Dieci racconti, dieci punti di vista sulla città. “Cara Messina ti scrivo…”

Attribuire il valore ad una città servendosi della scrittura. Giovanni Pascoli, citato ad apertura del volumetto, diceva: “dove è quasi distrutta la storia resta la poesia”.

In questi dieci racconti che si susseguono a guisa di snodi di un’unica, fondamentale, rappresentazione, drammatica e dialettica, della vicenda umana, le trame si organizzano per dare tutte risalto ai diversi modi di percepire l’ambiente in cui si muove affannosa l’esistenza.

Pubblicata nel 2013 per La Feluca Edizioni, casa editrice fondata dai fratelli Buttafarro, la raccolta miscellanea è articolata secondo un principio cronologico che parte da un quotidiano familiare e risale alle cronache perdute nelle macerie dei violenti terremoti fino a sconfinare nel mito di un lontano passato. Dieci scrittori di Messina convogliano la fantasia per offrire materia verbale ai pensieri e le memorie che agitano coloro che vivono o ritornano da lei. “Se questa città davvero la sia ama, bisogna avere l’animo di non abbandonarla al suo destino” afferma nella prefazione Giuseppe Ruggeri. Inseguendo tale desiderio si sviluppa Cara Messina ti scrivo... Gli scrittori, molti professionisti, insegnanti e medici, hanno dedicato ciascuno un tassello per restituire l’amore che li lega alla città. Non è un caso che queste sponde appaiano fin dall’atto di nascita di tutte le letterature, dalla vedetta dell’albero maestro della nave di Odisseo, un tutt’uno con la parola e il canto, e che Messina sia stata scelta da numerosi scrittori, in epoche più o meno vicine ai giorni nostri, come un faro che stringe nel suo abbraccio il prodigio di una natura affascinante e catastrofica.

Ad un tavolo all’aperto dell’Irrera, di metallo, con intorno quattro sedie pure di metalo, come si usava nei bar, un ragazzo ed una ragazza gustavano, con studiata lentezza, quasi a prolungarne il soave piacere, una “mezza caffè con panna” con la brioche calda e fragrante.  (Sogno … un mattino d’estate -P. Russo)

M. De Domenico, “Miele a Messina”, omaggio per la mostra di Milo Manara a Etnacomics ’14

Dietro ai racconti che l’antologia mette insieme si raccolgono storie che guardano indietro. Ci sono ferite che non si rimarginano, errori, compagnie di gioventù,  ricordi degli attimi andati, insieme ai gesti del presente, disseminati nei reticoli della planimetria cittadina. Anche la costa e gli schizzi delle onde del mare risalgono come elementi di un sogno e le calamità naturali, la pioggia e il sale della marina in estate sono un’eco nei passi dei suoi abitanti.

Michela De Domenico, “menza ca’ panna”

Così da un quadro intimo di vita familiare, in una sonnacchiosa camera assolata (“è tempo di sale sulla pelle, da leccare via furtivamente da una spalla o dal dorso di una mano, per sentire il sapore del mare che ci scorre nelle vene”) dopo una mattina in spiaggia in Piedi Grandi di Patrizia Vicari, la scena si sposta in un casolare dove è stato compiuto un delitto dai contorni indefiniti, descritto attraverso i tarli del protagonista che ritrova a Messina i legami di una antica amicizia nel racconto Quella sera nel bosco di Giuseppe Ruggeri. Il mare è poi il centro nella storia di Emilia Celi, Micia Stidda, figghia di lu mari, in cui una donna, innamorata della sua terra, si oppone alla costruzione del ponte: “e le spiagge, cosa ne sarà delle spiagge? Ci ha pensato? E i grandi pesci, che cercano le isole per andarci a fare l’amore cosa faranno quando l’ombra del ponte attraverserà l’acqua come un muro, portandole via la luce del sole?”. Di richiami sensuali si veste la scrittura preziosa di Incontro di Lino Soraci a cui fa da sfondo la tangenziale autostradale nel suo punto più panoramico: “per lenire lo sconforto procurategli dalle presenti miserie, prese a fantasticare sulla selvaggia bellezza con la quale la Sicilia doveva essere apparsa ai primi colonizzatori greci che vi avrebbero in seguito fondato città e templi bellissimi”.  Teenager protagonisti e motivi fantasy si trovano in Un desiderio per Messina di Elisabetta Venuti in cui una ragazza del Maurolico sogna di vedere rinascere Messina con una magia che tuttavia non offrirà i risultati attesi.

Per quella notte, l’occulta regia dello straordinario spettacolo di luci ed acqua dello Stretto aveva deciso di andare in scena nella versione da lui prediletta: mare piatto e nero come un rilucente piano d’ardesia sul quale scivolavano lievemente, senza lasciare spumose scie, le imbarcazioni di costante collegamento tra l’Isola e il Continete, le cui idronidamiche strutture erano appena rischiarate dal misterioso light design che una notturna e fantasiosa Fata Morgana s’ingegnava a proiettare su tutta quell’ampia veduta così naturalmente bella da sembrare, paradossalmente, un finto fondale di tela dipinto a mano da un esperto scenografo per le riprese di un film-kolossal. (Incontro – L. Soraci)

Michela De Domenico, “tomba del marinaio”

