Cronista condannato al carcere. È rivolta unanime contro il giudice

A dare la notizia Il Giornale, nella sua prima pagina di ieri; correttamente in evidenza, accanto ai più importanti fatti del mondo. Un cronista, per l’appunto un collaboratore assiduo del quotidiano diretto da Alessandro Sallusti, è stato condannato a otto mesi di carcere e a pagare una cospicua somma di denaro.

Il reato riconosciutogli è quello noto di diffamazione a mezzo stampa. L’azione reprimenda però è severissima, particolarissima, quasi unica e sconsolante per l’Italia, che lotta per mantenersi tra le linee di quei paesi del mondo detti democratici. Detti concedenti vasta libertà d’espressione.

Vediamo quindi di seguito chi è il triste protagonista di questa vicenda, chi sono i suoi risoluti accusatori, il motivo della condanna e le proteste unanimi in reazione.

Il cronista e la cronaca sugli avvocati di Nola

Si chiama Pasquale Napolitano il cronista vittima della grave condanna. Lui è un 42enne nolano, che scrive dal 2016 per Il Giornale, ed è già stato firma anche di Panorama e di altre testate online. Per una di queste – Anteprima24 –  ad aprile del 2020, Napolitano scrive un articolo di cronaca riguardo il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola.

Con una dozzine di righe diffonde una notizia per cui il Presidente di tale Consiglio, seppur fosse ormai senza maggioranza e seppure una sentenza del Tar avesse confermato la possibilità dei consiglieri di surrogarlo, si ostinava a rimanere in carica, evitando di convocare il consiglio stesso per il timore di essere sfiduciato e sostituito.

Un’informazione sicuramente di interesse sociale, per dar conto anche al resto degli avvocati nolani, rimasti ai margini delle decisioni di categoria.

Il giorno dopo, comunque, Napolitano – da buon cronista super partes – pubblica una lettera dei pochi consiglieri rimasti al fianco del presidente. E, passate 48 ore, riporterà la notizia delle dimissioni di quest’ultimo, con in allegato una lettera con cui lo stesso presidente ha inteso illustrare le proprie ragioni.

Ciononostante, in risposta al primo regolare, accurato e pudico articolo, l’ormai ex presidente del Consiglio degli avvocati e tre consiglieri hanno deciso di percorrere le vie legali, chiedendo il riconoscimento del reato di diffamazione.

Per il giudice è “diffamazione”

Le denunce sono affliggente companatico di chi tratta cronaca giudiziaria, dunque si può scrivere che il cronista fosse persino abituato a confrontarcisi con tranquillità. Mai, anche per questo, avrebbe potuto immaginare l’amara sorpresa: il 7 maggio è arrivata la condanna. Per il giudice (un giudice onorario di tribunale, quindi un avvocato come tutti i querelanti) l’articolo è diffamatorio tanto da poter commutare a Napolitano una pena in 8 mesi di reclusione e il pagamento di 6500 euro.

Per il deposito della motivazione bisognerà attendere il consueto termine di 90 giorni, ma si vocifera che – potendosi appellare a poco – il giudice condannante porterà come giustificazione il fatto che gli articoli scritti sarebbero stati condivisi sui social.

Procedimento consueto per una testata online, che vive di questi e di qualche visita da ricerca organica. E tuttavia qui solo può condurre la malafede.

L’ODG, la politica, i giornali, il popolo: tutti contro il giudice

Quasi si sono unite destra e sinistra politica per andare addosso alla condanna. Scrivo quasi perché puramente è avvenuto che entrambe le parti hanno disapprovato il gesto, salvo poi, al solito, scambiarsi vicendevoli accuse sulla colpevolezza del legislatore prima operante e ora inoperante.

Hanno accusato, alternativamente, il legislatore che depositò la legge che ora permette l’incarcerazione per reato di diffamazione a mezzo stampa (prima operante) e poi anche il legislatore che ancora non ha debellato tale insensatezza (ora inoperante).

