Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio

L’effetto Werther è un fenomeno psicologico e sociologico secondo cui la rappresentazione romantica del suicidio nei media può indurre comportamenti emulativi, soprattutto tra i giovani e le persone vulnerabili. Il termine nasce dal romanzo I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe, in cui il protagonista, sopraffatto da un amore impossibile, si toglie la vita con un colpo di pistola. Continua a leggere “Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio”

Genio e dannazione: la vita inquieta di Charles Baudelaire

Dall’armonia all’inquietudine: la svolta nella vita di Baudelaire

Charles Baudelaire nasce a Parigi il 9 aprile 1821, in una vecchia casa del Quartier Latin, al numero 13 di Rue Hautefeuille, dove oggi si trova la “Librairie Hachette”.

Considerato il simbolo del “poeta maledetto”, Baudelaire incarna la gioventù bohemienne, vivendo tra eccessi di alcool, assenzio e droghe, e combattendo contro le proprie fragilità mentali e fisiche.

La sua infanzia trascorre felicemente tra l’affetto della madre e il lusso del padre, un uomo anziano con inclinazioni artistiche. Tuttavia, la sua vita subisce una svolta drastica con il secondo matrimonio della madre con il maggiore Jacques Aupick, futuro generale, ambasciatore e senatore.

Baudelaire soffre profondamente questa unione e sviluppa un’avversione irriducibile per il patrigno, portandolo a un progressivo distacco dalla famiglia e a una vita sempre più ribelle e instabile.

La sofferenza come fonte di ispirazione

L’esistenza del poeta è segnata da alloggi precari, debiti, instabilità mentale e vari tentativi di suicidio.
La precarietà economica lo costringe a dipendere spesso dagli aiuti materni, mentre il suo spirito inquieto e tormentato lo spinge a esplorare l’arte sotto prospettive nuove e radicali.

Baudelaire non si piega alle convenzioni e trasforma le sue angosce in opere poetiche di straordinaria potenza, capaci di tradurre la decadenza e la bellezza del mondo in versi memorabili.

Il rapporto con Victor Hugo: ammirazione e critica

Baudelaire entra nel mondo della letteratura quando Victor Hugo è già un’icona del Romanticismo francese. Dopo un’iniziale ammirazione per il grande scrittore, sviluppa un rapporto contrastante con lui, criticando l’abbondanza stilistica e la visione morale dell’arte. Baudelaire ritiene che il poeta non debba avere la missione di guidare l’umanità, ma piuttosto cercare la purezza artistica.
Nel suo “Salon de 1845” accusa Hugo di aver influenzato negativamente intere generazioni di artisti con il suo sentimentalismo eccessivo. Tuttavia, col tempo, modera le sue critiche, riconoscendo il contributo di Hugo alla letteratura francese, pur continuando a preferire autori come Théophile Gautier, che incarnano una visione dell’arte più rigorosa e libera da intenti morali.

Simbolismo e poesia: il ruolo de L’Albatros e Correspondances

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I fiori del male – Poemetti in prosa. Collana: i Grandi Scrittori Stranieri II-43

Nel 1857, Charles Baudelaire pubblica la sua opera più celebre, Les Fleurs du Mal, un capolavoro che rivoluziona la poesia moderna e anticipa il Simbolismo. Il libro viene censurato per immoralità e alcune poesie vengono bandite, ma la sua influenza si rivelerà incalcolabile.
Baudelaire sostiene che l’arte non debba avere un fine sociale o morale, ma debba servire esclusivamente la bellezza e la ricerca di verità nascoste nel mondo.

All’interno della raccolta emergono due poesie emblematiche della sua poetica: L’Albatros e Correspondances.
L’Albatros rappresenta il dramma del poeta, paragonato all’albatros, un uccello maestoso in cielo ma goffo e vulnerabile sulla terra. Questo simbolismo esprime il contrasto tra la grandezza dell’ispirazione artistica e la difficoltà di adattarsi alla realtà quotidiana.
Correspondances, invece, introduce l’idea delle corrispondenze tra i sensi e il mondo spirituale, un concetto chiave del Simbolismo. In questa poesia, Baudelaire sviluppa la teoria secondo cui la natura è un tempio di simboli che l’artista deve decifrare, una visione che influenzerà profondamente la letteratura successiva.

Le Poète est semblable au prince des nuées 
Qui hante la tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher

Il Poeta è simile al principe delle nubi,
che sfida la tempesta e ride dell’arciere;
ma esiliato a terra, tra il dileggio della folla,
le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.

L’Albatros

In Les Fleurs du Mal, Baudelaire esplora anche il conflitto tra due stati d’animo opposti: lo Spleen e l’Ideale. Lo Spleen rappresenta una profonda malinconia, un’angoscia esistenziale e un senso di disperazione di fronte alla banalità della vita quotidiana. Al contrario, l’Ideale simboleggia l’aspirazione alla bellezza, alla perfezione e a una realtà trascendente. Attraverso questa dicotomia, Baudelaire illustra la lotta interiore del poeta, diviso tra la ricerca di un ideale sublime e la realtà opprimente dello spleen.

