una realtà che non tutti noi possiamo capire se non la viviamo in prima persona o come testimoni diretti.  Come i suoi due “antenati” (film e romanzo), mostra alle nuove generazioni a cosa possa portare la droga e come pian piano possa distruggere non solo il proprio corpo ma anche l’anima.

2) Non c’è solo la storia di Christiane a 360 gradi, ma anche quella degli altri ragazzi. Nel film vediamo nello specifico solo il racconto della protagonista, mentre la serie mostra la storia dei ragazzi dello zoo, dimenticati dai propri genitori, abbondonati per ore e ore in una metropoli come Berlino.

3) C’è un ritorno al passato degli anni ’70, tra rock e mode del momento, niente cellulari e social, ma solo un mondo fatto di maggiore realismo e meno immagini.

I sei “ragazzi dello zoo di Berlino” – Fonte: today.it

Promossa o bocciata?

E’ vero, la serie non presenta quel crudismo dei suoi “predecessori”: non notiamo la sgradevolezza di quei ragazzi distrutti o il disgusto che si riversava nello zoo, ma ci troviamo di fronte a un racconto che si è più adattato alle generazioni attuali.

Forse proprio per questo la serie non rimarrà nella storia: perché è andata a perdere quel senso di empatia che manca alla nostra società attuale. Che lo si voglia o no, ricordiamoci però che mette in scena le vite di quelle persone abbondanate o cacciate di casa, persone che non sanno cosa fare, persone sole, che si rifugiano in un mondo psichedelico perché troppo spaventati da un mondo che non sentono loro, mentre davanti ai loro occhi passano famiglie felici che rientrano nella loro case calde.

Insomma Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino non sarà al passo con i propri “genitori”, ma è comunque una serie che merita di essere guardata e capita fino in fondo.

L’amore è come l’eroina: «che mi fa un solo buco?» e ricadi nella dipendenza totale, «che mi fa un solo sguardo?» ed eccoti qui a piangere di nuovo.

                                                                                    Alessia Orsa

 

 

 

Speciale di Natale: 5 film e serie TV (più un libro) per passare al meglio le festività

Una cosa è sicura: quest’anno sarà un Natale diverso dal solito. Ma come trovare il giusto spirito natalizio? Sicuramente un film, una serie TV o un libro potrebbero aiutare (sopratutto se a tema).

Ne abbiamo scelti alcuni per voi, tra quelli più nuovi e adatti a tutti i tipi di età.

Holidate

Questo film originale Netflix, uscito nel 2020, è una commedia romantica di John Whitesell con attori protagonisti Emma Roberts (Sloane) e Luke Bracey (Jackson). 

Fonte: netflix.com

Sloane è una ragazza single che viene assillata dai propri parenti affinché trovi un fidanzato ufficiale così da non essere sola per le feste; prenderà in esempio lo stratagemma usato dalla zia: il festa-amico, cioè uno sconosciuto che la accompagni alle feste in famiglia. Sloane incontra in un centro commerciale Jackson, anche lui alla ricerca di stratagemmi per non passare le feste da solo, come organizzare appuntamenti al buio. In fila per restituire dei regali di Natale si conosceranno e si racconteranno le proprie vicende disastrose, decideranno così di diventare festa-amici. Cosa accadrà?

Jingle Jangle – Un’avventura Natalizia

Jingle Jangle è un musical – fantasy con attori protagonisti Forest Whitaker (Jeronicus Jangle) e Madalen Mills (Journey), diretto da David E. Talbert e distribuito da Netflix.

Fonte: spettacolo.periodicodaily.com

E’ ambientato nella cittadina di Cobbleton, in cui vive Jeronicus Jangle con tutta la sua famiglia; è un famoso giocattolaio dalle magiche invenzioni che avrà dei problemi con il suo giovane apprendista. Infatti questo lo tradirà rubandogli la sua creazione più grande insieme al libro che custodiva i segreti delle sue creazioni. A salvare la situazione ci sarà la nipotina Journey, questa farà ritrovare la speranza al nonno e riuscirà a salvarlo dalla situazione grazie ad una vecchia invenzione da lui dimenticata. Ma niente sarà facile!

Krampus – Natale non è sempre Natale

Questo film dell’Universal Pictures, uscito nel 2015, è una commedia – horror che vede alcuni attori come Toni Collette (Sarah Engel) e Adam Scott (Tom Engel) e come regista Michael Dougherty.

