Il Cavallo Rosso, l’opera epica di Eugenio Corti

Più grandi scrittori del ‘900. Voto Uvm: 5/5

 

 

 

 

 

Eugenio Corti nasce a Besana in Brianza nel 1921. Sin da giovane avverte il fascino della letteratura e coltiva la scrittura curando un diario personale, che solo di recente, a qualche anno dalla morte (4 Febbraio 2014) è stato dato alla stampa. In queste sue riflessioni giovanili si legge tutto l’impeto ed il desiderio di dedicare il proprio talento verso qualcosa di grande. Quella della scrittura cominciava ad intuirla come una chiamata, come il motivo del suo stare al mondo. E’ veramente impressionante come accanto all’entusiasmo tipico del giovane si affacci, già allora, la ferma consapevolezza di dover prima ben formarsi per poter maturare la propria opera. 

Le vicende umane del secolo scorso lo portarono a combattere nella seconda guerra mondiale, e quest’esperienza risulterà fondamentale per il suo essere scrittore, tant’è vero che la guerra divenne, una volta tornato, il suo motivo d’ispirazione. Questo avvalora ulteriormente il suo contributo letterario all’umanità: non si tratta di una scrittura reazionaria e/o ideologica- come del resto gli é stato tristemente “rimproverato” da chi mal (o per nulla) ha conosciuto l’uomo Eugenio Corti attraverso quanto ha scritto; é stato piuttosto il senso di responsabilità scaturito dalla consapevolezza di trovarsi coinvolto in una vicenda umana immane che l’ha portato a raccontarla, affinché la memoria dei fatti non si perdesse e le generazioni future potessero evitare di ripercorrere le stesse strade che segnarono in modo drammatico il secolo breve dominato dai totalitarismi, di fatto, «marxismo e nazismo (…) erano dello stesso sangue».

Il Cavallo Rosso, rappresenta l’opera maggiore ed anche la più conosciuta di Eugenio Corti. In poco più di 1000 pagine l’autore narra le vicende di diversi uomini e donne ben radicati nel comune humus della società contadina e cattolica del tempo che, improvvisamente, si trovano proiettati nei tragici eventi del Novecento. L’opera è divisa in tre parti di cui, nella prima, dalla descrizione iniziale della vita civile a Nomana– nome immaginario di un paese in Brianza (probabilmente la stessa  Besana) si passa alle vicende belliche ed in particolare, trova ampio spazio la narrazione della campagna in Russia. Qui il romanzo si fa fortemente autobiografico perché per la narrazione lo scrittore ha ampiamente attinto alla sua esperienza diretta della guerra, essendo stato uno tra i pochissimi italiani che sono riusciti a sopravvivere alla terribile ritirata di Russia dal Dicembre 1942 al Gennaio 1943. In queste pagine si legge la sofferenza di un popolo, quello russo, completamente ridotto alla miseria dall’utopia comunista, storie di intere famiglie straziate dalla fame dopo la collettivizzazione delle terre, il dolore di chi si è visto sparire di punto in bianco qualcuno di caro perché ingiustificatamente etichettato come “nemico politico”, gli agghiaccianti atti di cannibalismo descritti nel Gulag sovietico di Crinovia, come molti altri tragici eventi compiuti anche da parte delle truppe naziste spesso colpevolmente sottaciuti dalle nostre parti.

 

 

Allo stesso modo la narrazione documenta l’incredibile inadeguatezza di mezzi e l’imbarazzante ristrettezza di risorse con cui il fascismo spinse l’Italia in guerra. Per contro, Corti non manca di raccontare il valore degli uomini chiamati a combattere e, specie, gli atti di vero eroismo compiuti dal Corpo degli Alpini. 

Nelle altre parti del libro, mentre alcuni protagonisti fronteggiano la guerra, altri personaggi, soprattutto femminili, vivono in Italia le vicende di quegli anni. Viene descritto lo scontro politico tra la Democrazia Cristiana, luogo naturale di collocamento ideale e politico di alcuni dei protagonisti, ed il partito comunista. Com’é noto lo scontro si conclude il 18 Aprile 1948 con la vittoria della DC. Vittoria successivamente inficiata dal declino dei cattolici nella vita politica italiana, decadenza che paradossalmente si verifica mentre la DC si mantiene come partito politico dominante. Sappiamo anche che all’occupazione della cariche di potere é corrisposta un’azione politica incoerente con quei princípi che nel ’48, si pensava, venissero rappresentati. Quindi si arriva alla terza parte in cui il romanzo prosegue seguendo i protagonisti ed i loro discendenti fino alle soglie della data del referendum sul divorzio negli anni settanta.

