Drive-Away Dolls: le tante facce dell’America

Drive-Away Dolls è poco impegnativo, ma al tempo stesso intrattenente. Voto UVM: 4/5

Drive-Away Dolls è un film del 2024 diretto da Ethan Coen, che insieme al fratello Joel, ha vinto a suo tempo ben 4 Oscar. Nel cast spiccano i nomi di attrici emergenti nei ruoli principali, come Margaret Qualley, già presente in lungometraggi più rinomati come Povere creature! e C’era una volta a… Hollywood, Geraldine Viswanathan e Beanie Feldstein, ma anche quelli di personalità più famose al pubblico come Pedro Pascal, Matt Damon e Miley Cyrus, che con i loro personaggi compongono la cornice della trama e legano i pezzi di questa tra loro. La pellicola presenta una comicità surreale e a tratti pungente, dove si trattano non solo temi romantici e erotici, ma anche di spessore sociale.

Fonte: ew.com

Drive-Away Dolls: la trama

L’ambientazione dove si apre il film è la Philadelphia del 1999, dove la comunità queer in America è più in ascesa.

Nella primissima scena vediamo dei loschi individui uccidere un goffo personaggio (Pedro Pascal) e derubarlo di una valigetta, senza che ci vengano forniti ulteriori dettagli. Subito dopo viene presentata una delle due protagoniste: Jamie (Margaret Qualley) è una ragazza dallo spiccato accento texano che ama divertirsi e passare la notte con altre ragazze. Proprio per questo Sukie (Beanie Feldstein), la sua ragazza, la scarica e la caccia dal suo appartamento.

Jamie si ritrova così senza una fissa dimora, ospite dell’altra protagonista Marian (Geraldine Viswanathan), un’altra ragazza omosessuale che però è molto introversa e non ha una relazione da anni. Marian è in procinto di partire per Tallahassee, in Florida, per incontrare la zia e Jamie decide di accompagnarla. Per arrivarci, le due decidono di noleggiare un’auto, incominciando così un viaggio verso il profondo sud degli Stati Uniti, dove la mentalità è molto più conservatrice e tradizionalista.

Contemporaneamente tre criminali, che si dirigono per pura coincidenza a Tallahassee, vanno a ritirare una macchina, la stessa che si trova in mano alle protagoniste, ma che in realtà era destinata ai tre.

Jamie, sempre in cerca di avventure e di posti da visitare lungo la costa orientale, prende il viaggio come una gita, allungando il tragitto che doveva in realtà durare un giorno. Lungo le varie fermate, le due imparano pian piano a conoscersi sempre meglio, con Marian che fa fatica a uscire dal suo guscio. I tre scagnozzi hanno intanto iniziato a cercare la macchina, irrompendo a casa di Sukie che rivela loro l’identità di chi c’è alla guida. La macchina infatti nasconde al suo interno la valigetta della prima scena e un altro carico non ben specificato.

Le esperienze di Ethan Coen e le particolarità nel montaggio

Il regista viene da una carriera costruita fianco a fianco con il fratello Joel, con il quale ha vinto un Oscar nel 1998 per Fargo alla miglior sceneggiatura originale e altre tre statuette nel 2008 per Non è un paese per vecchi all’esordio per miglior film, oltre che per miglior regia e miglior sceneggiatura non originale. La stretta collaborazione che ha caratterizzato i loro film non è però presente in Drive-Away Dolls, dove Ethan Coen collabora con la moglie Tricia Cooke realizzando un film che non rappresenta l’apice della sua carriera, ma che sicuramente ha degli aspetti positivi.

Ethan Coen e la moglie Tricia Cooke al loro primo film insieme. Fonte: ciakmagazine.it

Lungo la pellicola appaiono flashback relativi al passato di Marian, mostrando il suo primo approccio all’omosessualità. Trip allucinogeni ripresi da Il Grande Lebowski spezzano il racconto colpendo lo spettatore, ma riescono ad ottenere un senso solamente verso la fine del film, risultando così un po’ sconnessi. Solamente una storia completa darà senso a queste scene, che sono anch’esse flashback.