Fonte: themacguffin.it

Mancano pochi giorni al Natale e tutta la famiglia si riunisce. Max, figlio di Sarah e Tom, crede in Babbo Natale e vorrebbe che in famiglia ci fosse lo spirito natalizio che invece manca. Durante una cena le cugine di Max leggono ad alta voce – e davanti a tutti – la lettera da lui scritta per Babbo Natale, provocando così uno scatto d’ira che lo porta ad urlare di odiare il Natale, strappando la lettera. Improvvisamente una bufera di neve causa un blackout; strani esseri iniziano ad invadere la casa attaccando i membri della famiglia, ma ancor peggio, arriverà il Krampus, un demone che punisce chi perde lo spirito del Natale. Riuscirà la famiglia a salvarsi da lui ed i suoi mostruosi scagnozzi?

Klaus – I segreti del Natale

Film d’animazione e avventura spagnolo di Sergio Pablos, distribuito da Netflix, uscito nel 2019 con un cast di voci (nella versione italiana) che comprende Francesco Pannofino (Klaus) e Marco Mengoni (Jesper).

Fonte: nerdevil.it

Jesper, figlio di un ricco padre esperto nel mercato postale, è incapace di compiere il lavoro da postino; così viene spedito dal padre nella piccola cittadina di Smeerensburg, un’isola deserta e ghiacciata, con il compito di consegnare 6000 lettere in un anno. Con gli abitanti divisi in due fazioni, da sempre in lotta tra loro, non è un’impresa facile. Nel corso della missione si imbatte in Klaus, un vecchio falegname con una casa isolata e piena di giocattoli (da lui creati) e in Alva, una maestra che vendendo pesce fa di tutto per risparmiare per andare via da lì. Klaus, vedendo un disegno fatto da un bambino triste, inizia insieme a Jesper la consegna di regali a tutti i bambini che attraverso le loro lettere chiedono la felicità. Cosa combineranno?

Nailed It / Sugar Rush 

Serie TV statunitensi trasmesse su Netflix dal 2018/19. Delle tanti edizioni e da numerosi Paesi troviamo anche le edizioni dedicate al Natale!

Fonte: news.newonnetflix.info 

Dei pasticceri, principianti e non, si sfideranno ai fornelli per aggiudicarsi il premio di 10’000$. A giudicare le loro preparazioni un team di giudici esperti. Ne combineranno delle belle!

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale

Avete presente quando fuori fa molto freddo e le braci sono quasi spente? Ebbene, ecco un ciocco di legno per ravvivare il fuoco del caminetto!

 Fonte: fotografia di Rita Gaia Asti

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale è una poesia di Gianni Rodari, edita da Einaudi Ragazzi e tratta da Il secondo libro delle filastrocche del 1985.
L’autore – insignito del premio Hans Christian Andersen per la narrativa per l’infanzia – racconta la storia di un passerotto infreddolito che scorge dal davanzale di una finestra una famiglia in procinto di fare l’albero di Natale. La invita quindi a lasciarlo entrare, perché possa non solo fare il nido sul loro abete e scaldarsi, ma anche dare gioia ai più piccoli di casa, che apprenderanno l’importanza di accogliere e proteggere anche la più piccola tra le creature viventi:

E per il vostro bambino
pensate domani che gioia

trovare tra i doni, dietro
una mezzaluna di latta,
fra la neve d’ovatta
e la rugiada di vetro.

Trovare un passero vero,
con un cuore vero nel petto

E’ una lettura adatta al periodo natalizio, accompagnata da illustrazioni gradevoli, capace di rasserenare l’animo e scaldare il cuore di grandi e piccini; particolarmente indicata per quei momenti di sconforto nei quali si avverte l’esigenza di alleviare le preoccupazioni.

                                                                                                                                                                                              Samuele Vita e Rita Gaia Asti

Io, pacifista in trincea: viaggio nella mente di un soldato italoamericano

Nell’approcciarmi al libro Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra (Donzelli Editore, 2019) ho avuto le stesse perplessità che molti nutrono nei confronti della letteratura storiografica: spesso i lettori sono preoccupati di trovare una sorta di lezione, un’insieme di nozioni magari trascurate nel corso degli studi scolastici.