Ne Il viaggio del rimpianto di Vincenzo Ragno il pegno verso la propria città viene pagato nel modo più tragico. Maldicenze e peccati di gioventù si ritagliano uno spazio tra i fuochi d’artificio e la festa della Vara. Ancora il passato e la nuova conformazione della città a distanza di anni appaiono nel racconto Sogno… un mattino d’estate di Pasquale Russo. Un uomo si addormenta e immagina di essere ancora ragazzo, a bordo della sua utilitaria insieme alla compagna che sarebbe rimasta accanto a lui una vita, mentre percorrono il litorale: “Meta, le montagne di sabbia di Capo Rasocolmo. Si erano premuniti indossando i costumi da bagno sotto i vestiti. La ‘500 correva ed il vento caldo scompigliava i loro capelli, mentre si baciavano liberi e felici nel raggiante splendore della loro giovinezza e nella luce dei loro sogni”. Una vera e propria sezione a parte è costituita dai racconti che parlano del terremoto nei due racconti Potrebbe essere accaduto davvero di Ignazio Pandolfo e Sisma di Mario Oscar Venuti. Il primo, una narrazione divisa in tre episodi che descrive gli ultimi attimi ignari di due personaggi pochi istanti prima che la terra tremasse quel 28 dicembre del 1908 e l’approdo di una nave russa sullo Stretto. Un filo narrativo, una specie di corsa all’oro, unisce fantasiosamente l’evento sismico del 1783 e del 1908, nel secondo dei due racconti: “ un sussurro, portato dal vento, circa un patrimonio seppellito e difficilmente recuperabile rimbalza da orecchio a orecchio, di bocca in bocca, da balcone a balcone fino alla pubblica piazza”. L’ultima novella, Duello, di Alfredo Buttafarro si fa ancora più lontana, riportando, nella Messina del 1600, l’amore infelice, ma a lieto fine, di una ricca dama e un giovane, sullo sfondo dell’antica chiesa della Badiazza.

Eulalia Cambria

Un ringraziamento a Michela De Domenico per averci concesso i suoi disegni. Potete trovarne altri sù:

https://mycomicsjourney.wordpress.com

https://www.facebook.com/messinamycomicsjourney/

Celebrazioni per il 50esimo anniversario della morte di Salvatore Quasimodo.

La giornata del 14 giugno sarà fitta di eventi per le celebrazioni del 50esimo anniversario della morte del poeta e scrittore siciliano Salvatore Quasimodo.
Uno degli esponenti principali dell’ermetismo, fra le opere ricordiamo “Ed è subito sera” “Oboe sommerso” “Erato e Apollion” gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura nel 1959.

Le celebrazioni inizieranno dalla mattina a Roccalumera, dove il poeta trascorse l’infanzia, e continueranno a Messina nel pomeriggio presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” in via XXIV maggio.

A Roccalumera avrà luogo la deposizione di una corona di fiori al monumento dedicato al poeta in Piazza Quasimodo ,dopo, la cerimonia di presentazione dell’annullo filatelico speciale realizzato da Poste italiane in collaborazione con il Circolo Filatelico Peloritano.
Alle ore 11.30 si terrà il convegno “Salvatore Quasimodo: cinquant’anni dopo”.
Le celebrazioni continueranno alle 16:30 presso la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Lucio Barbera” che è anche sede dell’Archivio Quasimodo di proprietà dell’Ente.
Angela Pipitò, direttrice della Galleria d’Arte introdurrà e coordinerà i lavori.
Alle ore 17.30 verrà proiettato un filmato originale dell’assegnazione della cittadinanza onoraria a Salvatore Quasimodo nel 1960, donato all’Archivio Quasimodo dalla Famiglia Davoli e subito dopo seguirà un recital di poesie di Salvatore Quasimodo recitate dalla viva voce di Gianni Di Giacomo.

A seguire l’ inaugurazione della mostra “Gli anni di Quasimodo a Messina” un’esposizione fotografica e documentaria sulla vita e sull’attività del poeta a Messina dagli anni giovanili alla sua partecipazione all’Accademia della Scocca, con documenti originali e articoli di stampa dell’epoca provenienti dall’Archivio Quasimodo.
La mostra sarà visitabile fino al 30 giugno, dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 13 e dalle 15 alle 17.30.

 

Arianna De Arcangelis

 

 

J.D. Salinger – Franny e Zooey.

-Sono JD Salinger e ho finto di essere morto …

-Mr Salinger! Non immagina che piacere. Princess Carolyne, una sua fan

-Lasciami indovinare, Il giovane Holden?

-E gli altri naturalmente … Per esempio … Lo Hobbit? 

Bojack Horseman, seconda stagione – J.D. Salinger e Princess Carolyne.

Più o meno succede proprio questo: uno passa la vita a scrivere libri e pubblicare racconti per poi essere ricordato soltanto per un libro, proprio come dimostra questo spezzone tratto da Bojack Horseman.

È stato proprio per questo motivo che ho (finalmente) letto Franny e Zooey, un’opera in cui essenzialmente non accade nulla di concreto: la storia si divede in tre scene principali in cui si susseguono lunghissimi dialoghi che richiamano più un’opera teatrale anziché una narrativa.

Franny Glass, studentessa al college ed ex Bambina Eccezionale di una fortunata trasmissione radiofonica, non riesce più ad accettare le regole della società in cui vive e il desiderio del cambiamento nasce dopo la lettura di un anonimo libricino del XIX secolo: i “Racconti di un pellegrino russo”. In questo testo il protagonista, un pellegrino appunto, si mette alla ricerca della tecnica della preghiera incessante di cui parla la Bibbia, l’unico strumento che consentirebbe un’unione completa con Dio, cosa che affascina la giovane Franny a tal punto da decidere di percorrere la stessa strada per raggiungere uno stato di preghiera continua.

Una strada che si rivela ardua da percorrere e Franny si viene così a trovare immersa in una profonda crisi spirituale e esistenziale, da cui riuscirà ad uscire solo grazie all’aiuto del fratello maggiore Zooey, il secondo splendido protagonista di questo racconto (abbastanza simile a un certo Holden di vecchia conoscenza).
La conclusione a cui giunge la madre, comunque, vale tutto il libro:

“Non capisco proprio a cosa serva sapere tante cose ed essere tanto intelligenti e così via, se non riuscite a essere felici.”