L’unicità oltre gli stereotipi

La rappresentazione delle minoranze all’interno dell’opera è sicuramente un aspetto da menzionare, in quanto non sono più rappresentate da personaggi caratterizzati appositamente per quello e che cercano continuamente di emanciparsi, ma sono giustamente rappresentate come una semplice normalità che aiuta tantissimo lo spettatore ad entrarci in empatia.

La moltitudine di esperienze omosessuali che le protagoniste vivono e le varie sfaccettature della complessa e variegata società americana fanno capire come ognuno sia unico nel suo genere e ciò rende il film intrigante fino all’ultima scena, dove Jamie e Marian, dopo aver affrontato delle esperienze uniche che le hanno inevitabilmente legate, hanno capito di sentirsi a proprio agio l’una con l’altra e si dirigono insieme alla zia di Marian, abbiente donna di colore, in Massachusetts, dove il matrimonio tra donne è consentito.

Il film funziona oltre che per la sua velocità anche grazie alla presenza scenica di Margaret Qualley che riesce a rendere Jamie protagonista in ogni situazione. La Universal Pictures, per la distribuzione nei cinema, ha tristemente deciso di portare il film in Italia senza il doppiaggio nella lingua, ma aggiungendo solamente i sottotitoli. Questo però non lo rende un film non alla portata di tutti, anzi è perfetto per farsi quattro risate con gli amici senza momenti di noia totale.

Giuseppe Micari

Dolan e il suo cinema “arcobaleno” per uscire dall’opacità

“Vorrei vivere in un film di Wes Anderson” cantavano, nel lontano 2010, I Cani, progetto musicale indie-pop nato dal cantautore e produttore romano Niccolò Contessa. Ma al giorno d’oggi, forse, e senza rischiare di essere troppo prolissi, alcuni preferirebbero poter dire: “Vorrei vivere in un film di Xavier Dolan. Quest’ultimo, un regista francese classe ‘89, colpevole a soli 26 anni di essersi aggiudicato la Palma D’Oro al Festival di Cannes con Mommy, commettendo così un vero e proprio parricidio estetico.
In quell’occasione, infatti, Dolan non solo si aggiudicò il Premio della giuria in ex-aequo con Adieu au Langage del padre della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard, ma dopo aver vinto il premio, il giovane regista affermò durante una conferenza stampa: “Le opere di Godard non sono film che mi interessano”.

Fu proprio con queste parole che l’enfant prodige del cinema francese iniziò la sua carriera. E ne passerà di tempo fino a quando Dolan farà un film che potrà mettere d’accordo la critica. Con l’uscita di La mia vita con John F. Donovan (2018), sulle pagine del Guardian si scriveva di lui:

“Dolan esplora ancora una volta temi importanti per se stesso e per il suo lavoro, ma senza curarsi troppo di capire se il pubblico troverà il suo film interessante, coinvolgente o almeno coerente”.

Ma quindi perché dovremmo voler vivere dentro un film di Dolan?

Semplicemente perché il suo mondo, contrariamente a quello di Godard, non è mai troppo opaco, con personaggi misteriosi e irrazionali e narrazioni poco comprensibili. Quello di Dolan è un mondo di continue sfocature e messe a fuoco, di primi piani a effetto, di attenzione maniacale su tutti i dettagli anche sui più minuziosi. Un mondo in cui tutto questo fa da contraltare ad una quotidianità quasi cinematografica.
E poi, Dolan viene criticato semplicemente perché nei suoi film ci parla di lui, della sua omosessualità e di come sia difficile viverla ed esprimerla senza sentirsi inadeguati in un mondo, – forse più vicino a Godard che a lui – troppo opaco per comprendere a pieno una tale sincerità.

Si è festeggiata proprio ieri, mercoledì 17 maggio, la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Ed è grave che ancora oggi molte persone LGBTIQ+ siano costrette a subire discriminazioni, abusi e violenze. È proprio in un mondo così, in cui l’omofobia è l’odio dei pochi che non sanno amare, che ognuno sente il bisogno di trovare il proprio “inno d’amore”. E perché non cercarlo proprio nel cinema, in film come il recente Stranizza d’amuri di Giuseppe Fiorello che nel raccontarci un tragico evento accaduto nella Sicilia degli anni ‘80, il delitto di Giarre, è riuscito a farci riflettere sul fatto che, nonostante il tempo trascorso, l’omofobia resta un problema ancora attuale.

