Il silenzio di chi ama

Il Silenzio di chi ama è un libro scritto nel gennaio 2018 da Davide Romagnoli, ragazzo di 19 anni studente di scienze della comunicazione all’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli.

Racconta una delusione d’amore molto forte, il sentire di aver dentro un sentimento e di non poterlo esternare fuori.

Un ragazzo troppo giovane per parlare di delusioni? No, semplicemente un adolescente che ha vissuto a pieno le sue emozioni.

Ho avuto il piacere di intervistare lo scrittore di questo testo di poesie.

Dopo le svariate domande fatte a Davide, tra una risposta e l’altra, posso aggiungere che questo libro sicuramente è quello che lo rappresenta di più, ed ho avuto la conferma stessa dello scrittore, aggiungendo che per lui racchiude momenti forti della sua vita.

Un ragazzo pieno di sentimento, pieno di sogni, un amante dei viaggi, che vede come un modo per ritrovare se stessi lontano dalla routine quotidiana in cui l’unico rischio che riscontra è quello di perdersi; i viaggi invece ci permettono di vedere lontano dai nostri occhi e dalle solite cose che ci circondano, per permetterci di ritrovare ciò che perdiamo ogni giorno senza accorgercene.

Con il suo modo di vivere, che definisce a colori, Davide vive “Londra”.

Un giovane ragazzo che sa ciò che vuole veramente nonostante la sua giovane età. Un ragazzo di grande sentimento, ma soprattutto grande passione per quello che scrive.

Un “piccolo Giacomo Leopardi” del ventunesimo secolo, ricco di speranza ma anche di dolore e passione.

“Il silenzio di chi ama” è privo di trama ma ricco di susseguirsi di poesie che hanno lasciato qualcosa nel suo cuore e che ha voluto condividere con tutti coloro che ancora in fondo provano un sentimento, ed è così che la trama si snoda tra le pagine.

Davide, il ragazzo dai sentimenti forti, ci fa capire che bisogna guardare dentro noi stessi e non aver paura di esprimere ciò che si nasconde nel nostro cuore.

 

 

Dalila De Benedetto                                                                                                                                                                                                         

Apollo Spazio Cinema: la narrativa siciliana sul grande schermo

Una sequenza di capolavori restaurati, da Luchino Visconti a Elio Petri, ispirati ai romanzi dei grandi autori siciliani

La programmazione del cinema Multisala Apollo, dal 10 gennaio, ha avviato un ciclo di proiezioni che ha al centro il doppio filo tematico che unisce letteratura siciliana e trasposizione in chiave cinematografica. La rassegna, alla prima edizione, è intitolata “Apollo Spazio Cinema” e presenta, da gennaio a giugno, due appuntamenti fissi sul calendario, il primo e l’ultimo giovedì di ogni mese. I film introdotti da Marco Oliveri, giornalista e critico cinematografico, sono stati scelti su iniziativa dell’Associazione Apollo Spazio arte, con il patrocinio di Cineforum Don Orione, Dams di Messina, Messina Film Commission e UniversiTeatrali – Università di Messina.

Un’occasione imperdibile per vedere sul grande schermo alcune eccezionali pellicole che hanno fatto la storia del cinema italiano e internazionale. “Si tratta di una prima esperienza nel segno della proposta culturale, in vista di nuove edizioni, data la varietà di titoli legati al prolifico e variegato mondo letterario siciliano e non solo. Tutti possono contribuire ad arricchire il dibattito e il confronto prima e dopo il film in programmazione”, specificano il curatore Oliveri e Loredana Polizzi. Dopo La terra trema di Luchino Visconti (1948), proiettato il 10 gennaio, basato su I Malavoglia di Giovanni Verga e girato, non a caso, ad Aci Trezza, il prossimo appuntamento, giovedì 31, porterà nella Catania borghese di inizio anni ’60.

31 gennaio (ore 20.00): Il bell’Antonio (1960)Mauro Bolognini (105 minuti)

Antonio Magnano (Marcello Mastroianni) è un giovane dall’aspetto piacevole ed elegante. Per qualche tempo ha vissuto a Roma e, dopo gli studi, è tornato nella casa di famiglia a Catania. Le ragazze molto sovente sono attratte da lui e una più di tutte, Barbara (Claudia Cardinale), attira la sua attenzione. I due presto, con il consenso dei genitori, si sposano, ma il matrimonio non viene consumato e l’onore della famiglia di Antonio sarà messo in discussione agli occhi della società, pettegola e avvinta al mito del Don Giovanni. Tratto dal romanzo omonimo di Vitaliano Brancati, scrittore originario di Pachino, dal quale si discosta in alcuni punti della trama, il film riprende gli ambienti corali del libro, echi di una Sicilia che nasconde sotto il valore della virilità e della potenza sessuale la propria meschinità e arretratezza.

PROGRAMMA:

Giovedì 10 Gennaio: La terra trema (1948) di Luchino Visconti, da I Malavoglia di Giovanni Verga.

Giovedì 31 gennaio: Il Bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini, dal romanzo omonimo di Vitaliano Brancati.

Giovedì 7 febbraio: Don Giovanni in Sicilia (1967) di Alberto Lattuada, dal romanzo omonimo di Vitaliano Brancati.

Giovedì 28 febbraio: A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri, dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia.

Giovedì 7 marzo: Enrico IV (1984) di Marco Bellocchio, dall’omonimo dramma di Luigi Pirandello.