Attraverso i dialoghi tra i due fratelli, e utilizzando la particolare tecnica dei flashback, Salinger ricostruisce una vera e propria saga familiare: la famiglia Glass, già protagonisti di altri suoi racconti, una famiglia americana media rovinata dal mito del successo.

Un romanzo che analizza nel profondo la psiche giovanile cercando di individuare le ragioni di una ribellione più profonda, che scava un fosso incolmabile tra il passato e il presente. Consigliato a chi considera insignificante, minuscolo e deprimente tutto quello che lo circonda, Franny diventerà lo specchio della propria sofferenza interiore.

“Franny respirò adagio, continuando a tenere l’orecchio appoggiato al ricevitore. Il segnale di libero, naturalmente, seguì la fine della comunicazione; e Franny parve considerarlo bellissimo da ascoltare, quasi fosse il miglior surrogato possibile del silenzio primevo.”

Serena Votano

 

“Quer pasticciaccio brutto” del quartiere Avignone

Ha scosso l’opinione pubblica la notizia, risalente ormai dadiversi giorni fa, della demolizione di un palazzo residenziale risalente circa al finire del ‘700, situato nei pressi della via Cesare Battisti, in quello che, nella toponomastica della città pre-terremoto, era il Quartiere Avignone. Questo antico quartiere, conosciuto nell’800 come uno dei più poveri e disagiati della città di Messina (non a caso punto di partenza della predicazione e delle opere caritatevoli di padre Annibale Maria di Francia), pare essere destinato periodicamente a tornare al centro di controversie accanite: e di fatto, la notizia di cui sopra ha aperto un autentico vaso di Pandora, scatenando tante e tali reazioni confuse e confusionarie da creare un inestricabile groviglio, un “pasticciaccio brutto” degno forse della penna di Carlo Emilio Gadda (da cui l’improvvida citazione del titolo, della quale ci scusiamo col defunto scrittore), e nel quale risulta difficile fare chiarezza.

Ci proviamo, senza nessuna pretesa, solo per dare l’idea ai lettori meno informati. Nel primo pomeriggio dell’8 gennaio, le ruspe entrano in azione distruggendo ciò che resta del palazzo; vengono interrotte successivamente dall’intervento della polizia municipale. Alcune ore dopo, l’Assessore all’Urbanistica De Cola comunica, in una nota, le sue perplessità circa l’accaduto: le demolizioni sarebbero state infatti intraprese senza che il Comune di Messina le avesse autorizzate, come testimoniato dall’assenza, sul sito dei lavori, del regolare cartello. Interviene anche la Soprintendenza, disponendo il blocco dei lavori che sarebbero avvenuti senza che ne fosse data comunicazione. Dulcis in fundo, il giorno successivo arrivano le caustiche dichiarazioni del neoassessore regionale Vittorio Sgarbi, il quale tuona, dall’alto della sua autorità, di aver “cacciato” il soprintendente di Messina, reo di non aver vincolato il palazzo in questione. Da precisare che il soprintendente non è stato cacciato (né del resto sarebbe possibile, in così poco tempo),e che lo stesso Sgarbi ha successivamente corretto il tiro dicendo che non c’è stata nessuna rimozione dall’incarico per il funzionario, e che sarebbero invece stati inviati degli ispettori per indagare sull’accaduto.

 

Va anche specificato a scopo di chiarezza che il palazzo in questione è da tempo al centro di una
disputa giudiziaria, che vede coinvolti da un lato i proprietari dell’immobile e dall’altro quelli dei
terreni circostanti, per cui la sua demolizione sarebbe già stata disposta dai magistrati per
questioni di sicurezza.
Pare oltretutto che la demolizione in questione fosse tutt’altro che una sorpresa: era stata
preventivata già nel 2013 da una ditta edilizia messinese, che avrebbe dovuto costruire, al posto
dell’edificio storico, un grande palazzo a 22 piani (comprendente tra l’altro nel progetto una
ricostruzione per anastilosi della facciata originale).

Tali lavori sarebbero stati regolarmente autorizzati dalla Soprintendenza (!), a patto appunto di
preservare la facciata originale e di effettuare la debita comunicazione per tempo all’inizio delle
demolizioni: cosa, quest’ultima, che pare non essere avvenuta giorno 8, da cui il blocco dei lavori.
Da precisare oltretutto che i lavori sono stati approvati da un Soprintendente diverso da quello
attuale, il che rende dunque la boutade di Sgarbi del tutto inopportuna. Il progetto in questione,
approvato come già detto dalla Soprintendenza nel 2013, aveva trovato l’opposizione della
passata amministrazione comunale; la ditta aveva quindi fatto ricorso al TAR lo stesso anno, ma il
Comune non si era presentato.

Alla luce dei fatti dunque, la questione della demolizione, priva di quel carattere di “scandalo” che
tanta stampa locale non ha esitato a darle, diventa dunque una sorta di disastro annunciato,
assistito e passivamente lasciato accadere; e i suoi risvolti si colorano di tinte quasi grottesche, da
teatro dell’assurdo.
Ma se all’assurdità lo spettatore della cronaca messinese dovrebbe forse (purtroppo) essere
abituato, quella che colpisce è l’ipocrisia malcelata dei tanti indignati della prima ora: gente che
fino al giorno prima probabilmente ignorava addirittura l’esistenza di questo piccolo angolo di
Messina storica che è andato in polvere, gente che non ha mosso né fatto muovere un dito per la sua valorizzazione o il suo restauro (e lo testimoniano le condizioni di totale abbandono in cui
l’immobile versava prima della demolizione), adesso è in prima fila a strapparsi le vesti e piangere
sul latte versato.

Tutti pronti ad ergersi a paladini del patrimonio culturale messinese, ma solo
quando si tratta di lamentarne la perdita; quando si tratta di conservarlo, difenderlo, farlo
conoscere, rivendicarne l’appartenenza a nome dell’intera comunità messinese, al solito nessuno
si presenta. E se John Lennon cantava, in una sua canzone, che “tutti ti amano, quando sei sei
piedi sotto terra”, allora è forse vero che a Messina bisogna attendere che la Storia muoia, prima di
trovare qualcuno che la ami.