L’ultimo periodo: malattia e morte

La sua salute, però, peggiora progressivamente. Nel 1866, viene colpito da un ictus che gli provoca una grave afasia e paralisi. Ricoverato alla “Clinique Hydrotherapique” di Chaillot, le sue condizioni rimangono stazionarie per mesi. Il 31 agosto 1867, alle 11 del mattino, muore a soli 46 anni, senza che Les Fleurs du Mal abbia trovato un nuovo editore.

L’eredità immortale di Baudelaire

Oggi, Baudelaire è considerato uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. La sua arte, nata dal tormento e dal desiderio di trascendere la realtà, continua a influenzare generazioni di scrittori e artisti. Con il suo coraggio espressivo e la sua ricerca di una bellezza superiore, ha lasciato un’eredità immortale, capace di parlare ai cuori inquieti di ogni epoca.

 

Fonti:
Il sole nero dei poeti, Maria Luisa Belleli
I fiori del male – Poemetti in prosa, Charles Baudelaire

Dino Buzzati: sogni e attese nei suoi Sessanta racconti

Quando Dino Buzzati pubblica, nel ’58, Sessanta racconti ha già alle spalle un’avviata carriera. La sua produzione è cospicua sia per la prosa lunga – il suo capolavoro, Il deserto dei Tartari, è approdato in libreria nel ’40 per la Rizzoli – sia per quella breve, avendo infatti già scritto diverse sillogi.

“Sono le 57 e un quarto”

I temi trattati dallo scrittore bellunese sono legati quasi tutti a un mondo fiabesco e puro, che probabilmente lo scrittore apprendeva dall’osservare la natura incontaminata durante le sue passeggiate in montagna.

Tuttavia, quella che potrebbe sembrare una realtà tranquilla, di nuvole e natura serena, copre un mondo spesso angosciante, duro e giudicante. Lo si nota in particolare in Non aspettavano altro, in cui i due protagonisti vengono torturati per un crimine inesistente. Questo racconto, come altri, ha quell’aria angosciosa tipica degli incubi: sono da sogno, infatti, la sensazione di impotenza quanto l’urlo che muore in gola prima ancora di poter essere lanciato.

Dino Buzzati. Fonte: Archivio Farabola

Sempre riguardo al tema dell’incubo, che è tra i più frequenti nella raccolta, notiamo uno degli aspetti più condivisibili della narrativa buzzatiana. A chi non è mai successo di leggere, mentre sognava, orari impossibili sugli orologi? È quello che capita al Buzzati-personaggio in All’idrogeno, dove ” Sono le 57 e un quarto “.  È in questo racconto che brilla un aspetto fondante della raccolta: l’attesa, onirica e frequente, di un qualcosa di sconosciuto, il dover andare ad un ritmo non sempre sentito come personale.

Nei sogni come nella veglia, quasi tutti i personaggi di Buzzati sono spettatori di un mondo di cui non sono veramente parte attiva, che difficilmente è comprensibile o giustificabile, appunto, come un incubo in cui l’orologio punta le 57 e un quarto.

La quotidiana ipocrisia in Dino Buzzati

In Buzzati l’inquietudine nasce proprio da quella normalità borghese che permeava la quotidianità che lo stritolava nella noia. Sono le piccole differenze dal normale vissuto a stupire i protagonisti, spesso portandoli a vere e proprie crisi esistenziali. Basta un’anomala goccia che sale le scale a turbarci (nel racconto Una goccia) o anche il progredire in una fantasia sfrenata da bambini, che porta al disastro (ne Il borghese stregato). È nella vita di tutti i giorni, quella in cui si annidano le paure più morbose, recondite o imbarazzanti, che i personaggi alieni o fantastici fanno emergere l’ipocrisia della vita di quotidiana.

Sono voci misteriose, o mostri insospettabili, a far sparire gli idilli in cui si nascondono i protagonisti di una silloge in cui perfino gli insetti hanno una loro rivalsa sulla tracotanza umana.

Il colombre disegnato da Dino Buzzati.
Il colombre disegnato da Dino Buzzati.

I non idilli di Dino Buzzati e Italo Calvino

Leggere Sessanta racconti non può che farci sentire i più piccoli abitanti di un cosmo senza limiti, ma sicuramente anche i più arroganti e ottusi. Questa, in fin dei conti, è anche la più grande differenza con il fantastico in Italo Calvino: se Buzzati parte dal quotidiano per “far urlare il più possibile gli oggetti familiari” (citando una frase di Magritte) fino ad arrivare al mondo delle fiabe, Calvino attraverso il fiabesco ci parla del quotidiano.

Sarebbe un grande errore, d’altra parte, credere che gli scritti di Buzzati siano leziose e pedanti critiche. Dietro l’angoscia o la più pura ansia di alcuni racconti ci sono vere e proprie perle di una fantasia sfrenata che mira semplicemente a divertire e che non può essere chiusa nelle maglie di uno spicciolo moralismo.

Carlo Rotondi

L’eternità di J.R.R. Tolkien al MessinaCon 2024

Esattamente cinquantuno anni fa, il 2 settembre del 1973, moriva John Ronald Reuel Tolkien lasciando ai
posteri un patrimonio letterale di valore inestimabile.