Giovedì 28 marzo: Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, dal romanzo Il contesto di Leonardo Sciascia, preceduto dal documentario Il cineasta e il labirinto (Italia, 2002, 55’) di Roberto Andò (inizio proiezione alle 19.30).

Giovedì 4 aprile: Todo Modo (1976) di Elio Petri, dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia.

Giovedì 18 aprile: Porte aperte (1990) di Gianni Amelio, dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia.

Giovedì 2 maggio: Kaos (1984) di Paolo e Vittorio Taviani, da Novelle per un anno di Luigi Pirandello.

Giovedì 30 maggio: Il gattopardo (1963) di Luchino Visconti, dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Giovedì 6 giugno: Il manoscritto del principe, sceneggiatura originale da testi di Francesco Orlando e Gioacchino Lanza Tomasi.

 

Eulalia Cambria

Alda Merini, la poetessa dei Navigli

Alda Merini, una poetessa dalla sensibilità elevata, simbolo, anche, del malessere degli individui; malessere che per lei aveva come paracadute soltanto la poesia.

Alda Merini nasce il 21 marzo del 1931 a Milano. Alda è la seconda di tre figli, ma della sua infanzia si conosce poco. Nelle brevi note biografiche si descrive come una ragazza sensibile e dal carattere malinconico, isolata e poco compresa dai genitori.

Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti che scoprì il suo talento artistico.

La storia della Merini è una storia molto particolare, la sua vita non è stata monotona, ma al contrario caratterizzata da emozioni fortissime. Il suo malessere inizia a farsi vivo con quelle che lei stessa definì nel 1947:

prime ombre della sua mente“.

Era già sposata e madre felice ma, come tutti noi esseri umani, aveva momenti di stanchezza e tristezza. Parlò di questi suoi piccoli problemi al marito che non solo non comprese nulla, ma fece ricoverare la moglie nella clinica Villa Turro di Milano.

Alda Merini soffriva di disturbo bipolare che all’epoca era considerato semplicemente un costante cambiamento d’umore. Questo problema era la “marcia” in più per lei: riusciva a vedere cose laddove gli altri non riuscivano a vedere e di conseguenza a creare poesie e aforismi impressionanti, capaci di colpire nel profondo il lettore. Il malessere di cui ha sofferto Alda Merini è stato logorante per lei. La sua vita è stata un mix di emozioni e gioie, legate però a perenni dolori. Questa sua condizione trovava sfogo, prima che sui fogli, sulle pareti delle sua camera da letto, tappezzata da frasi, aforismi e riflessioni sulla vita, sull’amore.

Scritte con il rossetto in ogni angolo, sugli specchi, vicino il letto, in ogni parte della casa.

La vita della poetessa dei Navigli non è stata molto facile in manicomio. Come disse spesso, lei non si riteneva pazza e ne era consapevole; si ribellava ai medici e alle cure a cui la sottoponevano. Il ricordo peggiore è quello dell’elettroshock. Alda ricordava la stanza dove lo “somministravano” come un luogo terribile, dove ti saliva l’ansia e la paura già nell’anticamera. Un luogo piccolo e sporco, dove la gente aspettava il proprio turno ascoltando inerme le pene patite nella stanza vicino. La Merini però può ritenersi relativamente fortunata perché la sua reclusione, malgrado tutto, non durò molto. Quando uscì, in ogni caso la sua persona ne risentì profondamente, tanto che la sua vita ruotò attorno all’incubo del manicomio. Luoghi di tortura legalizzati, dove i “matti“ non avevano nessun rapporto con l’esterno. Luoghi in cui ancora oggi si respira la crudeltà dell’uomo. La poetessa racconta, in una delle sue interviste, che prima dell’elettroshock facevano una pre morfina e poi davano del curaro. Dopo anni in manicomio la Merini ritrovò una pace interiore per qualche tempo, ma i ricordi del passato riemergevano spesso. Lei considerava la poesia un’espressione di dolore, un dolore intimo, esclusivo del poeta, che, in quanto tale, è per natura più incline alla sofferenza. Ma accettò il dolore indossandolo “come un vestito incandescente, trasformandolo in poesia”. In una nota intervista alla domanda ‘Lei è felice?’ Alda rispose ‘La mia felicità è la mia rassegnazione. Sì, sto bene da sola, quando se ne vanno tutti e posso cominciare a pensare anche in questa piccola casa che tutti denigrano e dicono che è disordinata, non curata, polverosa. Ma questa polvere è polvere di farfalle come sono i pensieri! E se la togli non volano più.’

Ecco qualche passo delle sue poesie più belle…

Ero matta in mezzo ai matti.
I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.
I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti
Di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori, detti pensieri,
di rose, dette presenze,
di sogni, che abitino gli alberi, di canzoni che faccian danzar le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti… Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia le pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

E poi fate l’amore
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca, sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure, baci sulle debolezze,
sui segni di una vita che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata. Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più. Ecco, fate l’amore e non vergognatevene, perché l’amore è arte, e voi i capolavori.

Solitudine
S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti.

Alda Merini visse la solitudine del malato che non è solo fisica – essere chiusi tra le quattro mura di una clinica restando esclusi dalla vita fuori – ma anche psicologica: il malato è un diverso e per questo rimane isolato dalle persone ‘normali’. A proposito della solitudine in manicomio, in Diario di una diversa la poetessa scrive: “Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio”. Ma la diversità di Alda Merini che la condanna all’isolamento non è solo quella del malato, ma anche quella dell’artista: “scrivere una poesia è un momento di grande solitudine”, disse la Merini in un’intervista a Loris Mazzetti, aggiungendo che “il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione”.