Gianpaolo Basile

Seta di Alessandro Baricco

È nelle storie apparentemente più semplici e lineari che si nascondono i messaggi più significativi, quelli che non hanno bisogno di migliaia di pagine per essere raccontati o di infiniti guazzabugli di parole per essere spiegati.
Sono quelle storie che possono immediatamente proiettarci dentro la loro realtà diventando così perfette ed indimenticabili, oppure rimanere a noi sterili e senza significato alcuno, tranne quello di usarne qualche frase come didascalia di una foto su Instagram.

“Hervé Joncour aveva 32 anni. Comprava e vendeva. Bachi da seta.”

Così inizia la narrazione, una statica descrizione di quella che è la trama di tutto il libro, la vita di un giovane che all’età di 32 anni abbandona la lungimirante carriera militare pianificatagli dal padre e, su consiglio di un amico fraterno, diventa un commerciante di bachi da seta. Tutto nel paese di Lavilledieu ruota attorno al processo di lavorazione della seta e la sua vendita è diventata ormai la forma di sostentamento più importante per gli abitanti del posto, finché un’improvvisa epidemia non rende inutilizzabili le uova dei bachi provenienti dagli allevamenti europei.
È proprio per questo motivo che Hervé decide di intraprendere una serie di lunghi e pericolosi viaggi in Giappone alla ricerca di un nuovo fornitore che permetta di mantenere a galla la martoriata economia di Lavilledieu, ma sarà proprio durante questi viaggi che vivrà le esperienze più profonde e complesse della propria vita, esperienze che lo metteranno difronte ad una scelta esistenziale rendendolo in fine una persona diversa.

La figura di Hervé rappresenta perfettamente il concetto di uomo moderno. Giovane, con una moglie che lo ama ed un lavoro ben retribuito alla spalle, ma ciononostante insoddisfatto della sua vita, sempre pronto ad inseguire un obiettivo distante ed incerto, a rischiare tutto per riuscire ad acciuffare un futuro, o meglio un amore, impalpabile ed indefinito.
I suoi continui viaggi di lavoro in Giappone, sempre perfettamente pianificati in ogni minimo dettaglio, si trasformano in una fuga del protagonista dalla sua monotona realtà quotidiana, in un tentativo di rifugiarsi in un mondo nuovo, sconosciuto ed onirico fatto di sospiri, sensazioni e sguardi fugaci, in cui poter riscoprire se stesso come un uomo nuovo.

“…E con cura fermò il Tempo, per tutto il tempo che desiderò”

Come in ogni libro di Baricco, anche in “Seta” risulta fondamentale sapersi perdere nel testo, non concentrarsi troppo sulle parole o sulla costruzione dei periodi, ma piuttosto soffermarsi su ciò che quelle poche parole cercano di evocare in chi le legge.
Si deve andare alla ricerca di un qualcosa che sembra essere nascosto dal più fitto e oscuro degli enigmi, ma che alla fine troviamo a pochi passi da noi, illuminato da una luce che prima sembrava non esserci.

È proprio questa la storia di Hervé Joncour, un uomo che vagava per il mondo in cerca di una dimensione in cui trovarsi a suo agio, di un amore che lo facesse sentire davvero vivo, ma che in realtà non riusciva a vedere come tutto ciò che egli stava inseguendo follemente lo aveva già ottenuto, mentre ciò da cui non riusciva a distogliere il suo sguardo era in realtà un’illusione effimera, che sfuggiva dalle sue mani proprio come fa la morbida seta.

“Ogni tanto, nelle giornate di vento, scendeva fino al lago e passava ore e guardarlo, giacché, disegnato sull’acqua, gli pareva di vedere l’inspiegabile spettacolo, lieve, che era stata la sua vita.”

 

Giorgio Muzzupappa

Ferry Boat e Parole in libertà. La linea futurista di Marinetti lungo lo stretto di Messina

Il Futuro sopravvenuto è il titolo della mostra di pittura che la scorsa primavera ha fatto parlare di sé sotto il cielo di Taormina. Una settantina di opere provenienti da alcune importanti collezioni internazionali racchiuse in un’esposizione che comprendeva i nomi cardine dell’avanguardia italiana da Umberto Boccioni a Giacomo Balla, Carlo Carrà e Gino Severini. Opportunità per ripensare, una volta di più, al sottile legame intercorso tra l’esplosiva creatura nata nella mente di Filippo Tommaso Marinetti e la città dello stretto.

Accostamento singolare, obietteranno alcuni. Nessuna Milano opulenta e industriale, e nessuna Parigi dei Cafè; nessun mito della grande metropoli accesa dalle illuminazioni della dirompente elettricità e percorsa dal ritmo frenetico delle automobili imbizzarrite e dal dominio del rumore, che, come sosteneva Luigi Russolo (musicista, inventore dell’Intonarumori), avrebbe dovuto annientare il silenzio della vita antica; il passato rappresentato dalle biblioteche e dalle “città di Podagra” superato dall’uomo-macchina e dal volo dell’areo, in grado di rivoluzionare la prospettiva inaugurando la nuova aeropittura. Sono gli anni che seguirono al terremoto con una città ridotta a macerie e villaggio di baracche. Perché allora Marinetti, e perché parlare di Messina?