Saremmo, forse, tutti più felici?

Cosa significherebbe immedesimarci in personaggi come Laurence Alia, professore universitario di letteratura francese che comunica alla compagna il proprio desiderio di intraprendere un percorso di transizione e diventare donna? E ancora, come ci comporteremmo se fossimo al posto di Frédérique, la compagna di Laurence? Decideremmo anche noi di restare accanto alla persona amata?

Laurence Anyways e il desiderio di una donna…, il film in questione, presentato al Festival di Cannes nel 2012 e che ha fatto ottenere a Dolan proprio la Queer Palm, è solo uno dei tantissimi esempi che potremmo fare guardando la filmografia del regista. E per Dolan forse il cinema sarà un modo per raccontare la sua vita ma di sicuro – e mi rivolgo alla critica – è anche un modo per farci capire che siamo tutti diversi, siamo tutti vittime di tabù e ruoli predefiniti, compreso lui, ma a volte per uscire da un mondo un po’ troppo opaco basta davvero poco.

Domenico Leonello
Caposervizio UniVersoMe

 

*Articolo pubblicato il 18/05/2023 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Pride Month: coppie arcobaleno nelle serie tv

Le serie tv sono ormai un’espressione dell’arte visiva e cinematografica sempre più affermata; ne esistono veramente di tutti i tipi e per tutti i gusti. Ultimamente anche grandi registi e star di Hollywood tendono a cimentarsi maggiormente nella realizzazione di serie tv. Queste divengono quindi un nuovo strumento di diffusione e di sensibilizzazione per tutte quelle tematiche d’attualità che si vanno affermando nella nostra società: prima fra tutti, la tutela della comunità LGBT+. E quale momento migliore per celebrare l’amore in tutte le sue forme se non durante il Pride Month! A tal proposito, negli ultimi anni è aumentata la rappresentanza di questo gruppo sociale anche nelle serie tv. Andiamo dunque a ricordare alcune delle più note coppie LGBT+ del mondo seriale!

Glee: Kurt e Blaine / Santana e Brittany

Una delle serie tv, a mio parere, più inclusive è Glee. Questa, pur essendo ormai più datata di altre (la prima stagione è uscita nel 2009), affronta in maniera molto aperta il tema della diversità. La serie racconta le vicende del glee club, il gruppo corale della McKinley High. Tra i personaggi principali, specialmente delle prime stagioni, ritroviamo due coppie gay: si tratta di Kurt Hummel (Chris Colfer) Blaine Anderson (Darren Criss), e di Brittany S. Pierce (Heather Morris) e Santana Lopez (Naya Rivera). I Klaine si conoscono alla Dalton, dove Kurt si intrufola per spiare una delle squadre rivali del glee club; qui, tra tutti gli studenti che lo accolgono calorosamente, conosce Blaine e tra i due si crea subito un legame particolare. La relazione tra Santana e Brittany è un po’ differente. Le due sono molto amiche da sempre, entrambe cheerleader, ma Santana ha delle difficoltà ad aprirsi e riesce a fare coming out solamente durante l’ultimo anno di liceo, quando inizia una relazione con Brittany.

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Logo del glee club. Fonte: wikimediacommons.org

Modern family: Mitch e Cam

Modern family è una nota sitcom, lanciata nel 2009 e conclusasi solamente nel 2020. Tratta le vicende di una famiglia americana e di come le loro vite si evolvano negli anni. Due dei personaggi principali sono Mitchell Pritchett (Jesse Tyler Ferguson) e Cameron Tucker (Jesse Tyler Ferguson). I due si rivelano una coppia stabile, pur essendo molto diversi tra loro: Mitch è sicuramente più riservato ed apatico, mentre Cam è molto sentimentale ed affettuoso, e tende spesso ad incentrare tutte le attenzioni su di sé. Fin dal primo episodio adottano una bambina dal Vietnam, Lily (Aubrey Anderson-Emmons), che cresce circondata dall’amore dei due genitori e da tutte le cure possibili.