Alda Merini ha avuto amori e figli, ma la solitudine – dell’artista e della reclusa – è stata la sua vera compagna di vita, che nella poesia ‘Piccoli canti’ infatti chiama ‘solitudine mia’, parlando di lei come di una vecchia amica che l’ha fatta soffrire ma di cui ormai non può fare più a meno, e a cui infine dice ‘tornerò, stanne pur certa’.

Concludo dicendo che questa grande poetessa dalla sensibilità elevata, con la sua voglia di essere una donna libera e diversa, cercò di cogliere la forza e il limite della parola nel silenzio di un’immagine. Era bella e unica perché non rassicurava nessuno, non stava da nessuna parte, non difendeva verità assolute! Viveva l’amore con semplicità, sapeva custodire e proteggere il senso della vita. Prediligeva la notte, sua compagna muta ma vicina, dove i suoi dubbi più belli, le sue fragilità e i suoi versi sbattevano e battevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti della sua solitudine.

A tutti i giovani Alda lasciò un grande messaggio:

A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
Alda Merini , da < La vita facile>.

Con queste sue intense parole Alda ci spiega il senso della vita, invita ognuno di noi ad amarla, amare i poeti e i libri “per volare oltre questa triste realtà quotidiana”.

Gabriella Puccio

Al via l’annuale concorso di poesia organizzato dal liceo “Galileo Galilei”

Oramai giunto alla sua 7^ edizione, anche per l’anno scolastico 2018/2019, il Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei” di Spadafora bandisce l’annuale Concorso di Poesia intitolato all’omonimo istituto sul tema:

“un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.” (U. Saba, Trieste)

Il concorso è rivolto a tutti gli studenti universitari dell’Ateneo di Messina, agli studenti universitari presso Atenei nazionali diplomati presso un istituto di istruzione superiore di Messina e provincia, agli studenti iscritti a scuole medie o superiori di Messina e provincia.
I componimenti inediti dovranno essere presentati entro e non oltre le ore 12 del 31 gennaio 2019 secondo le seguenti modalità: tramite posta (racc. AR) all’indirizzo LICEO SCIENTIFICO-LINGUISTICO “Galileo Galilei” – concorso di poesia – Via Nuova Grangiara, 98048 Spadafora (ME) (farà fede il timbro postale), oppure consegnandoli fisicamente presso la Segreteria del Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei”.

Ogni concorrente proclamato vincitore per la propria categoria riceverà un premio di € 200,00. Saranno inoltre assegnate pergamene con menzione di merito ai concorrenti autori di componimenti ritenuti particolarmente meritevoli dalla Commissione.
Il luogo e le modalità della premiazione saranno comunicati tramite missiva o telefonicamente ai vincitori del premio e alle scuole di appartenenza.

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il regolamento presente nel bando: http://www.maurolicomessina.gov.it/wp-content/uploads/2018/12/Bando-concorso-di-poesia-Liceo-Galilei-2018-2019.pdf .

 

Claudia Di Mento

Dieci racconti, dieci punti di vista sulla città. “Cara Messina ti scrivo…”

Attribuire il valore ad una città servendosi della scrittura. Giovanni Pascoli, citato ad apertura del volumetto, diceva: “dove è quasi distrutta la storia resta la poesia”.

In questi dieci racconti che si susseguono a guisa di snodi di un’unica, fondamentale, rappresentazione, drammatica e dialettica, della vicenda umana, le trame si organizzano per dare tutte risalto ai diversi modi di percepire l’ambiente in cui si muove affannosa l’esistenza.

Pubblicata nel 2013 per La Feluca Edizioni, casa editrice fondata dai fratelli Buttafarro, la raccolta miscellanea è articolata secondo un principio cronologico che parte da un quotidiano familiare e risale alle cronache perdute nelle macerie dei violenti terremoti fino a sconfinare nel mito di un lontano passato. Dieci scrittori di Messina convogliano la fantasia per offrire materia verbale ai pensieri e le memorie che agitano coloro che vivono o ritornano da lei. “Se questa città davvero la sia ama, bisogna avere l’animo di non abbandonarla al suo destino” afferma nella prefazione Giuseppe Ruggeri. Inseguendo tale desiderio si sviluppa Cara Messina ti scrivo... Gli scrittori, molti professionisti, insegnanti e medici, hanno dedicato ciascuno un tassello per restituire l’amore che li lega alla città. Non è un caso che queste sponde appaiano fin dall’atto di nascita di tutte le letterature, dalla vedetta dell’albero maestro della nave di Odisseo, un tutt’uno con la parola e il canto, e che Messina sia stata scelta da numerosi scrittori, in epoche più o meno vicine ai giorni nostri, come un faro che stringe nel suo abbraccio il prodigio di una natura affascinante e catastrofica.