L’autore rende la lettura della sua opera estremamente attiva in quanto accanto allo snodarsi della trama si ripropongono costantemente riflessioni sul senso della storia, del vivere e del morire, sulla fede e la presenza di Dio nelle vicende umane. Riflessioni che, certamente, investono l’occhio che legge ed in generale ciascuno, configurandosi come le domande fondamentali dell’uomo. Anche per questo “Il cavallo Rosso” è stato considerato alla stessa stregua del racconto epico. L’epica, infatti, è un’opera esemplare che narra le gesta -storiche o leggendarie- di un eroe o di un popolo, attraverso le quali si conserva la memoria e l’identità di una civiltà. Questo romanzo realizza l’epica delle persone comuni trascinate in vicende molto più grandi di loro.                               

Buona lettura!

 

 

Ivana Bringheli

 

 

Paolo Cognetti – Le otto montagne

Voto UVM: 5/5

-Guarda quel torrente, lo vedi? – disse. – Facciamo finta che l’acqua sia il tempo che scorre. Se qui dove siamo noi è il presente, da quale parte pensi che sia il futuro?

Ci pensai. Questa sembrava facile. Diedi la risposta più ovvia: – Il futuro è dove va l’acqua, giù per di là.

-Sbagliato, – decretò mio padre. – Per fortuna -.

 

Pietro è un ragazzino di città, solitario e taciturno. I suoi genitori sono uniti da una passione comune: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia. Quando scoprono un paesino ai piedi del Monte Rosa, Grana, sentono di aver trovato il posto giusto.

Una volta trovata una casa, Pietro si ritroverà a passare molte estati della sua vita proprio in questo paesino.

“mi spediva fuori: che andassi a prendere vento e sole e perdessi finalmente un po’ della mia delicatezza urbana.” Dice il ragazzo della madre.

Proprio in quel paesino, Pietro conoscerà Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche. Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, “la cosa più simile a un’educazione che abbia ricevuto da lui“.

Sulla sfondo di una montagna, Paolo Cognetti affronta molti temi che travolgono il lettore, due in particolare: l’amicizia di due uomini che da ragazzini diventano adulti autonomi e che, pur provenienti da esperienze di vita diverse, condividono gli stessi valori; l’amore paterno visto dagli occhi del figlio prima bambino e poi adulto.

Sono molte le domande che lo scrittore, attraverso questo libro, pone al lettore. Oltre alla citazione iniziale, mi piace riportarne un’altra.

Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?

Per giorni mi sono interrogata sulle risposte delle due domande. La prima risposta è venuta da sola, nel libro. La seconda mi è rimasta in testa tuttora. A ognuno la sua.

Ricerchiamo il caos, la tecnologia, cerchiamo persone con cui parlare, uscire, ballare, bere. Temiamo noi stessi, la solitudine, il silenzio. Consiglio questo libro a chi storce il naso quando sente parlare di montagna, associandola all’idea di noia, monotonia e vecchiaia.  Si pensa sempre che per “cercare se stessi” bisogna andare lontano o scappare giù al mare. Io una cosa l’ho capita: la montagna è un’entità mistica, una metafora della vita e del viaggio che, ogni giorno, ci ritroviamo ad affrontare.

Cognetti ha uno stile molto semplice, lineare, ti rende complice dei protagonisti ma soprattutto complice della natura: difficile non sentire, attraverso le pagine di questo libro, il freddo della neve, l’odore dei prati e il rumore che fanno i torrenti e le legna sul fuoco. Non a caso è il libro vincitore del Premio Strega 2017.

Nessuna violenza, nessun cellulare, nessuna parolaccia, niente sesso, nessuna concessione al linguaggio odierno, nessun tono falso, niente citazioni o riferimenti colti. Solo una storia semplice, profonda, malinconica, raccontata con intelligenza. Solo?