Niente di tutto ciò: l’autobiografia dell’italoamericano Vincenzo D’Aquila (Palermo 1892- New York 1975) si presenta come un vero e proprio viaggio nella mente – come vedremo – “instabile” di un volontario che, dalla lontana America, decide di arruolarsi nella speranza di servire la sua terra natia, per poi accorgersi che non sempre le idee corrispondono alla realtà dei fatti. Ed è proprio questo scontro che ci trasporta negli anni della Grande Guerra, grazie all’interesse del curatore messinese Claudio Staiti (dottore di ricerca in Scienze Storiche, Archeologiche e Filologiche presso l’UniMe) nel riportare alla luce Bodyguard Unseen. A True Autobiography (1931), tradotto ed arricchito di puntuali note ed appendice documentaria.

Copertina dell’autobiografia originale (1931)

Alla prefazione dello storico dell’emigrazione Emilio Franzina, che consiglio di leggere anche ai non addetti ai lavori, segue un’introduzione di Staiti, che in gergo potremmo definire un quasispoiler. Ma, in realtà, ci prepara ad affrontare un racconto crudo, convincente, ad ampi tratti misticheggiante, se vogliamo anche teatrale, che per troppo tempo è rimasto, con rare eccezioni, nell’oblio della letteratura del primo dopoguerra. Quegli anni hanno visto nascere capolavori come Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque) e Addio alle armi (Hemingway) sicuramente ben presenti nella mente di D’Aquila-scrittore.

Ma la sua autobiografia ne sarà all’altezza?

L’unicità del racconto

Osserviamo progressivamente crollare i presupposti che portarono il protagonista ad offrirsi come volontario: dall’ideale di patriottismo, alla convinzione di un conflitto breve e vittorioso; del concetto stesso di guerra non restano altro che macerie nella mente di chi scrive e di chi legge. D’Aquila, come notiamo dal titolo originale dell’autobiografia, è convinto di essere protetto da una guardia del corpo invisibile, che gli permette di sfuggire dal fronte italo-austriaco senza sparare mai un colpo ad anima viva e senza essere – allo stesso tempo – perseguito come disertore.

La sua «chimerica promessa» di non uccidere, racchiude il manifesto di un uomo che da soldato diventa obiettore di coscienza e decide di «raccontare la verità». Se credere o meno alle bizzarre vicende e coincidenze della sua esperienza, nei punti in cui la ricostruzione storica – seppur puntuale – è impossibile, sta a noi: ma, di certo, il messaggio arriva chiaro alle coscienze dei lettori e lo stile personale rende avvincente la narrazione.

Ritratto di Vincenzo D’Aquila tratto dall’autobiografia originale

La sua “conversione” è intrisa di un linguaggio fortemente religioso, che si intreccia spesso con idee deliranti (per le quali fu internato in due ospedali psichiatrici): ma, del resto, si può dire che un profeta – come lui stesso si definisce – di pace fosse un vero matto? Non lo sono forse i generali ipocriti, di cui parla, che mandando i soldati a morire per un vuoto nazionalismo (e non dunque patriottismo) mentre sorseggiano comodamente uno sherry dall’alto della loro comoda posizione?

Questi sono i dubbi e le contraddizioni che si insinuano nella mente del lettore e che il protagonista risolve con continui riferimenti al cristianesimo, i quali supportano le sue azioni e comportamenti da predestinato. Ma il processo di rinascita non è né semplice né scontato. Né possiamo affermare che la vicenda non abbia degli aspetti di tipo psichiatrico: tuttavia fa riflettere come, anche dopo essere stato dichiarato ufficialmente sano, D’Aquila affermi di continuare ad avere le stesse “idee deliranti e assurde” che lo avevano reso “pericoloso per sé e per gli altri”. Forse, ironia della sorte, anche per questo non fu mai richiamato al fronte, dopo vari permessi: avrebbe potuto contagiare con le sue idee di pace gli altri commilitoni, minando la stabilità di una guerra che di stabile aveva molto poco; a tal punto che anche la notizia di una vittoria tedesca sarebbe stata accolta come una buona notizia (da lui e suoi compagni stessi), purché ponesse fine al conflitto.

Scena tratta dalla docufiction “14-Diaries of the Great War” ©, che descrive 14 storie di guerra: tra queste troviamo anche l’esperienza di Vincenzo D’Aquila.