Ad un tavolo all’aperto dell’Irrera, di metallo, con intorno quattro sedie pure di metalo, come si usava nei bar, un ragazzo ed una ragazza gustavano, con studiata lentezza, quasi a prolungarne il soave piacere, una “mezza caffè con panna” con la brioche calda e fragrante.  (Sogno … un mattino d’estate -P. Russo)

M. De Domenico, “Miele a Messina”, omaggio per la mostra di Milo Manara a Etnacomics ’14

Dietro ai racconti che l’antologia mette insieme si raccolgono storie che guardano indietro. Ci sono ferite che non si rimarginano, errori, compagnie di gioventù,  ricordi degli attimi andati, insieme ai gesti del presente, disseminati nei reticoli della planimetria cittadina. Anche la costa e gli schizzi delle onde del mare risalgono come elementi di un sogno e le calamità naturali, la pioggia e il sale della marina in estate sono un’eco nei passi dei suoi abitanti.

Michela De Domenico, “menza ca’ panna”

Così da un quadro intimo di vita familiare, in una sonnacchiosa camera assolata (“è tempo di sale sulla pelle, da leccare via furtivamente da una spalla o dal dorso di una mano, per sentire il sapore del mare che ci scorre nelle vene”) dopo una mattina in spiaggia in Piedi Grandi di Patrizia Vicari, la scena si sposta in un casolare dove è stato compiuto un delitto dai contorni indefiniti, descritto attraverso i tarli del protagonista che ritrova a Messina i legami di una antica amicizia nel racconto Quella sera nel bosco di Giuseppe Ruggeri. Il mare è poi il centro nella storia di Emilia Celi, Micia Stidda, figghia di lu mari, in cui una donna, innamorata della sua terra, si oppone alla costruzione del ponte: “e le spiagge, cosa ne sarà delle spiagge? Ci ha pensato? E i grandi pesci, che cercano le isole per andarci a fare l’amore cosa faranno quando l’ombra del ponte attraverserà l’acqua come un muro, portandole via la luce del sole?”. Di richiami sensuali si veste la scrittura preziosa di Incontro di Lino Soraci a cui fa da sfondo la tangenziale autostradale nel suo punto più panoramico: “per lenire lo sconforto procurategli dalle presenti miserie, prese a fantasticare sulla selvaggia bellezza con la quale la Sicilia doveva essere apparsa ai primi colonizzatori greci che vi avrebbero in seguito fondato città e templi bellissimi”.  Teenager protagonisti e motivi fantasy si trovano in Un desiderio per Messina di Elisabetta Venuti in cui una ragazza del Maurolico sogna di vedere rinascere Messina con una magia che tuttavia non offrirà i risultati attesi.

Per quella notte, l’occulta regia dello straordinario spettacolo di luci ed acqua dello Stretto aveva deciso di andare in scena nella versione da lui prediletta: mare piatto e nero come un rilucente piano d’ardesia sul quale scivolavano lievemente, senza lasciare spumose scie, le imbarcazioni di costante collegamento tra l’Isola e il Continete, le cui idronidamiche strutture erano appena rischiarate dal misterioso light design che una notturna e fantasiosa Fata Morgana s’ingegnava a proiettare su tutta quell’ampia veduta così naturalmente bella da sembrare, paradossalmente, un finto fondale di tela dipinto a mano da un esperto scenografo per le riprese di un film-kolossal. (Incontro – L. Soraci)

Michela De Domenico, “tomba del marinaio”

Ne Il viaggio del rimpianto di Vincenzo Ragno il pegno verso la propria città viene pagato nel modo più tragico. Maldicenze e peccati di gioventù si ritagliano uno spazio tra i fuochi d’artificio e la festa della Vara. Ancora il passato e la nuova conformazione della città a distanza di anni appaiono nel racconto Sogno… un mattino d’estate di Pasquale Russo. Un uomo si addormenta e immagina di essere ancora ragazzo, a bordo della sua utilitaria insieme alla compagna che sarebbe rimasta accanto a lui una vita, mentre percorrono il litorale: “Meta, le montagne di sabbia di Capo Rasocolmo. Si erano premuniti indossando i costumi da bagno sotto i vestiti. La ‘500 correva ed il vento caldo scompigliava i loro capelli, mentre si baciavano liberi e felici nel raggiante splendore della loro giovinezza e nella luce dei loro sogni”. Una vera e propria sezione a parte è costituita dai racconti che parlano del terremoto nei due racconti Potrebbe essere accaduto davvero di Ignazio Pandolfo e Sisma di Mario Oscar Venuti. Il primo, una narrazione divisa in tre episodi che descrive gli ultimi attimi ignari di due personaggi pochi istanti prima che la terra tremasse quel 28 dicembre del 1908 e l’approdo di una nave russa sullo Stretto. Un filo narrativo, una specie di corsa all’oro, unisce fantasiosamente l’evento sismico del 1783 e del 1908, nel secondo dei due racconti: “ un sussurro, portato dal vento, circa un patrimonio seppellito e difficilmente recuperabile rimbalza da orecchio a orecchio, di bocca in bocca, da balcone a balcone fino alla pubblica piazza”. L’ultima novella, Duello, di Alfredo Buttafarro si fa ancora più lontana, riportando, nella Messina del 1600, l’amore infelice, ma a lieto fine, di una ricca dama e un giovane, sullo sfondo dell’antica chiesa della Badiazza.

Eulalia Cambria

Un ringraziamento a Michela De Domenico per averci concesso i suoi disegni. Potete trovarne altri sù:

https://mycomicsjourney.wordpress.com

https://www.facebook.com/messinamycomicsjourney/

Celebrazioni per il 50esimo anniversario della morte di Salvatore Quasimodo.