 

Serena Votano

UniVersoMe incontra Luca Bianchini: “Le storie tratte dalla verità vanno maneggiate con cura”

La vita è un bel gioco, ricordatelo sempre

È davvero un bel gioco se pensiamo che,  proprio martedì 29 Gennaio, La Gilda dei Narratori ha ospitato Luca Bianchini per presentare il suo ultimo libro “So che un giorno tornerai”.

Un libro nato un sabato sera in cui esci ma proprio controvoglia, quelle sere in cui ti chiedi “Ma chi me lo fa fare?” e invece incontri una sconosciuta che ti regala una storia. E quando viene l’idea di scrivere un romanzo è un po’ come comprare casa: «è una cosa molto strana, è una decisione molto importante, ma tu decidi subito», spiega.

In quel di Trieste, fine anni ’60, Angela non ha ancora vent’anni quando diventa madre. Non bastano gli scongiuri e le superstizioni, da lei nascerà una bambina: Emma. Pasquale, il suo unico e grande amore, è un “jeansinaro” calabrese, un affascinante mercante di jeans. Bello e impossibile perché sposato. Lui le fa una promessa: “Se sarà maschio lo riconoscerò”, e una volta nata femmina, fugge da qualsiasi responsabilità, lasciando Angela a crescere una bambina con la sua famiglia, numerosa e variegata.

La famiglia Pipan è capitanata dal nonno Igor che ancora rimpiange il dominio austriaco, la nonna Nerina sempre ai fornelli e quattro figli maschi: il serio Primo, il playboy Riccardo e due gemelli che si alternano come babysitter della piccola Emma, il Biondo e il Coccolo.

Angela non si sente ancora pronta per essere madre di questa figlia. Dopo giorni di disperazione passati allo specchio, a truccarsi e vestirsi, indossando una parrucca per fare un po’ la scema, esorcizzando il presente, decide di scappare che un uomo che dice di amarla (e la ama davvero), lasciando la troppo piccola Emma tra le braccia dei Pipan. Crescerà così, libera e anticonformista, la figlia di tutti e di nessuno.

So che un giorno tornerai è un romanzo, tratto da un storia vera, sulla ricerca delle nostre origini, che ci insegna a non dare una famiglia per scontata, ad apprezzare la magia degli amori che sanno aspettare. Come lo stesso Luca dice «Le storie tratte dalla verità vanno maneggiate con cura».

 

Dare una definizione, un’etichetta, a Luca Bianchini, è praticamente controproducente considerati i fiumi di parole che ha riversato in quella libreria, circondati di libri e persone senza fiato, che pendevano dalle sue labbra.

Andando a una sua presentazione, leggendo un suo libro, molto semplicemente incontrandolo, si percepisce subito l’ironia, quell’anima spumeggiante e vulcanica che proprio davanti ai tuoi occhi, di persona e tra le pagine dei libri, ti prende e ti trascina nelle sue storie. Qualcosa di inaspettato, verrebbe da dire.

È proprio per questo che, noi di UniVersoMe, abbiamo deciso di intervistarlo.

“So che un giorno tornerai” è il suo 11esimo libro in 17 anni. Dopo tanti successi, cos’è la scrittura per te? Hai mai paura del foglio bianco?

No, mai. La scrittura per me è fondamentalmente: un canale diretto e privilegiato con la vita.

Perché un quadrifoglio in copertina?

Perché è un segno d’auspicio e in via della Bora, dove è ambientato il libro, c’erano dei trifogli e ne ho messo anche uno nella storia, che nessuno vede perché sembra mimetizzato.

Scrivi «Angela pareva impossibile, mentre il vino le dava un po’ di coraggio e il cuore le batteva all’impazzata. Era innamorata», quali sono i segnali per capire se si è innamorati?

Non è fame e non è sonno. Non sei mai stanco.

Il Pipan dice «La vita è lunga e i soldi servono sempre. L’orgoglio, invece, non serve a niente», lo pensi anche tu?

Si. Ciò non toglie che anch’io a volte mi impunto, ho dei momenti di orgoglio. Non serve, ma non possiamo farne a meno.

«Il passato non si può dimenticare, prima o poi torna», in che modo?

Se tu hai delle robe non risolte, le puoi rimuove ma a un certo punto riappaiono. Se tu hai fatto uno sgarro, o non sei stato corretto … io ho questa sensazione, magari non è nemmeno sicuro. Però un po’ ci credo, al “tutto torna” .