Il professore di Oxford, filologo, glottoteta, linguista e scrittore, è ricordato ancora oggi, a distanza di
settant’anni dalla prima pubblicazione de Il Signore degli Anelli, come autore di uno dei più grandi cicli
narrativi del XX secolo.

Ma per quale motivo la materia tolkeniana è stata a lungo una tematica spinosa da affrontare nel nostro Paese?

In occasione del MessinaCon24 ne abbiamo discusso con Stefano Giorgianni, linguista di formazione,
traduttore dall’inglese e dal russo, caporedattore di Metal Hammer Italia e presidente e socio-fondatore
dell’Associazione Italiana Studi Tolkeniani.

«Diciamo che il discorso parte da molti, molti anni fa. È stata una tematica complessa da affrontare non dal punto di vista letterario, ovviamente, ma da un punto di vista socio-politico, se vogliamo metterla in questi termini. Come sappiamo, un po’ di anni fa Tolkien era stato preso come uno degli autori alfieri di una certa particolare destra, che lo aveva un po’ “strumentalizzato.

Per fortuna quegli anni sono passati e molti studiosi si sono impegnati per tirare fuori Tolkien da quel calderone; siamo riusciti a portarlo un po’ ovunque, e senza alcun pregiudizio. Ti racconto una curiosità: quando nel 2017 ho tentato di organizzare un convegno tolkeniano a Verona, me l’hanno respinto, perché pensavo fosse un autore collocato politicamente. Ed è stato pochi anni fa! Per fortuna il nostro lavoro come Associazione Italiana Studi Tolkeniani, ma anche di molti studiosi esterni, ha aiutato a riportare Tolkien dove deve essere, ovvero in un ambiente assolutamente neutrale. Per chi vuole leggerlo, amarlo ed approfondirlo in tutte le salse… però solo da un punto di vista letterario, ecco!»

Le opere di Tolkien, un classico da riconoscere

Sin dalla sua fondazione l’AIST (Associazione Italiana Studi Tolkeniani) pone al centro del proprio operato il riconoscimento delle opere di Tolkien come classici della letteratura, battendosi affinché esse arrivino a divenir parte della formazione degli studenti italiani.

«Se vogliamo ricordare i classici che ci propinano a scuola continuamente» ci ha detto Giorgianni «Possiamo far rifermento a “I Promessi Sposi”: tu arrivi ad odiarlo, quel libro, perché continuano ad importelo per forza… però se lo leggi a distanza di anni, vedi che ha delle caratteristiche perfettamente applicabili anche ad un tempo contemporaneo. Questa è, secondo me, anche la lingua immortale di Tolkien.»

Sono proprio quelle caratteristiche presenti all’interno de Il Signore degli Anelli – quegli eterni valori di lealtà, amicizia e coraggio – che lo rendono un classico della letteratura.

«Ci è servita da questo punto di vista la traduzione di Fatica, uscita ormai da qualche anno.» ha continuato il presidente AIST «È stata una rivisitazione utile a rinfrescare un po’ l’opera, anche se molti, essendo cresciuti con i film di Jackson, erano affezionati alla traduzione vecchia. Ma cosa fa una traduzione? Una traduzione serve anche per rivisitare il messaggio dell’originale, non serve soltanto a scatenare battaglie inutili, che non servono a nulla da un punto di vista socio-letterario.»

Stefano Giorgianni ci parla di Tolkien ai nostri microfoni. © UniVersoMe

Il caso delle traduzioni tolkeniane

Alla luce delle polemiche inerenti alla nuova traduzione di Ottavio Fatica, abbiamo chiesto a Giorgianni, nonché traduttore della History of Middle-earth edita da Bompiani, se nel suo operato temesse il giudizio dei lettori più “conservatori”.

«Non è che l’ho temuto, lo abbiamo ricevuto quando è uscito il sesto volume.» ci ha raccontato. «Noi siamo vincolati alle scelte di Bompiani da un punto di vista dell’onomastica, della toponomastica, eccetera, perché dobbiamo usare per forza quello che è stato deciso in riferimento alle scelte di Fatica. Noi non possiamo
inventarci ex novo delle cose, dobbiamo usare quello che c’è, ed in più tradurre quello che manca, ma dobbiamo partire da quello è già in commercio. Anche perché è necessaria un’uniformità da un punto di vista editoriale, cosa che è sempre mancata. Adesso uscirà la nuova traduzione de “Lo Hobbit” di Wu Ming 4 e sappiamo che ci saranno delle polemiche: è inevitabile. Il problema è – quello che dico sempre – non bisogna lasciare per troppi anni una traduzione in commercio, perché sennò poi la gente pensa che quello sia il libro originale.

Una traduzione, bene o male, è sempre un’interpretazione del traduttore, qualcosa che dipende dai tempi che corrono in quel momento, quando viene tradotto, ed il linguaggio che viene usato. Sempre nel rispetto del linguaggio dell’autore. Però il testo originale rimane. Puoi esserci attaccato affettivamente, perché ci sei cresciuto, ma la nuova traduzione è un nuovo capitolo. E fra quindici anni ce ne sarà un’altra e la generazione che cresce adesso, con la traduzione di Fatica, fra quindici anni magari protesterà…ma il libro di Tolkien resterà quello. Quindi la traduzione non deve essere un feticcio da adorare. Bisogna sempre far riferimento al testo originale.»