La giornata del 14 giugno sarà fitta di eventi per le celebrazioni del 50esimo anniversario della morte del poeta e scrittore siciliano Salvatore Quasimodo.
Uno degli esponenti principali dell’ermetismo, fra le opere ricordiamo “Ed è subito sera” “Oboe sommerso” “Erato e Apollion” gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura nel 1959.

Le celebrazioni inizieranno dalla mattina a Roccalumera, dove il poeta trascorse l’infanzia, e continueranno a Messina nel pomeriggio presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” in via XXIV maggio.

A Roccalumera avrà luogo la deposizione di una corona di fiori al monumento dedicato al poeta in Piazza Quasimodo ,dopo, la cerimonia di presentazione dell’annullo filatelico speciale realizzato da Poste italiane in collaborazione con il Circolo Filatelico Peloritano.
Alle ore 11.30 si terrà il convegno “Salvatore Quasimodo: cinquant’anni dopo”.
Le celebrazioni continueranno alle 16:30 presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” che è anche sede dell’Archivio Quasimodo di proprietà dell’Ente.
Angela Pipitò, direttrice della Galleria d’Arte introdurrà e coordinerà i lavori.
Alle ore 17.30 verrà proiettato un filmato originale dell’assegnazione della cittadinanza onoraria a Salvatore Quasimodo nel 1960, donato all’Archivio Quasimodo dalla Famiglia Davoli e subito dopo seguirà un recital di poesie di Salvatore Quasimodo recitate dalla viva voce di Gianni Di Giacomo.

A seguire l’ inaugurazione della mostra “Gli anni di Quasimodo a Messina” un’esposizione fotografica e documentaria sulla vita e sull’attività del poeta a Messina dagli anni giovanili alla sua partecipazione all’Accademia della Scocca, con documenti originali e articoli di stampa dell’epoca provenienti dall’Archivio Quasimodo.
La mostra sarà visitabile fino al 30 giugno, dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 13 e dalle 15 alle 17.30.

 

Arianna De Arcangelis

 

 

J.D. Salinger – Franny e Zooey.

-Sono JD Salinger e ho finto di essere morto …

-Mr Salinger! Non immagina che piacere. Princess Carolyne, una sua fan

-Lasciami indovinare, Il giovane Holden?

-E gli altri naturalmente … Per esempio … Lo Hobbit? 

Bojack Horseman, seconda stagione – J.D. Salinger e Princess Carolyne.

Più o meno succede proprio questo: uno passa la vita a scrivere libri e pubblicare racconti per poi essere ricordato soltanto per un libro, proprio come dimostra questo spezzone tratto da Bojack Horseman.

È stato proprio per questo motivo che ho (finalmente) letto Franny e Zooey, un’opera in cui essenzialmente non accade nulla di concreto: la storia si divede in tre scene principali in cui si susseguono lunghissimi dialoghi che richiamano più un’opera teatrale anziché una narrativa.

Franny Glass, studentessa al college ed ex Bambina Eccezionale di una fortunata trasmissione radiofonica, non riesce più ad accettare le regole della società in cui vive e il desiderio del cambiamento nasce dopo la lettura di un anonimo libricino del XIX secolo: i “Racconti di un pellegrino russo”. In questo testo il protagonista, un pellegrino appunto, si mette alla ricerca della tecnica della preghiera incessante di cui parla la Bibbia, l’unico strumento che consentirebbe un’unione completa con Dio, cosa che affascina la giovane Franny a tal punto da decidere di percorrere la stessa strada per raggiungere uno stato di preghiera continua.

Una strada che si rivela ardua da percorrere e Franny si viene così a trovare immersa in una profonda crisi spirituale e esistenziale, da cui riuscirà ad uscire solo grazie all’aiuto del fratello maggiore Zooey, il secondo splendido protagonista di questo racconto (abbastanza simile a un certo Holden di vecchia conoscenza).
La conclusione a cui giunge la madre, comunque, vale tutto il libro:

“Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici.”

Attraverso i dialoghi tra i due fratelli, e utilizzando la particolare tecnica dei flashback, Salinger ricostruisce una vera e propria saga familiare: la famiglia Glass, già protagonisti di altri suoi racconti, una famiglia americana media rovinata dal mito del successo.

Un romanzo che analizza nel profondo la psiche giovanile cercando di individuare le ragioni di una ribellione più profonda, che scava un fosso incolmabile tra il passato e il presente. Consigliato a chi considera insignificante, minuscolo e deprimente tutto quello che lo circonda, Franny diventerà lo specchio della propria sofferenza interiore.

“Franny respirò adagio, continuando a tenere l’orecchio appoggiato al ricevitore. Il segnale di libero, naturalmente, seguì la fine della comunicazione; e Franny parve considerarlo bellissimo da ascoltare, quasi fosse il miglior surrogato possibile del silenzio primevo.”

Serena Votano

 

“Quer pasticciaccio brutto” del quartiere Avignone

Ha scosso l’opinione pubblica la notizia, risalente ormai dadiversi giorni fa, della demolizione di un palazzo residenziale risalente circa al finire del ‘700, situato nei pressi della via Cesare Battisti, in quello che, nella toponomastica della città pre-terremoto, era il Quartiere Avignone. Questo antico quartiere, conosciuto nell’800 come uno dei più poveri e disagiati della città di Messina (non a caso punto di partenza della predicazione e delle opere caritatevoli di padre Annibale Maria di Francia), pare essere destinato periodicamente a tornare al centro di controversie accanite: e di fatto, la notizia di cui sopra ha aperto un autentico vaso di Pandora, scatenando tante e tali reazioni confuse e confusionarie da creare un inestricabile groviglio, un “pasticciaccio brutto” degno forse della penna di Carlo Emilio Gadda (da cui l’improvvida citazione del titolo, della quale ci scusiamo col defunto scrittore), e nel quale risulta difficile fare chiarezza.