Chi semina vento raccoglie tempesta.

Nerina, per il ritorno di Angela, prepara gli gnochi de pan, qual è il tuo piatto preferito?

La jota. Una zuppa, credo di verza … buonissima. Quando hai fame ed è inverno, se vuoi essere un vero triestino devi amare la jota.

«Se viene dopo anni di bugie, la verità riesce ancora a dare sollievo», a chi? A chi finalmente dice la verità o a chi la riceve?

A chi la riceve, assolutamente.

L’epoca in cui avresti voluto vivere?

Il Rinascimento.

3 libri che bisogna per forza leggere nella vita

Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, Gregory David Roberts – Shantaram, Manzoni – I promessi sposi.

 

Serena Votano

Meet me alla boa, ogni volta che ne avrai bisogno

La storia della metà della mela mi è sempre stata sulle palle: ‘sta cosa che da quando siamo nati dobbiamo essere spaccati e incompleti alla ricerca del pezzo mancante. No, io sono una mela intera. Però con te diventiamo due belle mele, che nel portafrutta della vita una da sola fa tristezza.

30 capitoli per 30 passi che percorriamo a fianco del nostro protagonista Franci nel momento peggiore della sua vita.  Quella di Paolo Stella è una storia scritta col cuore in mano, una di quelle letture che riescono a entrarti dentro e a farti sentire meno solo, mettendo nero su bianco le sue emozioni, i suoi pensieri.

Franci conosce Marti a Parigi, rimane subito affascinato dalla sua bellezza e da quel modo di tenergli testa, che alla fine la testa gliela fa perdere. La loro storia decolla inevitabilmente, d’altronde quando due capiscono di combaciare non possono fare altro che unirsi e lasciare fare al tempo.

Purtroppo il destino entrerà in gioco portando via Marti dalla vita di Franci.

C’è un biglietto, strappato da un lato, scritto a penna blu. Riconosco la calligrafia perché è un casino.

Meet me alla boa.

Ogni volta che ne avrai bisogno.

“Meet me alla boa” è un continuo flashback di ricordi e emozioni: rabbia, dolore, felicità, amore … il tutto tinto da quelle due paroline che ancora non sono riusciti a dirsi ma che in cuor loro sanno.
Leggendo questo romanzo capiamo quanto la vita sia veramente imprevedibile e che in molti casi siamo solo degli spettatori.

Paolo Stella, attore, regista e modello (allego foto, che ogni tanto la foto degli scrittori serve assolutamente), scrive in un modo molto semplice e quotidiano la storia di un Amore con la A maiuscola, di due persone che si sono vissute nonostante tutto, e menomale. Quel genere di amore speciale che ognuno di noi dovrebbe vivere.

Una storia che smuoverà il cuore, riuscirà a farvi ridere e a farvi riflettere su quanto sia importante godere di ogni singolo momento della vita.

Serena Votano

Il rumore dei tuoi passi: un libro che rapisce

Dicono che ogni libro contribuisce a renderci persone migliori, a cambiare una parte di noi, a cambiare il modo di intendere e vivere la vita. Dicono che ci sono libri che rimangono per sempre dentro di te. Questo è quello che mi è successo leggendo Il rumore dei tuoi passi di Valentina D’Urbano uscito nel 2012.

Casualmente un giorno ho letto questo libro, non mio tra l’altro, solo perché mi stavo annoiando a dir la verità. Ma è bastata la prima pagina per catapultarmi nel mondo di Beatrice e Alfredo, o come tutti li chiamavano, i “gemelli”. I due però non hanno il sangue in comune, ma bensì qualcosa di più importante: l’amicizia, l’amore, l’odio e la morte.

La storia viene raccontata dal punto di vista di Beatrice, ma per non farci mancare niente Valentina D’Urbano ha scritto anche un secondo libro intitolato “Alfredo” che racconta la stessa storia ma dal punto di vista di Alfredo.

Il luogo in cui si svolge questa storia, che non si può assolutamente solo definire d’amore, non è ben specificato. Da chi ci vive viene chiamato “fortezza”, ma non è altro che un quartiere pieno di case fatiscenti occupate abusivamente da nullatenenti che si sono ritrovati senza lavoro e speranze per il futuro. Beatrice è una di questi, che, nella povertà, è comunque fortunata ad avere dei genitori che la amano e cercano di occuparsi al meglio di lei. Alfredo invece non ha la stessa fortuna. Orfano di madre, si ritrova a vivere con un padre che non fa altro che maltrattare moralmente e fisicamente lui e i suoi fratelli. Ma è proprio in questa triste situazione che i due si incontrano sin da piccoli legando il loro destino in modo indissolubile.