 

Tolkien
Il linguista Stefano Giorgianni con la redattrice Valeria Giorgianni. © UniVersoMe

L’opera di Tolkien, un saggio di estetica linguistica?

Nel parlarci della nuova traduzione de Il Signore degli Anelli, Stefano Giorgianni ci ha anche spiegato i motivi per cui la più celebre opera di Tolkien è, a tutti gli effetti, un saggio di estetica linguistica.

«Una cosa di cui ci ha fatto accorgere Ottavio Fatica durante la traduzione è che, ad esempio, quella di Tolkien non è una vera e propria prosa, ma è quasi sempre una poesia. Tolkien non viene mai considerato un poeta, invece – questo si vede soprattutto attraverso la History – lui era fondamentalmente un poeta. Se tu vai a leggerlo in inglese – cosa che Fatica ha tentato di riportare in italiano – c’è un metro anche nella prosa. Oltretutto Tolkien ha inventato delle lingue, quindi è anche un trattato linguistico. Ha inventato delle razze che parlassero quelle lingue. Ci sono diversi strati. Il Signore degli Anelli da questo punto di vista ha un livello di analisi che è molto stratificato e prima che si arrivi alla fine manca ancora molto.

La profondità e le sfaccettature dell’opera di Tolkien, da un punto di vista filologico e linguistico, lo portano assolutamente alla definizione di saggio di estetica linguistica.»

Ma cosa significa concretamente creare una lingua, come ha fatto Tolkien?

Ci ha risposto il presidente AIST:

«C’è da dire che, quello che ha fatto Tolkien, secondo me è abbastanza irripetibile. Si sono visti spesso, in altri romanzi fantasy, dei popoli che parlano delle lingue, ma spesso è la lingua funzionale al popolo. In Tolkien è accaduto un po’ l’inverso. La potenza di Tolkien è quella di essere riuscito, da filologo e linguista, ad applicare quello che noi potremmo chiamare un mondo scientifico delle lingue in un romanzo. Perché le lingue di Tolkien – non tutte sono così particolareggiate, però linguisti successivamente le hanno comunque approfondite – hanno una struttura che è veramente da lingua artificiale vera e propria.

Se leggi la History hai un profilo dei primi vocabolari che sono approntati da Tolkien. È difficile trovare questo in un altro universo che non sia il suo. Per non dire che le lingue di Tolkien si possono anche parlare, se si vuole. Per dirti: analizzando soprattutto il linguaggio nero, che non è tra quelli di cui abbiamo più informazioni, si scorgono anche tante doti ed influenze glottologiche e linguistiche di un Tolkien accademico. Non è sicuramente una cosa “rapportabile” ad un autore che non avesse la sua formazione linguistica, secondo me. Questo lo porta ad un livello superiore rispetto agli altri, ancora adesso.»

Ed è così che J. R. R. Tolkien continua ancora oggi ad emozionare e stupire i propri lettori che, di generazione in generazione, testimoniano l’unicità di questo eterno autore che non si smette mai di (ri)scoprire.

 

Valeria Giorgianni

 

  • L’intervista è stata effettuata durante l’evento organizzato da Eriador Messina durante il MessinaCon 2024. 

Antoine De Saint-Exupéry: lo scrittore con la testa fra le nuvole

Ottant’anni fa veniva a mancare Antoine de Saint-Exupéry, uno degli autori più influenti del ‘900 grazie al suo capolavoro: Il Piccolo Principe. Oggi, in occasione dell’anniversario della morte avvenuta durante una missione aerea, vogliamo ricordare lo scrittore e la straordinaria eredità delle sue opere.

Antoine de Saint-Exupéry, il poeta aviatore

Nasce a Lione il 29 giugno 1900 da una famiglia aristocratica. Fin da piccolo, nonostante si dimostri da subito un ragazzo intelligente, non riesce ad applicarsi ed essere disciplinato e attento a scuola. Non sono d’aiuto i rapporti con i compagni che lo prendono in giro per la forma del naso e per il suo stare con lo sguardo rivolto verso l’alto.

“È un poeta che fa l’aviatore. Di solito gli aviatori non scrivono poesie e di solito i poeti non fanno gli aviatori. […] Lui ha bisogno di stare nell’aria, è il suo elemento, ma l’aria e l’aeroplano senza una casa, un porto, un aeroporto verso il quale volare non ha senso” –Prof. Raniero Regni (Ordinario di Pedagogia Sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane della LUMSA di Roma) su Antoine de Saint-Exupéry

Durante la sua vita, oltre a essere pilota civile e militare, ha scritto diverse opere, di cui molte dedicate proprio alla sua passione per il volo. Ricordiamo infatti L’aviatore (1926), Terra degli uomini (1939), Il pilota e le potenze naturali (1940) e  Pilota di guerra (1942). Molti suoi scritti furono pubblicati dopo la sua morte, come ad esempio Lettere alla madre (scritte tra il 1910 e il 1944 e pubblicate nel 1953) e Reportage (1982).