Ci proviamo, senza nessuna pretesa, solo per dare l’idea ai lettori meno informati. Nel primo pomeriggio dell’8 gennaio, le ruspe entrano in azione distruggendo ciò che resta del palazzo; vengono interrotte successivamente dall’intervento della polizia municipale. Alcune ore dopo, l’Assessore all’Urbanistica De Cola comunica, in una nota, le sue perplessità circa l’accaduto: le demolizioni sarebbero state infatti intraprese senza che il Comune di Messina le avesse autorizzate, come testimoniato dall’assenza, sul sito dei lavori, del regolare cartello. Interviene anche la Soprintendenza, disponendo il blocco dei lavori che sarebbero avvenuti senza che ne fosse data comunicazione. Dulcis in fundo, il giorno successivo arrivano le caustiche dichiarazioni del neoassessore regionale Vittorio Sgarbi, il quale tuona, dall’alto della sua autorità, di aver “cacciato” il soprintendente di Messina, reo di non aver vincolato il palazzo in questione. Da precisare che il soprintendente non è stato cacciato (né del resto sarebbe possibile, in così poco tempo),e che lo stesso Sgarbi ha successivamente corretto il tiro dicendo che non c’è stata nessuna rimozione dall’incarico per il funzionario, e che sarebbero invece stati inviati degli ispettori per indagare sull’accaduto.

 

Va anche specificato a scopo di chiarezza che il palazzo in questione è da tempo al centro di una
disputa giudiziaria, che vede coinvolti da un lato i proprietari dell’immobile e dall’altro quelli dei
terreni circostanti, per cui la sua demolizione sarebbe già stata disposta dai magistrati per
questioni di sicurezza.
Pare oltretutto che la demolizione in questione fosse tutt’altro che una sorpresa: era stata
preventivata già nel 2013 da una ditta edilizia messinese, che avrebbe dovuto costruire, al posto
dell’edificio storico, un grande palazzo a 22 piani (comprendente tra l’altro nel progetto una
ricostruzione per anastilosi della facciata originale).

Tali lavori sarebbero stati regolarmente autorizzati dalla Soprintendenza (!), a patto appunto di
preservare la facciata originale e di effettuare la debita comunicazione per tempo all’inizio delle
demolizioni: cosa, quest’ultima, che pare non essere avvenuta giorno 8, da cui il blocco dei lavori.
Da precisare oltretutto che i lavori sono stati approvati da un Soprintendente diverso da quello
attuale, il che rende dunque la boutade di Sgarbi del tutto inopportuna. Il progetto in questione,
approvato come già detto dalla Soprintendenza nel 2013, aveva trovato l’opposizione della
passata amministrazione comunale; la ditta aveva quindi fatto ricorso al TAR lo stesso anno, ma il
Comune non si era presentato.

Alla luce dei fatti dunque, la questione della demolizione, priva di quel carattere di “scandalo” che
tanta stampa locale non ha esitato a darle, diventa dunque una sorta di disastro annunciato,
assistito e passivamente lasciato accadere; e i suoi risvolti si colorano di tinte quasi grottesche, da
teatro dell’assurdo.
Ma se all’assurdità lo spettatore della cronaca messinese dovrebbe forse (purtroppo) essere
abituato, quella che colpisce è l’ipocrisia malcelata dei tanti indignati della prima ora: gente che
fino al giorno prima probabilmente ignorava addirittura l’esistenza di questo piccolo angolo di
Messina storica che è andato in polvere, gente che non ha mosso né fatto muovere un dito per la sua valorizzazione o il suo restauro (e lo testimoniano le condizioni di totale abbandono in cui
l’immobile versava prima della demolizione), adesso è in prima fila a strapparsi le vesti e piangere
sul latte versato.

Tutti pronti ad ergersi a paladini del patrimonio culturale messinese, ma solo
quando si tratta di lamentarne la perdita; quando si tratta di conservarlo, difenderlo, farlo
conoscere, rivendicarne l’appartenenza a nome dell’intera comunità messinese, al solito nessuno
si presenta. E se John Lennon cantava, in una sua canzone, che “tutti ti amano, quando sei sei
piedi sotto terra”, allora è forse vero che a Messina bisogna attendere che la Storia muoia, prima di
trovare qualcuno che la ami.

Gianpaolo Basile

Seta di Alessandro Baricco

È nelle storie apparentemente più semplici e lineari che si nascondono i messaggi più significativi, quelli che non hanno bisogno di migliaia di pagine per essere raccontati o di infiniti guazzabugli di parole per essere spiegati.
Sono quelle storie che possono immediatamente proiettarci dentro la loro realtà diventando così perfette ed indimenticabili, oppure rimanere a noi sterili e senza significato alcuno, tranne quello di usarne qualche frase come didascalia di una foto su Instagram.

“Hervé Joncour aveva 32 anni. Comprava e vendeva. Bachi da seta.”