La particolarità di questo racconto è il passaggio continuo tra passato e presente. La storia non è scontata, non mancano i colpi di scena e, le emozioni che provano i protagonisti, vengono trasmesse attraverso le parole forti e dettagliate della scrittrice che riesce ad arrivare fino alla parte più profonda dei nostri sentimenti e della nostra sensibilità. Ammetto infatti di aver pianto leggendo questo libro.

Quindi se volete fuggire per un attimo dalla realtà, se volete provare emozioni forti e se volete conoscere una storia diversa da ciò che siamo abituati, leggete questo libro e perdetevi nella sua bellezza. Vi sorprenderà.

 

Sara Cavallaro

Eleanor Oliphant sta bene, anzi: benissimo

Elaonor Oliphant ha trent’anni e da nove lavora nello stesso ufficio come Grapich Design. È una persona normale con un aspetto normale e che mira alla normalità (se non fosse per quelle cicatrici che le scendono dalla tempia alla gola).

La sua vita è una routine settimanale ben definita: dal lunedì al venerdì lavora presso l’agenzia fino al pomeriggio, nella pausa pranzo va al bar fuori dall’ufficio, dopo aver constatato che portare il pranzo da casa è controproducente visto che gli alimenti si deteriorano prima dell’effettivo consumo), la sera cena con la sua solita pasta al pesto, ma il venerdì sera si concede una pizza margherita acquistata presso il suo rivenditore di fiducia sorseggiando la sua bottiglia di vino (chi ha detto che l’accostamento è sbagliato?), per poi concedersi una bottiglia di vodka che beve in quegli ultimi giorni della settimana.

Una vita caratterizzata da un’estrema solitudine interrotta solamente dalle telefonate della madre, il mercoledì sera, un essere cattivo che le ricorda un passato tristemente doloroso che ancora la nostra protagonista non si è lasciata alle spalle.

«Quando si legge di “mostri”… nomi noti… si dimentica che avevano una famiglia. Non spuntano fuori dal nulla. Non si pensa mai a chi resta ad affrontare i postumi.»

Quella con la madre è una conversazione telefonica che si svolge sempre alla stessa ora e il solito giorno anche perché la madre della protagonista è agli arresti e, dunque, non può concederle che quei 15 minuti di considerazione alla settimana.
Ma lei sta bene, anzi: benissimo.
Tuttavia, di punto in bianco, l’abitudinarietà di Eleanor viene stravolta.
A un concerto incontra l’uomo della sua vita, o almeno così crede, non sa niente di lui eppure si lancia in questa cotta dal sapore molto adolescenziale. Di colpo inizia a prendersi cura di sé, da via a una serie di “ristrutturazione” dai capelli alle scarpe ma allo stesso tempo rompere quella corazza che lentamente si è costruita. Allo stesso tempo, Raymond Gibbons, suo collega della sezione dell’helpdesk e dunque informatico, entra a far parte della sua vita.
L’uomo dai capelli rossicci chiari, una barbetta bionda stopposa, una pelle molto molto rosa, un abbigliamento alquanto opinabile, nerd nel midollo, fissato con i videogiochi, riuscirà con la sua semplicità e genuinità a crearci un rapporto di amicizia molto profondo, è, nel vero senso della parola, il primo essere umano ad essere amico di Eleanor. Pagina dopo pagina questo sarà sempre più coinvolto e rapito dalle vicende tanto da non riuscire a staccarsene.

Al tutto si somma uno stile narrativo riflessivo, fluido, intelligente, che si avvalora della tecnica del “narrare ma non spiegare”, del “fai vedere, ma non limitarti a una mera esposizione”. In un primo momento la storia può deludere, in alcuni casi annoiare, ma lascerà senza fiato per la forza straordinaria che la protagonista continua a dimostrare nei confronti della vita e per la piega che questa storia, nel corso delle pagine, prenderà. Davvero una lettura coinvolgente ed affascinante.

Serena Votano