Sex education: Eric e Adam / Lily e Ola

Sex education (di cui abbiamo già parlato qui) è senza alcun dubbio una delle serie più conosciute e più discusse fin dalla sua uscita, sulla piattaforma Netflix, nel gennaio del 2019. La serie, infatti, ponendosi come strumento per sensibilizzare maggiormente i giovani, affronta in maniera chiara ed esplicita il tema della sessualità. Nel corso delle vicende ritroviamo due coppie LGBT: si tratta di Eric (Ncuti Gatwa) e Adam (Connor Swindells) e di Lily (Tanya Reynolds) e Ola (Patricia Allison). I primi riscontrano da subito diversi problemi, legati alla difficoltà di Adam a vivere la propria omosessualità in maniera serena e ad esprimere i propri sentimenti. Lily ed Ola, invece, vivono la propria relazione in modo più sano, senza vergognarsi delle proprie fantasie.

Grey’s anatomy: Callie e Arizona

Grey’s anatomy è uno degli show medical drama più conosciuto in assoluto. Uscito per la prima volta nel 2005, oggi conta ben 18 stagioni dense di intrighi amorosi e strabilianti colpi di scena. La serie, segue le vicende dei medici del Seattle Grace Hospital e specialmente della dottoressa Meredith Grey (Ellen Pompeo). Tra i personaggi principali ritroviamo anche Callie Torres (Sara Ramirez), chirurgo ortopedico, che dalla quinta stagione intraprende una relazione col chirurgo pediatrico Arizona Robbins (Jessica Capshaw). Pur avendo inizialmente un rapporto difficile, dovuto anche ai contrasti del padre di Callie, le due avranno una relazione duratura nelle successive stagioni, fino a sposarsi.

Black Mirror: San Junipero

Last but not least, troviamo nella nota serie tv distopica Black mirror un intero episodio della terza stagione dedicato alla storia d’amore tra Yorkie (Mackenzie Davis) e Kelly (Denise Burse). Black mirror tratta in ogni episodio una storia differente, ambientata in un ipotetico futuro tecnologico e anti-utopico. San Junipero però non presenta quell’ansia e quel terrore catartico che caratterizzano molti altri episodi della serie. In questo, vengono raccontate le vicende di due ragazze, Kelly, molto estroversa, e Yorkie, più timida ed impacciata, a San Junipero, una sorta di realtà parallela. Per quanto Kelly, spaventata dall’idea di una relazione, cerchi di scappare da Yorkie, le due sono però destinate a stare insieme.

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Logo di Black mirror. Fonte: commons.wikimedia.org

La presenza di qualche personaggio LGBT+ potrebbe sembrare irrilevante per molti: sicuramente non può da solo risolvere problemi di omo-bi-transfobia nella nostra società. Ciononostante può sensibilizzare e normalizzare qualsiasi relazione; ed in più, permette a tutti di potersi immedesimare nei personaggi, di sentirsi rappresentati, anche se solo in una serie tv o in un film. Si tratta di piccoli gesti che però possono avere una grande importanza.

Ilaria Denaro

Pride month con UVM: Chiamami col tuo nome

Storia commovente e interpretazione notevole da parte degli attori, ma il film non raggiunge i livelli del libro – Voto UVM: 4/5

Come ormai quasi tutti sappiamo, giugno è il Pride Month. Noi di Universome vogliamo celebrarlo attraverso una delle storie d’amore moderne più note: stiamo parlando di Chiamami col tuo nome! Uscito nelle sale nel 2017, il film diretto da Luca Guadagnino è un adattamento cinematografico dell’omonimo libro pubblicato da André Aciman nel 2007.

Il film

Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio (Oliver)

Chiamami col tuo nome è stato acclamato dalla critica cinematografica: ha vinto diversi premi tra cui anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale a James Ivory.

Ma ciò che rende la pellicola così unica e coinvolgente è la perfetta interpretazione dei due protagonisti Elio e Oliver da parte degli attori Timothée Chalamet (anche candidato per l’Oscar come miglior attore protagonista) ed Armie Hammer. I due riescono a identificarsi a pieno con i personaggi descritti nel libro, che in questo modo viene riadattato nella maniera più fedele possibile.

Elio ed Oliver in una scena del film –  Fonte: cinematographe.it

In ogni caso non è neanche da sottovalutare la cura di tutti i particolari, specialmente i luoghi e gli ambienti in cui il film è stato girato: questi, infatti, creano un’atmosfera quasi surreale.