Così inizia la narrazione, una statica descrizione di quella che è la trama di tutto il libro, la vita di un giovane che all’età di 32 anni abbandona la lungimirante carriera militare pianificatagli dal padre e, su consiglio di un amico fraterno, diventa un commerciante di bachi da seta. Tutto nel paese di Lavilledieu ruota attorno al processo di lavorazione della seta e la sua vendita è diventata ormai la forma di sostentamento più importante per gli abitanti del posto, finché un’improvvisa epidemia non rende inutilizzabili le uova dei bachi provenienti dagli allevamenti europei.
È proprio per questo motivo che Hervé decide di intraprendere una serie di lunghi e pericolosi viaggi in Giappone alla ricerca di un nuovo fornitore che permetta di mantenere a galla la martoriata economia di Lavilledieu, ma sarà proprio durante questi viaggi che vivrà le esperienze più profonde e complesse della propria vita, esperienze che lo metteranno difronte ad una scelta esistenziale rendendolo in fine una persona diversa.

La figura di Hervé rappresenta perfettamente il concetto di uomo moderno. Giovane, con una moglie che lo ama ed un lavoro ben retribuito alla spalle, ma ciononostante insoddisfatto della sua vita, sempre pronto ad inseguire un obiettivo distante ed incerto, a rischiare tutto per riuscire ad acciuffare un futuro, o meglio un amore, impalpabile ed indefinito.
I suoi continui viaggi di lavoro in Giappone, sempre perfettamente pianificati in ogni minimo dettaglio, si trasformano in una fuga del protagonista dalla sua monotona realtà quotidiana, in un tentativo di rifugiarsi in un mondo nuovo, sconosciuto ed onirico fatto di sospiri, sensazioni e sguardi fugaci, in cui poter riscoprire se stesso come un uomo nuovo.

“…E con cura fermò il Tempo, per tutto il tempo che desiderò”

Come in ogni libro di Baricco, anche in “Seta” risulta fondamentale sapersi perdere nel testo, non concentrarsi troppo sulle parole o sulla costruzione dei periodi, ma piuttosto soffermarsi su ciò che quelle poche parole cercano di evocare in chi le legge.
Si deve andare alla ricerca di un qualcosa che sembra essere nascosto dal più fitto e oscuro degli enigmi, ma che alla fine troviamo a pochi passi da noi, illuminato da una luce che prima sembrava non esserci.

È proprio questa la storia di Hervé Joncour, un uomo che vagava per il mondo in cerca di una dimensione in cui trovarsi a suo agio, di un amore che lo facesse sentire davvero vivo, ma che in realtà non riusciva a vedere come tutto ciò che egli stava inseguendo follemente lo aveva già ottenuto, mentre ciò da cui non riusciva a distogliere il suo sguardo era in realtà un’illusione effimera, che sfuggiva dalle sue mani proprio come fa la morbida seta.

“Ogni tanto, nelle giornate di vento, scendeva fino al lago e passava ore e guardarlo, giacché, disegnato sull’acqua, gli pareva di vedere l’inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita.”

 

Giorgio Muzzupappa

Ferry Boat e Parole in libertà. La linea futurista di Marinetti lungo lo stretto di Messina

Il Futuro sopravvenuto è il titolo della mostra di pittura che la scorsa primavera ha fatto parlare di sé sotto il cielo di Taormina. Una settantina di opere provenienti da alcune importanti collezioni internazionali racchiuse in un’esposizione che comprendeva i nomi cardine dell’avanguardia italiana da Umberto Boccioni a Giacomo Balla, Carlo Carrà e Gino Severini. Opportunità per ripensare, una volta di più, al sottile legame intercorso tra l’esplosiva creatura nata nella mente di Filippo Tommaso Marinetti e la città dello stretto.

Accostamento singolare, obietteranno alcuni. Nessuna Milano opulenta e industriale, e nessuna Parigi dei Cafè; nessun mito della grande metropoli accesa dalle illuminazioni della dirompente elettricità e percorsa dal ritmo frenetico delle automobili imbizzarrite e dal dominio del rumore, che, come sosteneva Luigi Russolo (musicista, inventore dell’Intonarumori), avrebbe dovuto annientare il silenzio della vita antica; il passato rappresentato dalle biblioteche e dalle “città di Podagra” superato dall’uomo-macchina e dal volo dell’areo, in grado di rivoluzionare la prospettiva inaugurando la nuova aeropittura. Sono gli anni che seguirono al terremoto con una città ridotta a macerie e villaggio di baracche. Perché allora Marinetti, e perché parlare di Messina?

In realtà proprio l’immagine della rovinosa catastrofe era lo slogan che il futurismo in quegli anni auspicava attraverso l’assioma propagato nei Manifesti della guerra sola igiene del mondo. Messina divenne allora per il fondatore del futurismo un trampolino di lancio, un’occasione per mettere a punto il suo desiderio di drastico, totale rinnovamento. A conferma ci sono le parole dello stesso Marinetti nel ’13 su L’Avvenire: “Messina simboleggia perfettamente il futurismo cioè la volontà indomabile dell’uomo che affronta e sfida tutte le forze coalizzate della natura senza rimpianti senza dubbi, senza nostalgie”. E riuniti intorno alla Balza Futurista nel ‘15 si mossero Guglielmo Jannelli, Luciano Nicastro e Giovanni Antonio Di Giacomo (che insegnò all’università di Messina), intellettuali e poeti siciliani che ebbero rapporti ravvicinati con il movimento. La rivista che essi fondarono si tramutò per qualche tempo, dopo l’abbandono de Lacerba di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, nell’organo ufficiale di pubblicazione dei fogli futuristi. Il principale mezzo di stampa su cui l’avanguardia poggiava.