Sicilia e guerra

Sebbene tornare nella sua città natale fosse uno dei motivi che lo spinsero ad arruolarsi, D’Aquila pone nettamente in contrapposizione la bellezza dei paesaggi rurali siciliani alla devastazione della guerra, la purezza contadina all’ipocrisia di chi la guerra l’ha voluta. Nel suo viaggio attraverso l’Italia passa anche dalla nostra città: trova una Messina ancora segnata dal terremoto del 1908, che «si stava ricostruendo senza fretta, o […] con massima cura» e che ricorda più per l’ottimo pranzo a base di pesce, rispetto alla sua bellezza cadente. Viene anche esaltato l’esemplare “modello di pace” palermitano, città nella quale da sempre convivono pacificamente musulmani, ebrei e cristiani. Troviamo l’intima connessione con la sicilianità anche nell’intento del curatore di radunare lettere, memorie e diari di siciliani durante la Grande Guerra (oggetto, questo, della sua tesi di dottorato) per descriverla da un punto di vista a noi caro, nonché, storiograficamente parlando, interessante.

Fonte: Reparto fotocinematografico dell’Esercito -Postazioni in trincea, (Museo Centrale del Risorgimento – Roma)

L’attualità del racconto

Mentre il falso mito della guerra nobile ed efficiente si sgretola, D’Aquila lascia il suo testamento spirituale: mette in guardia su alcuni piantagrane che da lì a poco – come puntualmente accadde – avrebbero potuto dare adito ad un nuovo conflitto (velato, ma non troppo, riferimento a Mussolini a detta dello stesso curatore) e risveglia la coscienza dei credenti, che purtroppo hanno avallato, così come gran parte delle gerarchie ecclesiastiche, le giustificazioni alla carneficina in corso.

Se nel libro leggiamo che “essere folle paga”, altrettanto non possiamo dire della scelta di pubblicare l’autobiografia, presto dimenticata dal pubblico: a Staiti il grande merito di cogliere l’opportunità, in occasione di un periodo di studio per il dottorato negli USA, di riproporre una testimonianza di un uomo e della sua discesa negli inferi di una folle guerra, che, oltre a spegnere tantissime vite, ha reso “folli” tanti soldati che forse – almeno alcuni – folli non erano.

Persino i pazzi speravano di leggere presto della fine della guerra, così da poter tornare ad essere normali

La guerra è rappresentata come il più grande fallimento della civiltà: D’Aquila vuole riportare l’umanità in un «mondo folle» , rigorosamente con mezzi pacifici. Dare nuova linfa vitale all’opera dell’italoamericano è il compito che si è proposto Staiti, assolto alla perfezione e con meticolosa precisione, contribuendo ad aggiungere un ulteriore tassello al concetto di pace. Non possiamo ignorare le troppe guerre che ancora oggi avvelenano la nostra terra, né i sempre più incalzanti “nuovi nazionalismi” che si affacciano all’orizzonte geopolitico odierno. E Io, pacifista in trincea risveglia in noi il desiderio di «camminare allo scoperto, come se il mondo fosse in pace».

Emanuele Chiara

Per approfondire:

Saggio “L’«odissea di guerra e pazzia» di Vincenzo D’Aquila. Un pacifista in trincea”, Claudio Staiti

Estratto della docufiction “14-Diaries of the Great War”, realizzato da Claudio Staiti

Sito web della docufiction 

Pagina Facebook del libro “Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra”

Jolanda Insana: la poetessa con la voglia di “sciarriarsi”

Pupara sono

e faccio teatrino con due soli pupi

lei e lei

lei si chiama vita

e lei si chiama morte

la prima lei percosìdire ha i coglioni

la seconda è una fessicella

e quando avviene che compenetrazione succede

la vita muore addirittura di piacere

 

Comincia così la fortunata storia della poesia di Jolanda Insana, l’ eccentrica poetessa messinese che nel 1977 pubblicò la sua prima raccolta, dal titolo Sciarra amara. In questa prima poesia la poetessa è la pupara, “mastra di trame e telai”, che inscena e orchestra la perpetua “sciarra” tra la vita e la morte.

Già da queste poche righe si evince il carattere solenne e allo stesso tempo divertente della poesia di Jolanda, in cui si mescolano il dramma della vita e temi esistenziali, raccontati con elementi ironici e popolari, tipici appunto del “teatrino” dei pupi. Basti pensare al termine sciarra (litigio), tanto caro alla tradizione dialettale messinese, che in questo contesto assume un’importanza fondamentale, dietro alla quale si nasconde il senso della poesia di Jolanda.