Antoine de Saint-Exupéry. Fonte: Duecento Pagine
Antoine de Saint-Exupéry. Fonte: Duecento Pagine

Il successo de “Il Piccolo Principe”

Ma l’opera di Saint-Exupéry che ha fatto innamorare il mondo è indubbiamente Il Piccolo Principe. Il libro esce negli Stati Uniti nel 1943, dove l’autore è esule dalla Seconda Guerra Mondiale, e nel 1945, un anno dopo la sua morte, spopola in Francia. Di questo racconto, dalla struttura simile a quella di una fiaba, sono state stampate 134 milioni di copie in tutto il mondo e in ben 220 lingue, facendolo diventare così il terzo libro più letto al mondo dopo Il Capitale di Karl Marx e La Bibbia. Ancora oggi sulle librerie di ragazzi e adulti compaiono nuove e vecchie edizioni del libro, a testimonianza del fatto che sia quasi un testo imprescindibile per la crescita dei lettori.

La trama e la missione del libro

La trama narra di un pilota di aerei che, dopo essere precipitato nel deserto del Sahara, incontra proprio il Piccolo Principe. Quest’ultimo, capendo che anche l’aviatore ha una certa sensibilità, comincia a raccontarsi. Le vicende con l’amica Volpe, l’amore per la sua Rosa, riescono a descrivere con delicatezza inaudita e semplicità argomenti profondi che anche un lettore esperto e imbarcato può trovare commoventi. Sono tanti gli insegnamenti che traspaiono da questo libro, tanto da poterlo considerare un piccolo romanzo di formazione senza tempo o target di età. Tutti gli incontri che il Piccolo Principe fa, le varie strade che nel corso della sua vita il suo essere può imboccare, rappresentano le diverse possibili sfaccettature della natura umana. È un viaggio nella profondità di ognuno di noi e proprio per questo può far scaturire significati diversi anche in base all’età del lettore.

Dal film “Il Piccolo Principe” di Mark Osborne (2015). Fonte: Elapsus

L’eredità di de Saint-Exupéry

Molti gli artisti che hanno reso omaggio ad Antoine de Saint-Exupéry. Hugo Pratt, fumettista di fama mondiale, ha realizzato un fumetto, “Saint-Exupéry. L’ultimo volo”, sulla vicenda della morte. Francesco De Gregori, nell’album “Terra di Nessuno” (1987), ha inserito il brano Pilota di guerra, dedicata a lui. Inoltre nel 1995 il regista francese Jean-Jacques Annaud gli dedica un cortometraggio biografico dal titolo Wings of Courage. Questi e tantissimi altri artisti cercano volentieri di rendergli omaggio per tramandare la profonda lezione d’amore che trasporta nelle sue pagine. Peraltro di questo bestseller sono stati realizzati un film d’animazione (per la regia di Mark Osborne nel 2015) e una serie televisiva per Rai Fiction da tre stagioni (tra il 2010 e il 2016).

Antoine de Saint-Exupery è scomparso nel 1944 a soli 44 anni. Tuttavia, l’eredità che ci ha lasciato attraverso le opere ha un valore inestimabile per gli argomenti e il modo con cui è riuscito a trattarli. Egli riesce a trasmettere attraverso i suoi personaggi riflessioni e insegnamenti a chiunque lo legga, diventando vere e proprie pietre miliari delle nostre vite.

 

Rosanna Bonfiglio

Bianca Garufi e Cesare Pavese, tra amore e mitologia

Cesare Pavese e Bianca Garufi sono definiti dallo stesso scrittore torinese una “bellissima coppia discorde”. Ma chi sono davvero? Lei di culla romana, lui di Santo Stefano Belbo, sono senza dubbio due dei fiori all’occhiello di Casa Einaudi; ed è proprio lì che si incontrarono nel 1944, nella sede romana della storica casa editrice.

Bianca Garufi tra Letojanni e Via Centonze

Cosa lega Bianca Garufi alla nostra Messina? Da una lettera del 30 agosto 1945, mandata da Letojanni, leggiamo:

Vorrei sapere qualcosa di te, se stai bene, se sei ancora così crudele. […] Scrivimi, se vuoi, a Messina V. Centonze 102.5″

Si dà il caso che la madre della donna, Giuseppina Melita, sia l’unica sopravvissuta della sua famiglia al terremoto del 1908; motivo per cui la giovane Bianca, agli albori del suo intreccio amoroso con lo scrittore, passava le estati sull’isola siciliana tra Letojanni, Messina e Siracusa. Forse è per questo suo appartenere alla Magna Grecia che il mito le scorre nelle vene; e probabilmente dobbiamo a lei la stesura dei Dialoghi con Leucòuno degli ultimi capolavori di Cesare Pavese.