L’avventura della Balza Futurista ebbe una parabola breve; la pubblicazione si limitò a soli tre numeri, usciti dall’aprile al maggio del 1915. Alle soglie dell’entrata in guerra una disposizione della città di Messina ordinò infatti la soppressione di tutti i periodici, e tra questi anche la “Balza” fondata a Ragusa. La sua esistenza, eppure, consumata in un piccolo lasso di tempo, offrì una rilevante voce di supporto ai contributi del movimento avanguardista che si irradiò nell’isola, indicativo delle sue contraddizioni e difformità interne. I fogli della Balza Futurista si aprirono ad apporti che mostrarono inclinazioni e angolazioni personali, in certi casi distanti e trasgressive rispetto all’ortodossia futurista. Il quindicinale accolse il poeta Corrado Govoni e gli interventi di Fortunato Depero (a cui è stata recentemente dedicata un’altra mostra al Museo Regionale di Messina). L’attenzione alla nuova estetica paroliberista e al simbolo alfabetico nella compagine visiva si affiancò così alla fede irredentista e allo sforzo di orientare gli animi verso il conflitto mondiale. La Balza ospitò nelle sue pagine interventi di Marinetti, e tra questi, anche una curiosa missiva interventista indirizzata Agli studenti futuristi. Il suo fondatore Di Giacomo “Vann’Antò”, docente di Tradizioni popolari a Messina, entrò in contatto con Salvatore Quasimodo. E fu proprio nel solco dell’amicizia nata con Giorgio La Pira, Salvatore Pugliatti e con intellettuali che ebbero frequenti incursioni nella città che si formò la “brigata” di un manifesto dell’ermetismo; la poesia Vento a Tindari di Quasimodo.

La Messina futurista si può facilmente percorrere a piedi e osservare nelle architetture di alcuni famosi luoghi cittadini. I principali vertici di snodo delle comunicazioni dello stretto ne sono simbolo d’eccellenza. Ci riferiamo alla Stazione Centrale e alla Stazione Marittima, entrambe opere di Angiolo Mazzoni. Con l’ingegnere bolognese (che ha realizzato anche il colossale Palazzo delle Poste di Palermo in via Roma) Marinetti nel 1934 stilò il Manifesto dell’Architettura aerea. Dentro la Stazione Marittima, dominata da una linea imponente e da grandi spazi interni, al primo piano è ancora visibile il mosaico (omaggio evidentemente all’arte bizantina in Sicilia) del ventennio fascista con una raffigurazione gigantesca del Duce. Mazzoni prima di progettarla inviò al Direttore Generale delle Ferrovie dello stato una lettera in cui scriveva: “tale composizione dovrebbe riprodurre, con figurazioni allegoriche, il discorso di Palermo con il quale S. E. il Capo del Governo (Benito Mussolini, ndr) elevava la Sicilia all’onere di essere il Centro dell’Impero”. Dopo la costruzione della rampa esterna, il salone decorato è oggi escluso tuttavia dall’itinerario del viaggiatore che si imbarca per attraversare lo stretto. Restando nei territori dell’arte fiore all’occhiello del futurismo messinese è l’opera di Giulio D’Anna, grande interprete dell’aeropittura siciliana. Sua la tela Aerei in volo sull’Etna dove, sopra il vulcano in eruzione e la sua energia “colorificio del cielo”, secondo la definizione di Marinetti, svettano gli aerei sul mare, immagine del dinamismo e della modernità.

Per completare il nostro viaggio è allo stesso tempo suggestivo rintracciare i riferimenti lasciati da Marinetti su Messina e sparsi in diversi suoi scritti. Zang Tumb Tumb è la più importante opera letteraria futurista, emblema delle teorie sulle parole in libertà espresse nel Manifesto Tecnico del 1912. Si tratta di un poemetto ispirato all’assedio di Adrianopoli e costituito da elementi grafici disparati, e da svariati caratteri tipografici, con un trionfo di onomatopee e frasi caratterizzate dall’abolizione dei nessi sintattici. L’inventore del futurismo ad un certo punto descrive, a suo modo, con le parole in libertà, l’attraversamento dello stretto sotto la luce della luna: “punzecchiato dal sale marino aromatizzato dagli aranci cercare mare mare mare (…) Villa San Giovanni cattura + pesca + ingoiamento del treno-pescecane immagliarlo spingerlo nel ferry-boat balena partenza della stazione galleggiante”. Ma è in un’altra opera di Filippo Tommaso Marinetti, approdo finale dell’ideologia del futurismo, quando l’Impero austro-ungarico è sconfitto, l’Alcova D’Acciaio del 1921, che il rapporto viene in definitiva suggellato attraverso l’immagine di un’avanguardia come vento di rigenerazione. Il vento a cui pensa l’autore è quello di Sicilia: “Tre venti animano intanto sullo stretto di Messina, venti tra Messina e Siracusa”, nel quale c’è probabilmente anche l’omaggio alla triade della Balza Futurista di Jannelli, Nicastro e Di Giacomo.

Eulalia Cambria

Image credits:

1. Pippo Rizzo, Regata a Mondello, Olio su tela, 35 x 92
2. Giulio D’Anna, Aerei in volo sull’Etna, 1933, olio e tecnica mista su tavola cm. 67 X 73