Al di là dei disguidi sui demeriti precisi, però, c’è da scrivere che si è alzata una protesta compatta contro la condanna. Mentre il sentimento del popolo non è statisticamente rilevabile, ma è astrattamente visionabile nelle azioni sui social; il sentimento dei giornali, dei politici, dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione Nazionale Stampa Italiana è reso palese da scritti e dichiarazioni.

Il Giornale e Il Riformista, con i rispettivi articoli, non lasciano dubbi sulla loro posizione.

Secondo Carlo Bartoli, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti, la condanna al cronista Napolitano “è la goccia che fa traboccare il vaso di una normativa che non sta più in piedi“.

Mentre, per la segretaria della FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italia) Alessandra Costante:

Il caso del cronista del Giornale condannato al carcere ricorda a tutti – giornalisti, politica e opinione pubblica – quella che è una vergogna italiana: in Italia, nel 2024, il codice penale prevede ancora le manette per i giornalisti che dovessero essere riconosciuti colpevoli di diffamazione a mezzo stampa”.

La RAI limitante. Angelucci che vuole l’AGI. E il problema dal centro al resto dell’Italia

Si è gridato con forza alla RAI limitante, o persino censurante; al tentativo del senatore Angelucci – già editore de Il Giornale, Il Tempo e Libero Quotidiano – di entrare in possesso dell’AGI, e lo si è fatto opportunamente, per non far passare in sordina informazioni rilevanti come quelle sono state.

Ma poi arrivano queste notizie, accadono di queste cose, che riportano il dibattito pubblico a verità più profonde, e reindirizzano verso i più soggetti responsabili la responsabilità del calo della libertà di stampa registrato in Italia.

Lo scorrere quotidiano degli eventi ci ricorda, ancora una volta, che non può essere un organo democratico viziato senza che viziate siano pure le divisioni democratiche rappresentate, le pratiche diffuse pure nelle periferie del Paese. Perché non può esserci cattivo rappresentante a buoni elettori. O può esserci per eccezione.

L’insegnamento è che ci si dovrebbe chiedere, nel frattempo che si giudicano i mali evidenti nei maggiori organi di stampa statali, se gli stessi mali non siano replicati nelle micro-società, nelle locali periferie che la maggior parte della popolazione abita ogni giorno.

Oggi riesce a diventare notizia una condanna che ha dei caratteri spettacolari; ma quante censure morali o intellettuali, veti per interessi da proteggere e intimidazioni mafiose passano sottotraccia a danno dei giornalisti?

Gabriele Nostro

 

Twitter: pericolo del “free speech”. Ecco cosa vuole fare Elon Musk con la piattaforma

Elon Musk è diventato il principale azionista di Twitter. Con l’acquisto del 9.2% delle azioni e il fatto che sia una sola persona a gestire, a suo piacimento, la piattaforma preoccupa tanti.

Elon Musk vuole cambiare Twitter -Fonte:forbes.it

L’acquisto per circa 44 miliardi di dollari ha avuto un grande riscosso mediatico. L’operazione ha generato un’impennata di Twitter in borsa che ha visto dopo settimane di trattative, un guadagno più del 27% a Wall Street che sta continuando a crescere. L’interesse, dunque, trasversale pone una serie di interrogativi sull’introduzione di miglioramenti significativi nei prossimi mesi promessi da Musk.

Il ruolo mediatico di Twitter

La piattaforma di notizie e microblogging gode di popolarità in tutto il globo. Questa si presenta come una rete che permette di postare brevi messaggi con un massimo di 280 caratteri visibili nella pagina principale dell’utente.

Negli ultimi anni, Twitter è divenuta molto influente nel dibattito pubblico, vedendo circa 200 milioni di utenti attivi giornalieri. L’acquisto compiuto negli ultimi giorni da parte della persona più ricca al mondo, nonché CEO di Tesla e della SpaceX, non risulta essere, agli occhi di molti, una buona notizia, soprattutto in materia di “free speech”.