Noi di UniVersoMe abbiamo avuto modo di “conoscerla” in occasione della presentazione del libro «Pupara sono». Per la poesia di Jolanda Insana, nuova collezione di inediti, disegni, scritti rari e interventi critici sulla poetessa, della quale purtroppo oggi poco o nulla si ritrova nelle librerie.

©Giulia Greco – Libreria Colapesce, Messina 2020

La raccolta, presentata presso la libreria Colapesce (Messina), ci ha fatti avvicinare a un mondo – quello della poesia contemporanea – che oggi difficilmente viene riscoperto. Ma, soprattutto, ci siamo profondamente e inaspettatamente divertiti.

Chi era dunque Jolanda Insana?

Breve biografia

Nata a Messina nel 1937, Jolanda si trasferì con la famiglia a Monforte San Giorgio nel 1941 per sfuggire alle macerie in cui riversava la città dello Stretto a causa dei bombardamenti della guerra, tema che ritroviamo nelle sue opere.

Sin dalla giovane età, la poetessa ha mostrato uno spiccato interesse per il corpo della parola, attraverso la scoperta di vocaboli meno utilizzati e la ricerca di parole nuove. Questa passione l’ha condotta a intraprendere gli studi in filologia classica, continuati anche la dopo la laurea conseguita nel 1960 presso l’Università di Messina, con una tesi su un testo in dialetto dorico (IV-V secolo a. C.).

Jolanda Insana – Fonte: scenario

Nel 1968 si è trasferita a Roma, città nella quale morì nel 2016, dove ha insegnato lettere alle scuole superiori. Oltre all’insegnamento e alla poesia, Jolanda si è dedicata ache alla traduzione di autori classici, sia greci che latini, e alla prosa.

Il linguaggio e l’importanza della parola

Il linguaggio poetico di Jolanda è un intarsio di elementi di ogni genere: le forme arcaiche si mischiano con quelle popolari della filastrocca e della litania; il tono solenne dell’epigramma e dell’oratoria è accompagnato dallo sberleffo o addirittura anche dall’offesa verbale.

La contaminazione di diversi generi è il frutto più maturo della sua formazione e della ricerca di una sperimentazione espressiva che smonta e ricompone i versi e le parole. La poetessa gioca con la parola, attraverso la deformazione aggettivi e verbi e l’utilizzo di figure retoriche, assonanze e allitterazioni, per mettere in risalto la musicalità, poiché affermava che «le parole sono prima di tutto suono».

©Giulia Greco – Piccola raccolta di poesie donata ai presenti durante la presentazione, Messina 2020

Pertanto, amava recitare le sue poesie: la dimensione orale si contrappone a quella scritta, libresca, “morta“.

Solo attraverso le parole, che lei “curava e raccoglieva come l’erba di muro”, si può dare nuova vita ai luoghi, alle persone e al tempo: ogni tempo vive la sua morte, ma il poeta ha il compito di scuotere la collettività, di suscitare emozioni in chi ascolta.

Non a caso, per leggere alcuni inediti durante la presentazione, sono state scelte un’attrice e una fan di Jolanda di nome Venera, personaggio che – in una sua poesia sul terremoto del 1908 – rappresenta la città di Messina morente.

Non a caso il libro nasce dallo sforzo di non spegnere la voce della poetessa e di riappropriarci di un “linguaggio dello Stretto”, a metà tra una promessa e uno scongiuro.

Il tema della “sciarra” e la sensibilità politica

Entrambi sono temi centrali della sua collezione di esordio (Sciarra amara, pubblicata all’età di 40 anni) .

In questo caso, la sciarra non ha un significato negativo: anzi, è vista come una forza sia umana che naturale, in grado di contrapporsi all’immobilità della morte.

La lite inscenata tra la vita e la morte è perpetua e “nessun compare ci metterà la parola per farla tacere”. La vita è in continua lotta non solo con la morte ma con tutto ciò che sa di morte, come la malattia fisica e l’ancora più permeante malattia del potere.

La “sciarra” inscenata da Jolanda è dunque un atto di resistenza, una continua rivoluzione contro la macchina che perpetua il male, le ingiustizie e le diseguaglianze.

©Giulia Greco – Il giornalista Tonino Cafeo (destra) e l’autore Giuseppe Lo Castro (sinistra), con il quale abbiamo avuto una piacevole chiacchierata al termine della presentazione, Messina 2020

Da qui si evince il carattere anticonformista della poetessa messinese, donna eccentrica e provocatrice, fortemente sensibile alle tematiche politiche del nostro tempo. Ne La stortura (che le valse il premio Viareggio per la poesia nel 2002) e in Cronologia delle lesioni, la poetessa parla infatti di argomenti come i migranti e il femminicidio.