Il film (come anche l’omonimo libro) racconta il legame speciale che si viene a creare tra Elio, ragazzo molto introverso di diciassette anni, figlio di un importane professore di archeologia, e Oliver, studente bello e affascinante di ventiquattro anni, durante l’estate nelle campagne del nord Italia. Inizialmente il rapporto tra i due è molto freddo e distaccato, ma passando molto tempo insieme i due si avvicinano sempre di più, fino a creare una relazione passionale inscindibile.

I personaggi

Il protagonista Elio (Timothée Chalamet)- Fonte: mymovies.it

Elio è diverso dai ragazzi della sua età: trascorre i mesi estivi a suonare il piano, leggere e nuotare. E’ molto solitario, l’unica persona a cui appare molto legato è Marzia, ragazza segretamente innamorata di lui.

Oliver, invece, è diverso da Elio tanto fisicamente quanto caratterialmente: attraente e sicuro di sé, inizialmente appare agli occhi di Elio arrogante e menefreghista con i suoi “dopo”. Solo in un secondo momento questa si mostrerà essere solo una corazza che nasconde una persona totalmente differente.

 Strappiamo via così tanto di noi per guarire in fretta dalle ferite, che finiamo in bancarotta già a trent’anni e abbiamo meno da offrire ogni volta che troviamo una persona nuova. Ma forzarsi a non provare niente per non provare qualcosa, che spreco! (Samuel Perlman)

Un altro personaggio che a mio parere spicca soprattutto alla fine del film (non vi preoccupate, nessuno spoiler!) è Samuel Perlman, padre di Elio, interpretato dall’attore Michael Stuhlbarg.

Il libro

Il film di Guadagnino – come abbiamo già detto – è tratto dal romanzo di Aciman; per quanto il regista sia rimasto il più fedele possibile alla storia originale, a mio parere il libro è migliore del film (come spesso accade per molti adattamenti cinematografici).

La vera differenza sta nel fatto che nell’opera di Aciman la storia viene raccontata tutta in prima persona da Elio, in questo modo si riesce a conoscere meglio il personaggio e il suo punto di vista; invece nel film si ha una narrazione pressoché impersonale e questo, a mio avviso, rende la narrazione più lenta e meno avvincente del libro. Inoltre il linguaggio molto descrittivo del romanzo rende possibile al lettore immergersi al meglio nella storia.

Cercami

Lo scrittore André Aciman e la copertina di “Cercami”- Fonte: ilLibraio.it

Nel 2019 esce il sequel del libro Chiamami col tuo nome, Cercami: questo si concentra molto anche sul personaggio del padre di Elio, che (come abbiamo già detto sopra) inizia ad emergere nel finale del primo romanzo, continuando comunque anche a narrare le vicende di Elio e di Oliver.

Ad ogni modo non si avrà un secondo film: per via delle varie accuse mosse all’attore Armie Hammer per stupro e cannibalismo e poiché impegnato in altri progetti, il regista Luca Guadagnino ha affermato in un’intervista che almeno per il momento non si impegnerà in un adattamento cinematografico.

La storia di Chiamami col tuo nome, a differenza di molte altre, non tratta direttamente la lotta per i diritti della comunità LGBT+. Qui si racconta solamente dell’amore che lega per sempre due ragazzi apparentemente molto diversi, perché, in fin dei conti è questo ciò che conta veramente: love is love.

Ilaria Denaro

Non è colpa nostra: Liberazione Queer+ Messina dice NO alla violenza

Forse Messina non diventerà il paradiso per i diritti LGBTQIA+, ma c’è chi cerca di sdoganare la convinzione che, anche per una città come la nostra, che nulla ha da invidiare alle altre città d’Italia, non si possa arrivare ad un’apertura mentale tale da accettare la natura d’altri.

Ma andiamo per ordine, cercando di spiegare il tutto.

LGBT(QIA+) Chi sono? Liberazione Queer+ Messina , cos’è?

LGBT(QIA+) è un acronimo che sta per L lesbiche, G gay, B bisex, T trans\transgender, Q queer, I intersex, A asessuali.

Una lista lunghissima, direte, ma c’è il + perché sono disposti ad accoglierne altre.