Bianca Garufi all’epoca (dal volume “Una bellissima coppia discorde”, C.G.G., 2023)

I “dialoghetti” con Leucò

Il 10 gennaio 1948 Cesare Pavese scrive a Bianca che stava studiando il greco: nel frattempo stava scrivendo i suoi Dialoghi con Leucò. È fuor di dubbio che, per l’opera, lo scrittore si sia fatto ispirare dalla figura della giovane amante, che però per sua sfortuna non la apprezzò poi così tanto, definendo i componimenti dei meri “dialoghetti“.

Non è da considerarsi un caso, però, che Leucò (Λεῦκος) in greco voglia dire “bianco“. E neanche che il cardine attorno cui gira l’opera sia la mitologia, tema caro sia a Bianca che a Cesare. Pavese vede il mito come un momento rifondativo e utilizza nomi noti per trattare dell’umanità tutta e di questioni universali. Parlando della mitologia scrive nel febbraio del ’46, nel suo diario, Il mestiere di vivere:

“Potendo, si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo […] una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere.”

Dialoghi con Leucò e una pagina del volume “Una bellissima coppia discorde” – foto di Giulia Cavallaro

Il “caos vitale” di Bianca

La letteratura di Cesare Pavese è senza dubbio influenzata dagli amori che si susseguono durante la sua vita. E Bianca è per lui un fiume, come lui stesso la definirà in una lettera dell’ottobre del 1945: lei, senza saperlo, ha la forza di trascinarlo con sè, dirà lui stesso. Bianca, una donna curiosa, irrequieta, che poco aveva a che fare con un uomo come Cesare Pavese.

Bianca, come va il tuo caos vitale? Non riordinarlo troppo, perchè allora ti sparirà anche l’interesse alla vita. Tienilo giudiziosamente a mezz’acqua. E se stai troppo bene a Letojanni, scappa. Non mangiare il loto.” (lettera del 3 settembre 1945)

Quello che però senza dubbio Bianca Garufi non sapeva è che probabilmente fu lei ad ispirare i suoi dialoghetti, che Pavese definisce “un libro che nessuno legge e, naturalmente, l’unico che vale qualcosa” (lettera del 25 agosto 1950 a Nino Frank).

Il rapporto tra i due si sfilaccerà a partire dal 1947, anche se la loro corrispondenza non terminerà mai del tutto fino al febbraio 1950: nel loro carteggio si legge in trasparenza un tenero affetto che non terminò mai davvero, nonostante l’amore fosse finito. Sarà proprio ai Dialoghi con Leucò che Cesare Pavese affidò le sue ultime parole. Il 27 agosto 1950, prima di togliersi la vita nell’Hotel Roma di Torino, scrisse in un biglietto che lasciò all’interno di una copia del libro: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”

Ed è questo l’epilogo della “bellissima coppia discorde”. 

Giulia Cavallaro

*Le citazioni sono tratte dai seguenti libri:

Una bellissima coppia discorde,Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), a cura di Mariarosa Masoero, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2023

Pavese Cesare, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 2020

Pavese Cesare, Lettere 1926-1950 (vol.2), a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1968

 

Ni cummini quantu a Giufà

In ogni angolo della Sicilia si parla dello sciocco Giufà e delle sue peripezie da credulone.

Un grande personaggio che intratteneva grandi e piccini, prima che il mondo dei cartoni animati e dei social facesse sfumare l’arte del cantastorie e delle tradizioni popolari.

In pochi sanno che Giufà non è soltanto un personaggio popolare della tradizione siciliana, ma anche uno di quella spagnola e soprattutto araba.

L’etimologia del nome 

Si pensa che Giufà provenga dall’arabo, ma a darci qualche informazione in più è l’origine del suo nome.

Una cosa è certa, l’etimologia racchiude le qualità del personaggio.

Dal Nuovo vocabolario siciliano, si evidenzia che comunemente il nome Giufà derivi dal nome Giovanni; tuttavia, a

Nasreddin Khoja Fonte: Wikipedia

 

noi piacciono le storie e siamo andati ad indagare la “vera” etimologia del nome, animati dal desiderio di scovare un significato più goliardico, e così è stato.

Gioieni Giuseppe, nella sua opera interamente dedicata all’etimologia delle parole siciliane, sostiene che il nome derivi dallo spagnolo Ciufà, che indica la burla, lo scherno. Difatti, la tradizione ci tramanda racconti di gesta comiche.

Per altri Giufà non è un personaggio di fantasia inventato dalle mamme per intrattenere i più piccoli, ma in realtà è Nasreddin Khoja, un personaggio storico del XI secolo realmente esistito in Turchia.

 

In letteratura

Se per l’etimologia del suo nome, non vi è alcun dubbio, Giufà è lo sciocco del villaggio, qualche incertezza sussiste circa la sua apparizione letteraria.

Alcuni collocano la sua prima testimonianza scritta nel XVII secolo per mano di due poeti siciliani, Venerandu Ganci e Mamo da Cianciana, che inauguravano un nuovo personaggio da aggiungere alla letteratura umanista tipica di Boccaccio.