In realtà proprio l’immagine della rovinosa catastrofe era lo slogan che il futurismo in quegli anni auspicava attraverso l’assioma propagato nei Manifesti della guerra sola igiene del mondo. Messina divenne allora per il fondatore del futurismo un trampolino di lancio, un’occasione per mettere a punto il suo desiderio di drastico, totale rinnovamento. A conferma ci sono le parole dello stesso Marinetti nel ’13 su L’Avvenire: “Messina simboleggia perfettamente il futurismo cioè la volontà indomabile dell’uomo che affronta e sfida tutte le forze coalizzate della natura senza rimpianti senza dubbi, senza nostalgie”. E riuniti intorno alla Balza Futurista nel ‘15 si mossero Guglielmo Jannelli, Luciano Nicastro e Giovanni Antonio Di Giacomo (che insegnò all’università di Messina), intellettuali e poeti siciliani che ebbero rapporti ravvicinati con il movimento. La rivista che essi fondarono si tramutò per qualche tempo, dopo l’abbandono de Lacerba di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, nell’organo ufficiale di pubblicazione dei fogli futuristi. Il principale mezzo di stampa su cui l’avanguardia poggiava.

L’avventura della Balza Futurista ebbe una parabola breve; la pubblicazione si limitò a soli tre numeri, usciti dall’aprile al maggio del 1915. Alle soglie dell’entrata in guerra una disposizione della città di Messina ordinò infatti la soppressione di tutti i periodici, e tra questi anche la “Balza” fondata a Ragusa. La sua esistenza, eppure, consumata in un piccolo lasso di tempo, offrì una rilevante voce di supporto ai contributi del movimento avanguardista che si irradiò nell’isola, indicativo delle sue contraddizioni e difformità interne. I fogli della Balza Futurista si aprirono ad apporti che mostrarono inclinazioni e angolazioni personali, in certi casi distanti e trasgressive rispetto all’ortodossia futurista. Il quindicinale accolse il poeta Corrado Govoni e gli interventi di Fortunato Depero (a cui è stata recentemente dedicata un’altra mostra al Museo Regionale di Messina). L’attenzione alla nuova estetica paroliberista e al simbolo alfabetico nella compagine visiva si affiancò così alla fede irredentista e allo sforzo di orientare gli animi verso il conflitto mondiale. La Balza ospitò nelle sue pagine interventi di Marinetti, e tra questi, anche una curiosa missiva interventista indirizzata Agli studenti futuristi. Il suo fondatore Di Giacomo “Vann’Antò”, docente di Tradizioni popolari a Messina, entrò in contatto con Salvatore Quasimodo. E fu proprio nel solco dell’amicizia nata con Giorgio La Pira, Salvatore Pugliatti e con intellettuali che ebbero frequenti incursioni nella città che si formò la “brigata” di un manifesto dell’ermetismo; la poesia Vento a Tindari di Quasimodo.

La Messina futurista si può facilmente percorrere a piedi e osservare nelle architetture di alcuni famosi luoghi cittadini. I principali vertici di snodo delle comunicazioni dello stretto ne sono simbolo d’eccellenza. Ci riferiamo alla Stazione Centrale e alla Stazione Marittima, entrambe opere di Angiolo Mazzoni. Con l’ingegnere bolognese (che ha realizzato anche il colossale Palazzo delle Poste di Palermo in via Roma) Marinetti nel 1934 stilò il Manifesto dell’Architettura aerea. Dentro la Stazione Marittima, dominata da una linea imponente e da grandi spazi interni, al primo piano è ancora visibile il mosaico (omaggio evidentemente all’arte bizantina in Sicilia) del ventennio fascista con una raffigurazione gigantesca del Duce. Mazzoni prima di progettarla inviò al Direttore Generale delle Ferrovie dello stato una lettera in cui scriveva: “tale composizione dovrebbe riprodurre, con figurazioni allegoriche, il discorso di Palermo con il quale S. E. il Capo del Governo (Benito Mussolini, ndr) elevava la Sicilia all’onere di essere il Centro dell’Impero”. Dopo la costruzione della rampa esterna, il salone decorato è oggi escluso tuttavia dall’itinerario del viaggiatore che si imbarca per attraversare lo stretto. Restando nei territori dell’arte fiore all’occhiello del futurismo messinese è l’opera di Giulio D’Anna, grande interprete dell’aeropittura siciliana. Sua la tela Aerei in volo sull’Etna dove, sopra il vulcano in eruzione e la sua energia “colorificio del cielo”, secondo la definizione di Marinetti, svettano gli aerei sul mare, immagine del dinamismo e della modernità.

Per completare il nostro viaggio è allo stesso tempo suggestivo rintracciare i riferimenti lasciati da Marinetti su Messina e sparsi in diversi suoi scritti. Zang Tumb Tumb è la più importante opera letteraria futurista, emblema delle teorie sulle parole in libertà espresse nel Manifesto Tecnico del 1912. Si tratta di un poemetto ispirato all’assedio di Adrianopoli e costituito da elementi grafici disparati, e da svariati caratteri tipografici, con un trionfo di onomatopee e frasi caratterizzate dall’abolizione dei nessi sintattici. L’inventore del futurismo ad un certo punto descrive, a suo modo, con le parole in libertà, l’attraversamento dello stretto sotto la luce della luna: “punzecchiato dal sale marino aromatizzato dagli aranci cercare mare mare mare (…) Villa San Giovanni cattura + pesca + ingoiamento del treno-pescecane immagliarlo spingerlo nel ferry-boat balena partenza della stazione galleggiante”. Ma è in un’altra opera di Filippo Tommaso Marinetti, approdo finale dell’ideologia del futurismo, quando l’Impero austro-ungarico è sconfitto, l’Alcova D’Acciaio del 1921, che il rapporto viene in definitiva suggellato attraverso l’immagine di un’avanguardia come vento di rigenerazione. Il vento a cui pensa l’autore è quello di Sicilia: “Tre venti animano intanto sullo stretto di Messina, venti tra Messina e Siracusa”, nel quale c’è probabilmente anche l’omaggio alla triade della Balza Futurista di Jannelli, Nicastro e Di Giacomo.