Questa è una lunga storia che possibilmente andremo ad approfondire più-in-là.

©GiuliaGreco, Messina 2020

Liberazione Queer+ Messina è il collettivo messinese che riunisce le soggettività della comunità LGBTQIA+, che lotta contro l’omobitransfobia e per la liberazione sessuale.

Queer è un termine comprensivo di tutte le identità sessuali e di genere “diverse” dalla “norma” della società: non etero, non cis o non binarie, e tutte le persone che per i loro corpi la maggioranza esclude, discrimina o finge non esistano. È una parola “potente” perché nasce come un insulto (in inglese era come dire “frocio”), ma la comunità dei queer se ne è appropriata e ha deciso di usarla per sé.

Se ancora non riuscite a trovare una quadra, tranquilli, è normale, anche io ho avuto un attimo di confusione.

Sono un sacco di parole e sembra tutto molto complicato, ma poi la spiegazione vien da se: Queer è un’ identità liberatoria perché significa tante cose eterogenee che uniscono insieme persone molto diverse tra loro. Come delle sfumature, che sono tantissime, e giusto per inserire due frasi fatte, direi : “Che mondo sarebbe senza sfumature” o ancora “Il mondo è bello perché è vario”.

©GiuliaGreco, Messina 2020

Niente di più semplice, se solo questa visione fosse vista e accettata da tutti.

Durante il Community Talk LGBTQ+, organizzato dal collettivo Liberazione Queer+ Messina ieri pomeriggio presso la sede di CMdB, è emerso che le persone omosessuali, bisessuali, genderfluid e via dicendo esistono da sempre, è solo che ora che stanno cercando una voce e vogliono essere rispettate, non negate, specialmente nella nostra città.

Il problema, in parole povere, è che l’ignoranza (letteralmente “mancanza di conoscenza” ) porta alla violenza.

Riportando le stesse parole utilizzate dal collettivo: “Nella nostra città la violenza omolesbobitransfobica è preoccupantemente diffusa ma ugualmente silenziata: passano sotto silenzio atti di bullismo, aggressioni e minacce, ma anche e soprattutto discriminazioni e stereotipi che avvolgono tutta la nostra quotidianità. Dopo alcuni fatti di victim blaming che ci hanno colpito da vicino, abbiamo deciso che è arrivata l’ora di affrontare la questione.

E l’hanno affrontata eccome, pure piuttosto bene.

©GiuliaGreco, Messina 2020

Dopo il Community Talk infatti, la Libreria- Caffè letterario Colapesce ha ospitato l’AperInchiesta, un evento che si è svolto sotto forma di domande davanti ad un aperitivo.

Ad ogni tavolo, oltre che all’aperitivo, sono stati forniti penna e post-it. Un cartellone appeso al muro diviso in quattro colonne: violenza in famiglia, violenza a scuola\lavoro, discriminazioni e stereotipi, strumenti e proposte di tutela.

In un range di tempo di circa 15 minuti, ogni membro del tavolo, nel caso in cui fosse stato vittima di violenza di una delle caselle, doveva scrivere nel post-it il singolo evento in forma anonima; allo scadere del tempo venivano raccolt i post-it e attaccati al cartellone.

©GiuliaGreco, Messina 2020

Anche se i post-it non sembravano molto stabili, le frasi scritte sopra, al contrario, erano molto forti.

Lo stereotipo è violento

Sei troppo maschio per essere gay

Bisessualità=confusione

Gli strumenti e le proposte di tutela hanno impegnato molti post-it (vedi post-it che si incollano male, ndr), tra queste: “sensibilizzazione al di fuori della comunità per fornire supporto“.

©GiuliaGreco, Messina 2020

Tra i termini infiniti imparati ieri sera, ne ho trovato uno anche per me.

Alleati: eterosessuali cis che sposano la causa e difendono e supportano i loro conoscenti e amici queer, perché perfino loro non sono proprio sicuri che tutti dobbiamo per forza essere etero, bianchi, sposati, riproducibili e ugualmente abili. Se vuoi essere un* buon alleat*, intervieni quando senti commenti omofobi; partecipa alle manifestazioni, ma senza togliere spazio per esprimersi alle persone queer, e difendi il loro diritto di esistere come esiti tu.

Cristina Geraci