Giuseppe Pitrè – Fonte: l’identità di Clio

Altri sostengono che la prima apparizione del personaggio nella letteratura  avvenne grazie allo studioso delle tradizioni popolari, etnologo, medico e scrittore Giuseppe Pitrè intorno al 1845. Calvino, proprio in occasione della trasposizione del personaggio tipico della tradizione orale, disse : «al centro del costume di raccontar fiabe è la persona – eccezionale in ogni villaggio o borgo – della novellatrice o del novellatore, con un suo stile, un suo fascino. Ed è attraverso questa persona che si mutua il sempre rinnovato legame della fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltatori, con la Storia».

È curioso scoprire che diversi scrittori del Novecento hanno trasportato Giufà nelle loro opere.

Italo Calvino, recuperò il nome per soprannominare Gurdulù, lo scemo del villaggio, nella sua opera Il cavaliere inesistente; Leonardo Sciacca intitola un’opera Giufà e il cardinale.

Nelle storie che vedono protagonista Giufà, coesistono l’eroe e l’antieroe, impersonificati in scenari di ironia e beffa, sarcasmo e benevolenza, con temi attuali che invogliano alla critica verso il potere sociale.

Maldestro ma furbo, essere paragonati a Giufà può essere utilizzato in senso positivo, ma anche in senso negativo. Solitamente in Sicilia si usano tra i modi di dire “fari u Giufà” e “ni cummina quantu a Giufà”.

Il personaggio nella tradizione siciliana

Vediamo insieme le sfaccettature di questo personaggio, che si adatta ad ogni contesto culturale.

In Sicilia, il paragone con il personaggio di Giufà serve ad indicare chi è privo di furbizia e in preda ai più disparati malfattori.

Difatti, le storie che ruotano attorno al personaggio di Giufà lo ritraggono vittima di furti avvenuti con estrema facilità.

La trama della storia che fece la sua prima comparsa nell’opera di Pitrè prende spunto da consuetudini bucoliche nella Palermo del tempo, quando briganti e malfattori invogliavano i ragazzi a scambi di prelibatezze, sottratte furtivamente dalle dispense di casa, con promesse mai mantenute.

D’altronde, Giufà è il tipico fanciullo di campagna poco istruito che si esprime in modi di dire, racconti tramandati dalla madre e vive alla giornata in modo ingenuo, cacciandosi sempre nei guai.

Nella tradizione reggina

Nella tradizione reggina troviamo una piccola eccezione al Giufà siciliano, pur rimanendo nel background di un fanciullo sciocco. In questa versione, Giufà, al momento opportuno, si difende dagli attacchi, impersonando i caratteri della tradizione giudaico-spagnola del ragazzetto sciocco ma furbo, che si adatta alla circostanza in cui si trova.

Insieme a Giangurgolo e alle storie di Fata Morgana, diventa un volto amatissimo dal popolo calabrese.

Nella tradizione giudaico-spagnola

Nella tradizione giudaico-spagnola, viene presentato come un personaggio dal carattere ambivalente, passando dal non saper acquistare neanche da mangiare al nutrire chi avesse fame, ed è anche il ribelle che si prende a cuore le questioni sociali.

Il Giufà della tradizione giudaico-spagnola è un cavallo il cui valore si vede a lunga corsa.

Essere Giufà

Giufà è anche il titolo di un ciclo di racconti tragicomici interminabili e autoconclusivi. È sicuramente un personaggio del Novecento pensato come comico ma estremamente riflessivo.

È un personaggio che si ama per le sue sciocchezze e ingenuità, e ci sorprende per le sue risposte secche e furbe. Per questo vogliamo lasciarvi con due brevi storie che racchiudono il senso del “sii nu Giufà”:

Il barbiere maldestro

Giufà andò da un nuovo barbiere per radersi i capelli.

Il barbiere, non avendo molta pratica ed avendo una mano malferma, ad ogni taglio gli procurava una ferita che veniva prontamente saturata con un batuffolo di cotone. Ben presto una prima metà del capo di Giufà fu ricoperta da tanti batuffoli per evitare la fuoriuscita di sangue.

Quando il barbiere prese a radere l’altra metà della testa, Giufà gli chiese sarcasticamente: “Visto che già metà della mia testa l’hai seminata a cotone, cosa pensi di coltivare nell’altra parte?”.

 Giufà e i ceci

Giufà e i tre ceci
Giufà e i tre ceci
Fonte: colapisci.it

Un giorno la madre di Giufà andando a Messa raccomandò al figlio di mettere due ceci in pentola a bollire in modo tale che quando tornava sarebbero stati pronti.

Dopo un poco che la madre era uscita Giufà eseguì l’ordine ricevuto. Quando la madre tornò trovò la pentola che borbottava sul fuoco ma quando alzò il coperchio si accorse che dentro l’acqua i ceci non c’erano.

Infuriata, rimproverò aspramente il figlio per non averla ascoltata ma Giufà si difese dicendo: “Ho fatto più di quanto mi hai detto, ho messo in pentola ben tre ceci invece di due! Poi per controllare la cottura ho assaggiato il primo, per vedere come era di sale ho mangiato il secondo ed infine per vedere se era ancora duro ho mangiato il terzo! Per questo sono finiti!”. La madre, allora, esasperata, cominciò a picchiarlo con un cucchiaio di legno sulle gambe senza aggiungere altro.