Vijaya Gadde, avvocato per la piattaforma, durante il suo discorso alla squadra di legali dell’azienda e al team di moderazione dei contenuti, ha manifestato le sue preoccupazioni sul futuro del social. Si teme, infatti, che le trasformazioni che vorrà apportare il patron di Tesla possano radicalmente modificare il servizio.

Le dichiarazioni di Elon Musk

La sua decisione ruota attorno al cambiamento della politica di moderazione dei contenuti fondata da Jack Dorsey. Quest’ultimo ha dichiarato di voler garantire la più assoluta libertà di espressione e limitare la censura di tutto ciò che non sia apertamente illegale”:

“La libertà di espressione è il fondamento di una democrazia sana, e Twitter è la piazza della città digitale dove le questioni importanti per il futuro dell’umanità vengono discusse. Voglio anche rendere Twitter migliore che mai migliorando il prodotto con nuove funzioni, rendere gli algoritmi open source per incrementare la fiducia, sconfiggere gli spam-bot, e autenticare tutti gli esseri umani. Twitter ha un potenziale incredibile: non vedo l’ora di lavorare con l’azienda e la comunità degli utenti per liberare tale potenziale.”

Elon Musk Bids For All of Twitter -Fonte:expatguideturkey.com

Ciò che viene in risalto è l’accostamento di due concetti che cozzano profondamente tra loro: la libertà di espressione e la fine dell’anonimato in rete.

  • Libertà di espressione: Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati;
  • Anonimato in rete: Il testo del Codice della Privacy (d.lgs. n. 196 del 2003) art. 4, comma 1 lett. N, definisce anonimo il dato che in origine, o a seguito di trattamento, non può essere associato ad un interessato identificato o identificabile. La sua fine utopistica porrebbe a termine la libertà di espressione.

Lidea innovativa e rivoluzionaria di Elon Musk non è altro che roba vecchia e fallimentare. Lo stesso Twitter, infatti, ha, a lungo, cercato di limitare ogni forma di moderazione, ma “la briglia sciolta” è impossibile da gestire. Lo stesso Evelyn Douek ha scritto sull’Atlantic che

“Una regola generale delle piattaforme di ‘user-generated content’ è che ciascuna di queste deve iniziare a moderare i contenuti una volta che raggiunge una certa dimensione. Una piattaforma che rifiuta di sporcarsi le mani eliminando alcuni contenuti si troverà inevitabilmente sommersa da truffe, porno e reclutatori di terroristi.”

Si comprende come, inevitabilmente, lasciare completa libertà di espressione incentivi la presenza di contenuti radicali, violenti, estremi, falsi, cospirazionisti, truffaldini e polarizzanti. Negli anni ciò ha contribuito a dare forma a una società sempre più incapace di dialogare, divisa ed estrema.

L’utopia delle piattaforme neutre

La diffusione della moderazione di contenuti non nasce per essere la soluzione da eseguire nei migliori dei modi, bensì si imperna sul concetto di alternativa a qualcosa di peggiore.

L’idea anacronistica di Elon Musk non trova alcun ancoraggio nell’utopica visione delle piattaforme neutre. Anzi, la mancanza di moderazione permettere a una manciata di persone con enormi interessi economici e politici possano avere un impatto diretto sulla società, ad esempio, di decidere se “i media statali russi possano avere degli account sui social media, se un post controverso sul coronavirus possa essere diffuso a milioni di persone o debba essere cancellato, se l’ex presidente degli Stati Uniti possa mantenere o debba invece perdere la sua linea diretta con il pubblico globale”.

Risulta chiaro come, da questo punto di vista, la società nelle mani di una sola persona sia un netto passo indietro. Ciò perché, al di là dei suoi sogni di “libertà di espressione”, si concretizza un “modellare mediatico” della società e dell’agenda politica che più di ogni altra subisce dall’infrastruttura digitale la sua plasticità.

Giovanna Sgarlata