Eulalia Cambria

Image credits:

1. Pippo Rizzo, Regata a Mondello, Olio su tela, 35 x 92
2. Giulio D’Anna, Aerei in volo sull’Etna, 1933, olio e tecnica mista su tavola cm. 67 X 73

Messina nelle parole di Giovanni Boccaccio

Non ci sono testimonianze scritte del passaggio da Messina di Giovanni Boccaccio, ma le tracce che l’autore lasciò dedicate o riferite alla città dello Stretto, fanno supporre alla fantasia che, almeno una volta nella vita, Boccaccio abbia conosciuto la realtà cittadina messinese.
I lasciti boccacceschi inerenti a Messina sono due, uno meno famoso dell’altro ma, comunque, assolutamente indicativi.
Siamo nella metà del 1300 e Giovanni Boccaccio, toscano di Certaldo, borgo appartenente, oggi, alla provincia di Firenze, era figlio di un mercante, il quale, lo portò con sé sin dalla tenera età, momento, a partire dal quale, il piccolo Giovanni ebbe modo di conoscere quasi tutti i principali porti mercantili italiani.
Queste esperienze gli torneranno utilissime quando, tra gli anni ’40 e ’50 del 1300, l’autore scriverà il Decameron, una raccolta di novelle che costituisce, per la Storia, il primo modello di “romanzo” della borghesia (che all’epoca era una classe nascente seppur non ancora esistente) e rappresenta l’unica opera linguisticamente “poliglotta” (data la presenza di numerosi dialetti diversi).
Tra le tante storie, spicca quella di “Lisabetta da Messina”, ambientata in una città dello Stretto che, all’epoca, era un centro mercantile che riuniva diverse comunità di naviganti-mercanti: in quella Messina si trovavano tutti gli avventurieri e i commercianti figli delle tante Repubbliche Marinare (sarà una costante sino a quasi tutto il 1500, come abbiamo trattato in precedenza, nel caso di Scipione Cigala) e, tra questi, di origine pisana, vi era anche la famiglia di Lisabetta.
La storia è caratterizzata da un amore osteggiato, sofferto e terminato in tragedia (e queste potrebbero essere già le sfumature di una moderna commedia siciliana), con Lisabetta che, in sogno, ritrova l’innamorato scoparso, il quale le rivela di essere stato ucciso dai fratelli di lei che, dopo, lo hanno seppellito in un bosco. La ragazza si reca sul luogo del delitto, riesuma il corpo dell’amato e ne mozza la testa che conserva in un vaso di basilico sul quale piangerà per giorni e giorni. Quando i fratelli scoprono il motivo dello strano comportamento della fanciulla e sradicano la pianta dal vaso, trovando così l’infelice contenuto, lasciano la città per paura di sfuggevoli pettegolezzi.
Di quella Messina, inutile dirlo, non rimane più nessuna testimonianza; sembra, piuttosto, una città diversissima da quella odierna, i cui fervori mercantili e cosmopoliti non animano più il quotidiano messinese e neppure ci son più comunità mercantili straniere che nella città esprimono il proprio benessere e la propria ricchezza con opere monumentali. Una di queste tracce, però, è costituita dalla Chiesa dell’Annunziata  dei Catalani, l’unica testimonianza di una Messina che vantava un ricco ed eterogeneo tessuto cittadino, in cui le varie comunità mercantili, riunitesi in confraternite, esprimevano orgogliosamente i propri simboli attraverso opere e ad architettura.
Altro lascito di Giovanni Boccaccio a Messina è una ricostruzione etimologica “artificiale” sulla toponomastica del termine “Faro di Messina”, che era il termine con il quale all’epoca si designava lo Stretto di Messina.
Come ha ben dimostrato Alessandro De Angelis, Professore presso il nostro Ateneo, Giovanni Boccaccio, in una nota della Commedia di Dante Alighieri, specifica che: “(…) Tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, ch’è di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il Fare di Messina. E dicesi “Fare” da “pharos”, che tanto suona in latino quanto “divisione”, perché molti antichi credono che già l’isola di Cicilia fosse congiunta con Italia e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale, è in Italia, e con quella, che era terraferma, si facesse isola”.
Non ci sono prove che questo estratto possa valere come testimonianza di un passaggio di Boccaccio da Messina, ma è più probabile considerare che l’autore, nell’elaborazione di questa etimologia “artificiale”, abbia consultato i trattati scientifici dell’epoca, i quali sostenevano all’unanimità la tesi della separazione della Sicilia dal continente italico in seguito a terremoti avvenuti in epoche arcaiche.
Rimane, tuttavia, un prestigioso lascito da parte di un grande esponente della Letteratura Italiana alla nostra città, la quale non ricorda o non si impegna nel celebrare quelle virtù che il suo grande passato le ha attribuito.

Francesco Tamburello

Image credits:

https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Boccaccio_by_Morghen.jpg

… uno dei romanzi più famosi al mondo è stato ideato a Messina?

Immaginate la scena: un giovanotto, di soli 24 anni, mosso forse dal bisogno di avventura, o da una fede militante, si arruola nell’esercito spagnolo che fa capo a Don Giovanni d’Austria per combattere gli Infedeli in quella che sarà conosciuta ai posteri come l’ultima grande guerra santa fra Cristiani e Musulmani: la battaglia di Lepanto.

É il 1571, e Messina é uno dei più importanti porti militari e commerciali del Mediterraneo, interfaccia fondamentale per gli scambi tra Oriente e Occidente. Non stupisce infatti che la flotta della Lega Santa sia partita proprio da lì. Ma la città non offre solo un porto: vi è anche il Grande Ospedale, massiccia struttura di ricovero nata dall’accorpamento di ben 15 ospedali gestiti da altrettante confraternite religiose. È lì, in un maestoso palazzo nuovissimo per l’epoca, situato dove ora c’è il Tribunale, che i reduci del sanguinoso scontro possono trovare soccorso e cura.