All’incessante lotta esterna si accompagna il conflitto interno con sé stessi, per respingere la tentazione di lasciarsi andare e cedere al cinismo e al nichilismo, da lei rifiutati con forza.

Molto suggestiva è infine la sciarra tra la Terra e Luna, recitata al Festival delle letterature di Roma del 2009.

La Luna, stanca della scelleratezza degli esseri umani, scaglia un’ invettiva contro l’ “immonda Terra” che si sfoga e piange per banalità, non avendo cura dei “morti di fame, gli appestati, gli scheletri ambulanti, i barconi dei migranti”.

Il testo di questa poesia è stato pubblicato in un libro che Jolanda ha consegnato una settimana prima di morire di un male inguaribile. Dunque, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, Jolanda non ha ceduto all’impotenza della morte: fino all’ultimo, ha avuto la forza e la voglia di sbraitar contando.

“la vita ha profumo di vita

così dolce

che scolla i santi

dalla croce”

Emanuele Chiara, Mario Antonio Spiritosanto

 

Bibliografia:

«Pupara sono». Per la poesia di Jolanda Insana, a cura di Giuseppe Lo Castro e Gianfranco Ferraro

http://ww2.unime.it/mantichora/wp-content/uploads/2019/04/BROCCIO-128-141.pdf

https://www.elle.com/it/magazine/storie-di-donne/a28349897/jolanda-insana-poetessa/

http://www.progettoblio.com/files/d9-10.pdf

http://www.italian-poetry.org/jolanda-insana/

Biemmi Elisabetta, «Corpo a corpo con leparole». La poesia di Jolanda Insana. , su tesi.cab.unipd.it

Intervista allo scrittore Giuseppe Staiti – “La Risalita di Colapesce”

“…è bastato chiedersi, e se lui tornasse?”

©Antonino Micari – Giuseppe Staiti (sinistra) dialoga con l’editore Gianluca Buttafarro (destra)

La leggenda di Colapesce narra una storia eterna, che come tutte le serie tv più moderne termina ma ti lascia con il fiato sospeso. E la storia di una figura mitologica rimasta nei mari dello Stretto a sorreggere la Sicilia sembra non voler mai finire. Giuseppe Staiti da sempre coltivava la passione per la lettura, scherzando mi dice che spendeva così tanto in libri che d’un tratto si è detto “Beh, forse ora conviene che inizi a scriverli io!”. In realtà il grande merito (e talento) del giovane scrittore messinese è quello di aver saputo cogliere la necessità di questa storia nel voler essere raccontata, una necessità che tutti i messinesi, siciliani e semplici conoscitori di questo mito sentono. Da qui nascono degli interrogativi che danno lo slancio alla storia de “La Risalita di Colapesce”, edito da La Feluca edizioni. In una splendida domenica, presso la Libreria Doralice – Mondadori point (un gioiellino della litoranea di Messina nord) abbiamo avuto l’opportunità di scambiare qualche parola con Giuseppe Staiti.

Partiamo dal libro. Chi è per te Colapesce?

Colapesce credo che sia un po’ lo spirito delle legende siciliane. Con il fatto di essere un po’ il sostegno della Sicilia, ha un posto privilegiato tra tutte le leggende siciliane. Anzi io ci vedo addirittura una valenza storica: perché i miti, ci tengo tanto a precisare, sì sono delle storie, storielle che le persone raccontano e con cui si intrattengono, però c’è un sottotesto storico, ci sono vari livelli per leggere i miti, e il bello della mitologia è anche questo, che ci raccontano delle storie “oltre”. Partono da questa necessità di avere un qualcuno o qualcosa al di sotto della Sicilia, un sostegno a quest’isola.

L’idea di scriverci qualcosa come ti è venuta?

È venuta un po’ dalla necessità di raccontare questi miti in un modo nuovo. Ho visto che tutte queste storie stavano lì e avevano, anzi, hanno, un grande potenziale letterario. A volte sono raccontate in modo anacronistico, sono sempre viste un po’ con diffidenza.

©Antonino Micari

Probabilmente sei il primo che fa questo tipo di rielaborazione.