Tra questi feriti c’è proprio il nostro giovanotto, che durante la battaglia è stato colpito al braccio sinistro e al petto: rimarrà convalescente a Messina per sei interminabili mesi. Mesi che passerà leggendo, e pensando.

Il giovanotto si chiamava Miguel de Cervantes Saàvedra, ed è proprio durante il lungo soggiorno sulle rive dello Stretto che, probabilmente, ha preso vita il germoglio del suo capolavoro: “El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha”, romanzo considerato il capostipite della letteratura moderna, che consegnerà alla storia l’intramontabile personaggio di Don Chisciotte.

Certo, ci vorranno parecchi anni prima che l’opera veda la luce, nel 1605; di certo il ricordo di Messina deve essere rimasto a lungo nella mente dello scrittore, che rievoca (quasi autobiograficamente) le sue vicissitudini giovanili attraverso il racconto dello schiavo nel capitolo XXIX del primo libro.

La città viene nominata anche in delle opere successive: due delle Novelle Esemplari, edite nel 1613, e la raccolta intitolata Viaggio al Parnaso, del 1614.

Pare quasi di vederlo, un giovane sbarbatello annoiato dal riposo forzato, che passeggia per i giardini del Grande Ospedale e riflette sugli avvenimenti di una battaglia fuori da ogni tempo e da ogni logica; come fuori da ogni tempo e da ogni logica è il personaggio che sta prendendo forma nella sua mente, a due passi dall’assolato Stretto di Messina.

Renata Cuzzola

 

Fabrizio De Andrè, Messina e un pirata di 500 anni fa…

Andate sul lungomare della passeggiata di Messina e lì, su quei gradini che formano un piccolo anfiteatro abitato spesso da gatti randagi, prendete il vostro cellulare e, se potete, indossate le cuffie; cercate sulla piattaforma YouTube la canzone di Fabrizio De AndréSinàn Capudàn Pascià ed anche se, probabilmente, non capirete molto delle parole sussurrate da “Faber” in dialetto genovese, andate oltre il testo.
Che cosa c’entra questa canzone ligure con Messina ed, in particolare, con la sua passeggiata a mare? Apparentemente nulla, se non fosse che già nel titolo del brano Fabrizio De André ha lasciato una traccia riconducibile alla città dello Stretto: “Sinàn Capudàn Pascià”; una ricerca di queste tre parole, infatti, riporterebbe al nome di Scipione Cigala, nato a Messina da una famiglia di marinai genovesi rapiti dai pirati pirati ottomani nel XVI secolo.
Durante il secolo 1500, infatti, il porto di Messina non si trovava nella posizione odierna, ma le navi salpavano proprio dal litorale dell’attuale passeggiata, come ricorda un’epigrafe posta vicino il piccolo anfiteatro scalinato del lungomare e riecheggiante la memoria della Battaglia di Lepanto, scontro per cui proprio da quel litorale salparono le navi cristiane dirette in Turchia.
La passeggiata, allora, è uno dei luoghi che il giovane Scipione dovette conoscere, poiché molo mercantile di una Messina ricca di colonie catalane, genovesi e pisane, tutte attive nel commercio marittimo in città.

Ma per immaginarsi le vicende della canzone, avendo a portata di mano la versione tradotta in italiano del testo di De André, occorrerebbe prendere l’automobile o un autobus e fermarsi a Ganzirri, altro luogo legato tanto al mare quanto ai pirati “saraceni”. Nel momento in cui non aveste dimestichezza con i vicoli della frazione, chiedete agli abitanti del posto della “Torre Saracena” e, questi, vi indicheranno la strada che vi porterà ad una torre medievale posta nel bel mezzo delle case basse in riva al mare. La storia, anche in questo caso, potrà dirvi perché quella torre fu ribattezzata dal gergo locale “Saracena”, ma lasceremo che sia la canzone di De André a darvi un indizio. Posti davanti al mare che affaccia sulla costa calabrese da Ganzirri, ascoltate le prime battute della canzone che qui, per semplificare le cose, traduco direttamente in italiano: “Teste fasciate nella galea e sciabole si giocano la luna”: eccola la memoria della “Torre Saracena” di Ganzirri, la vedetta anticorsara che funzionò sino all’epoca napoleonica per salvaguardare un forte che esisteva sulle pendici dei colli di Faro Superiore. Accanto a quella torre potrete immaginare, nel vedere il via vai del traffico marittimo odierno, la galea di pirati ottomani che, assediata l’imbarcazione dei Cigala, rapì Scipione che da quei legni dice cantando: “Al posto degli anni che erano diciannove, si presero le gambe e le mie braccia, da allora la canzone è diventata il tamburo e il lavoro cambiò in fatica dura”. E mentre il padre riuscì a pagare ai pirati il prezzo del proprio riscatto, Scipione rimase ostaggio ottomano e De André, nell’arte poetica che lo inserisce di diritto tra i grandi della letteratura contemporanea, dà voce al marinaio messinese, ridotto schiavo dai saraceni che gli intimano: “Voga! Devi vogare prigioniero e spingi, spingi il remo sino al piede! Voga! Devi vogare “turtaiéu” (letteralmente “mangione”) e spingi, spingi il remo sino al cuore!”.
Da schiavo a soldato tra le file dei “giannizzeri” (corpo militare ottomano formato da slavi musulmani, slavi cristiani rapiti dai pirati e cristiani convertiti), sino al ruolo di “Capudàn Pascià”, carica simile a quella di grande ammiraglio dell’esercito del sultano. Ribattezzato in arabo “Sinàn“, Scipione arrivò a rivestire la carica di Vizir, una figura dai poteri subordinati solo alle competenze del sultano.
E digli a chi mi chiama rinnegato, che tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinàn ha concesso di luccicare al sole, bestemmiando Maometto al posto del Signore“. Da Ganzirri o dalla passeggiata a mare, a seconda della volontà dell’immaginazione, si potrà vedere Scipione Cigala ritornare a Messina secondo una leggenda popolare che vuole il Capudàn Pascià rientrante in città per salutare la madre morente. La corona di Aragona, sovrana in Sicilia, per mantenere fede al titolo di “re cattolici”, si oppose all’ingresso di un “moro” a Messina, veto che Scipione fece pagare agli spagnoli con l’assedio della costa reggina. Celebri di questo momento storico sono il fallito assedio di Reggio da parte degli ottomani e le scorribande di Gallico. Di fronte a questo atteggiamento, leggenda vuole che gli Aragona concessero a Scipione l’ultimo saluto alla madre e la costa reggina non fu più saccheggiata.
“E’ questa la mia storia e te la voglio raccontare un pò prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio; è questa la memoria, la memoria del Cigala, ma nei libri di storia Sinàn Capudàn Pascià“.
Il legame che unisce Fabrizio De André a Ganzirri, alla passeggiata a mare e a Scipione Cigala finisce qui, ma per ricordare il messinese che si fece grande tra le file ottomane, bisognerebbe concludere l’itinerario ad Istanbul, presso il quartiere Galata, laddove esiste la residenza lussuosa di Sinàn Capudàn Pascià. Un paio di secoli dopo, in quello stesso quartiere, nel 1905, degli studenti del ginnasio Galatasaray di Instanbul fondarono l’omonimo club di calcio che oggi è una grande polisportiva di caratura europea, ma questa è un’altra storia.