Sì, ti posso dire che c’è una citazione che ho aggiunto all’inizio del libro, di questo grande studioso di cultura popolare, Giuseppe Pitrè. Dal 1800 lui ha raccolto una monografia su Colapesce, ne ha raccolto circa 40 versioni, oltre a migliaia e migliaia di altre storie. Lui andava in giro per la Sicilia a chiedere ai pescatori, alle lavandaie, alla gente del popolo di raccontargli una storia. Le ha raccolte tutte in un migliaio di pagine, ha fatto un’enciclopedia del siciliano, della grammatica siciliana, e poi a Colapesce ha dedicato una monografia: comincia questo libro chiedendosi proprio come mai nessuno dei siciliani abbia mai apportato una modifica al mito di Colapesce. Nonostante sia quello più raccontato e meglio conosciuto, risulta il mito con meno innovazione rispetto a tutti gli altri.

La storia di Colapesce invece ha una grandissima potenzialità, ed il tuo libro ne è la prova.

Penso che chiunque abbia letto un libro riconosca subito una buona storia: la si riconosce dal fatto che si vorrebbe non finisse mai, ed è un po’ quello che si prova anche con la leggenda di Colapesce se ci pensi, perché nel finale lui arriva sott’acqua, e poi? Cosa succede? Resta un po’ a metà, è un finale che sentivo servisse. Questa rielaborazione è stata anche doverosa, è arrivata anche spontaneamente, è bastato chiedersi:“ e se lui tornasse?”

A proposito di questo, tu sei laureato in Ortottica, hai studiato violino al Conservatorio, nel frattempo lavoravi anche in macelleria, però tutte le volte che venivo a casa tua per incontrare tuo fratello, mio amico, vedevo delle librerie immense, piene di libri, e non mi capacitavo del fatto che qualcuno potesse leggere così tanti libri in così poco tempo. Cosa ti ha spinto a fare il passo decisivo, dalla passione per la lettura alla scrittura di un libro?

È bastato soltanto sentire la storia con il suo potenziale, quindi proprio una sensazione esterna di questa storia che vuole essere raccontata, e lì hai un po’ l’intuizione. Poi c’è tanto lavoro dietro, mettersi lì con pazienza, costruire la trama, ma a volte basta magari mettere gli elementi, i soggetti, e poi lasciarli vivere. Io credo che il lavoro dello scrittore, nella mia piccola esperienza, stia in questo: non si crea niente, si mettono insieme degli elementi e li si fa camminare, li si fa vivere, li si fa vivere delle proprie scelte. In quei momenti nei quali avevo un dubbio sulla trama mi bastava semplicemente andare a cercare un luogo, una foto di un posto, o semplicemente guardare la Sicilia e vedere che lì, dai luoghi, dai colori, dai profumi usciva fuori una storia, ogni luogo qui ha la sua storia.

C’è tanto di Sicilia, di Messina nel libro, nonostante la sua vocazione moderna.

Sì assolutamente, a volte magari è stato un po’ difficile perché non volevo cadere nell’autoreferenzialità, ovvero una cosa fatta solo per citare, per mettere dei nomi, o una cosa fatta solo perché è siciliana per cui “andatevela a comprare”. Ho tolto tanti nomi, ho cambiato i nomi delle città, proprio perché volevo che fosse visto nella sua storia,  fosse apprezzato per la storia, per la sua componente letteraria.

Tuttavia nel libro c’è molto, in realtà, di tradizione, perché -come dicevamo prima- è uno dei pochi libri in cui c’è una pagina intera dedicata alla bibliografia, quindi comunque hai fatto una grande ricerca.

Sì, è una grande passione che ho, in particolare per i miti e per le tradizioni siciliane, viene tutto da lì.

©Antonino Micari – Libreria Doralice

Come ti vedi da qui a 10 anni? Continuerai a scrivere?

Assolutamente sì! Anzi questo libro lo vedo come il primo di una trilogia, tra dieci anni vorrei continuare, creare tutta una collana di romanzi sui miti siciliani. In questo campo ho trovato un grande serbatoio di storie, un campo veramente fertile su cui scrivere. Anzi, il mio obiettivo è quello di creare una serie di trilogie.

Quindi questo sarà un libro di partenza?