Francesco Tamburello

… ci sono ben due Messinesi illustri sulla Luna?

La luna piena fotografata da un obiettivo telescopico

Ebbene sì: c’è chi guardando la Luna pensa all’amore, chi, come Leopardi, ci intesse sopra riflessioni sul senso della vita. Ma d’ora in avanti, cari lettori di UniVersoMe, quando volgerete lo sguardo al cielo in una bella notte di luna piena, non penserete più a nulla di tutto questo, ma alla nostra città di Messina.

Come mai? Perchè Messina ha l’onore di avere non uno, ma ben due Messinesi illustri sulla Luna. Ovviamente non di persona, ci mancherebbe: ma i loro nomi sono stati assegnati rispettivamente a un cratere lunare e a un Dorsum, una sorta di catena montuosa formata da creste lunari.

Chi sono questi due personaggi messinesi e come mai hanno ricevuto una così singolare onorificenza? 

Francesco Maurolico

Il primo, probabilmente, lo conoscete un po’ tutti: è Francesco Maurolico, matematico, scienziato, letterato, storico, erudito, in poche parole grande mente del Cinquecento messinese. Di questo incredibile personaggio, che più di ogni altro forse riuscì a incarnare l’archetipo dell’intellettuale rinascimentale a tutto tondo, ci resta una enorme quantità di scritti, molti dei quali testimoniano appunto il suo vivo interesse per l’astronomia.

Il più importante di questi, una opera massiccia intitolata “Cosmographia”, rappresenta una sorta di grande rassegna del sapere astronomico dell’epoca: la prima edizione,

Superficie lunare. In giallo, il cratere Maurolycus

datata 1543, è dedicata all’amico e letterato Pietro Bembo.

Per i suoi importanti contributi allo sviluppo di una disciplina che all’epoca era quanto mai attuale, Maurolico fu molto apprezzato tanto dai suoi contemporanei, quanto dai posteri. Nel 1615, infatti, quando l’astronomo gesuita Giovan Battista Riccioli pubblica la sua mappa della superficie lunare, non manca di onorarne la memoria attribuendo il suo nome a un cratere del diametro di 117 km, il Maurolycus, che lo conserva tutt’ora.

Una delle tavole paleontologiche di Scilla, con disegni di fossili

Il secondo personaggio invece è sicuramente meno noto, ma non meno affascinante, e, per certi versi, bizzarro: forse perchè visse e operò circa un secolo dopo Maurolico, nel Seicento, in un’epoca permeata dalle bizzarrie del barocco.

Stiamo parlando di Agostino Scilla, anche lui messinese e anche lui, come il Maurolico, genio a 360 gradi: dopo una formazione da letterato, si dedicò alla pittura, e diverse delle sue opere sono custodite al Museo Regionale di Messina.

Ma i suoi interessi non si fermano all’arte: fu anche appassionato di geologia, e instancabile collezionista di fossili. Scoprì per primo, quasi in contemporanea con il danese Niccolò Stenone, e in contrasto con le credenze dell’epoca, che i fossili sono resti di esseri viventi, gettando così le basi della moderna paleontologia.

Il Dorsum Scilla in una foto telescopica

Proprio per questo, nel 1976 gli venne dedicato un Dorsum lunare, il Dorsum Scilla, lungo circa 108 km: la Unione Astronomica Internazionale, che regola la nomenclatura delle strutture lunari, prevede infatti che ai Dorsa vengano assegnati i nomi di geologi, paleontologi e studiosi della Terra. 

Quando si parla di “portare in alto” il buon nome della città di Messina, dobbiamo dunque ricordare che c’è stato chi, come Francesco Maurolico e Agostino Scilla, è riuscito a portarlo così in alto… da raggiungere addirittura la Luna! 

Gianpaolo Basile

Image credits:

  1. Di Gregory H. Revera – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11901243
  2. Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=697197
  3. http://www.osservatoriogalilei.com/home/index.php/rirorse/fly-me-to-the-moon/839-il-cratere-maurolycus
  4. Di Colonna, Fabio; Scilla, Agostino – http://www.biodiversitylibrary.org/pageimage/39707030, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=44716771
  5. Di Naval Research Laboratory from Clementine data – Quelle: http://solarviews.com/raw/moon/moonmap.tif, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=482921