È un po’ una grande panoramica su tutte le possibilità che hanno questi miti siciliani. Poi vorrei far seguire una serie di altri libri che non saranno esattamente dei prequel e dei sequel, ma seguiranno un andamento ciclico. E’ un concetto particolare: il tempo non è lineare, è ciclico ed è una scelta forzata fatta per i miti perché non seguono la vita naturale degli uomini, bensì sono ciclici, continuano ad essere raccontati e raccontati all’infinito. Dunque, questi racconti avranno un punto di partenza e poi si succederanno degli eventi per cui si tornerà continuamente allo stesso punto di partenza, a volte con dei piccoli cambiamenti, ed in tutto i personaggi cercheranno il loro posto in una linea temporale che va avanti e indietro, che li lascia un po’ da parte, ognuno di loro con il proprio desiderio un po’ umano cercherà di ambientarsi.

Già hai in mente qualcosa? Puoi darci qualche anticipazione?

Questo primo libro è incentrato su Colapesce, il secondo che arriverà, ed è già a buon punto, (non so ancora quando uscirà, probabilmente questa è una scelta editoriale) sarà invece incentrato su Giufà e il suo alter ego Ferrazzano che è un po’ meno conosciuto. Però, nella grande enciclopedia di Pitrè anzi ha uno spazio anche più ampio di Giufà: sono queste due maschere, chi è che sembra che ci è o ci fa, e invece quello scaltro che cerca sempre di fregare la gente. Si ritroveranno insieme e cercheranno di dare un rimedio al tempo che torna indietro.

Tu sei un ragazzo eclettico, fai un sacco di cose, ed ad un certo punto dici “No! Io voglio fare lo scrittore, voglio scrivere!” C’è quindi qualche consiglio che vuoi dare a chi ha questa necessità dentro e non ha il coraggio o non fa ancora quel passo?

Innanzitutto vi posso dire che essere una persona eclettica, con mille curiosità come me, in realtà è un disagio di una persona che cerca il proprio modo di esprimersi. Quindi provi tante cose, fin quando non trovi quella con cui ti senti al tuo posto. Io ho provato con la musica, sono andato al Conservatorio, però non era il mio ambiente ed ho lasciato perdere. Ho provato con gli studi di ortottica, però non mi integravo benissimo, mentre i libri sono stati sempre una costante nella mia vita, ci sono sempre stati.

Quindi hai iniziato a scrivere da profano? Senza aver fatto alcun corso?

Da lettore. Credo che il punto di partenza sia “da lettore”, un punto di partenza che non vorrei dire essere il migliore, però è l’altra faccia della medaglia, bisogna essere un lettore per essere uno scrittore, questo è sicuro. Quello che manca è la storia. Uno può essere bravo quanto vuole, può essere anche Proust, cioè tecnicamente la penna migliore del mondo, però se ti manca la storia non ci puoi fare niente, cioè non puoi appioppare a qualcuno 3000-4000 pagine dei tuoi diari!

Quindi il consiglio che dai ad un ragazzo che vuole approcciarsi a questo mondo qual è?

Leggere tanto fino a quando non trovi il tuo spazio, la tua storia, ciò che senti la necessità di raccontare.

Libro “La Risalita di Colapesce”: http://www.lafelucaedizioni.it/catalogo.html

 

Antonio Nuccio, Alice Scarcella, Emanuele Chiara

Presentazione del libro “La risalita di Colapesce” di Giuseppe Staiti

Presentazione del libro “LA RISALITA DI COLAPESCE” di Giuseppe Staiti.

La presentazione avverrà Domenica 1 Dicembre, alle 11:00, presso la Libreria Doralice – Mondadori Point in Via Consolare Pompea 429/431, 98167 Messina.


Quante volte abbiamo sentito raccontare la storia di Colapesce? Delle meraviglie che scoprì in fondo al mare e della sua scelta eroica di rimanere sott’acqua a sostenere la Sicilia sulle proprie spalle, salvando l’isola dall’inabissamento. Ma cosa accadrebbe se Cola un giorno tornasse in superficie? Smettendo, suo malgrado, di sostenere l’ultima delle tre colonne che sorreggono l’isola.

Preparatevi a seguire Cola nella sua risalita alla terraferma, in una terra distopica e devastata, in cui i miti e le leggende siciliane sono i protagonisti, fra cantastorie rivoluzionari e Beati Paoli assassini, tutti alla ricerca del loro posto e della loro storia da vivere.

Incontro con l’Autore Giuseppe Staiti
Dialoga con l’Editore dott. Gianluca Buttafarro (La Feluca Ed.)
In copertina: illustrazione di Fabio Franchi

Ingresso libero
Info book http://www.lafelucaedizioni.it/catalogo.html