 Elena Zappia

Fonti

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuf%C3%A0

https://www.treccani.it/enciclopedia/giufa_%28Enciclopedia-Italiana%29/

https://www.tempostretto.it/news/cultura-giuf-eroe-siciliano.html

https://www.e-genius.it/Trinakria/sicilianelcuore.info/tradizioni/index.php?content=giufa

https://www.sololibri.net/Storie-di-Giufa-origine-varianti-riscontri.html

https://www.experiences.it/archives/7324

Taobuk 2024: un gala tra identità e arte

Anche quest’anno il Taobuk ha regalato al pubblico grandi emozioni. Tra ospiti di spessore del calibro di Marina Abramovic, Paolo Sorrentino, Ferzan Ozpetek, Alessandro Baricco e tanti altri, il festival si è incentrato quest’anno su un nuovo tema: L’Identità.

Una magica serata alla ricerca dell’Identità

L’identità al centro delle manifestazioni artistiche di questi grandi ospiti si è manifestata anche nel magico, suggestivo e spettacolare contesto della Serata di Gala del Taobuk (momento più atteso del festival), tenutosi il 22 giugno.

La serata è stata presentata dal conduttore Massimiliano Ossini e Antonella Ferrara, ideatrice del festival. Qui l’identità è stata presentata in svariate forme: dalla danza con le coreografie strepitose del gruppo Momix, ideato dal coreografo Momes Pendleton e della prima ballerina del Teatro alla Scala Nicoletta Manni, alla musica con la magnetica esibizione di Noemi.

Ogni grande artista presente han espresso il proprio concetto di identità e dove la ritrovano nel proprio mondo, aprendoci così una finestra nel loro spirito più profondo.

Coreografia svolta da una delle ballerine del corpo di ballo dei Momix
Coreografia svolta da una delle ballerine del corpo di ballo dei Momix

A tu per tu con i Giganti

Da Jon Fosse a Kasia Smutniak, da Sorrentino a Baricco, le più grandi personalità presenti al festival hanno ricevuto un prestigioso premio alla carriera e si sono raccontati, affrontando temi importanti e sotto certi aspetti delicati.

Come nel caso di Jonathan Safran Foer che ha trattato lo spinoso tema della guerra tra Israele e Palestina, oppure come Ferzan Ozpetek che ha centrato il focus sulla sua identità omosessuale e in generale su questo tema  ancora oggi fin troppo delicato. C’è stato poi chi ha mostrato per l’occasione il lato più profondo della propria identità, come ad esempio Jon Fosse, che ha raccontato la sua conversione religiosa o come Paolo Sorrentino che ha dichiarato come trova se stesso all’interno della sua filmografia, soprattutto nel suo ultimo film E’ stata la mano di Dio e in quello che uscirà prossimamente nelle sale, Parthenope.

L’apice è raggiunto con un affascinante racconto di Marina Abramovic sulla sua brillante ed eccentrica vita performativa, basata sul rapporto tra arte e corpo.

Il tutto accompagnato dalle melodie dell’orchestra sinfonica del Teatro Massimo Bellini di Catania e dal dolce ricordo di una delle personalità più importanti di questo festival, ovvero Franco di Mare.

Il Teatro Antico: il ritorno alla nostra identità

Tra i grandi artisti presenti a questa grande serata di Gala, vi è stato anche lo scrittore Alessandro Baricco, che nel presentare il suo spettacolo del 23 giugno, rappresentato proprio al Teatro Antico, tratto dagli scritti dello storiografo Tucidide, Atene contro Melo, ci ha donato a tutti una delle più grandi riflessioni sull’identità di tutta la serata, legata prettamente alle nostre origini. Egli ha infatti dichiarato che:

il Teatro Antico di Taormina continua a vivere grazie alle sue rappresentazioni e al suo pubblico. Ed è proprio lì, alle origini della nostra Storia che risiede la nostra identità collettiva.

Su queste parole il Gala giunge al suo gran finale.

Antonella Ferrara conversa con Marina Abramovic
Antonella Ferrara conversa con Marina Abramovic

Taobuk: dove emozione e cultura si sposano

Anche quest’anno il Taobuk ha immerso il suo pubblico in un vortice di grandi emozioni e di grande cultura, donando l’opportunità di camminare tra i giganti e ascoltare le parole dei maestri.

Anche stavolta l’attesissima serata di Gala ha rappresentato il punto più alto di questo festival dove l’arte e la bellezza regnano, e che non vediamo l’ora di rincontrare il prossimo anno.

 

Marco Castiglia

Rosanna Bonfiglio

 

Taobuk 2024: i protagonisti e gli eventi in programma

Anche quest’anno, torna Taobuk, emblematico festival culturale della città di Taormina.

Nato dodici anni fa dal genio creativo di Antonella Ferrara, ora presidentessa e direttrice artistica dello stesso, il Taobuk è sempre stato intima espressione del fare arte. Un luogo di incontro fra letteratura, scienza e filosofia, ma anche musica, legalità, spettacolo e tanto altro, dove il confronto è ben accolto e la libera conoscenza e divulgazione sono solidi baluardi e motivo di orgoglio.

Negli anni, il festival ha proposto una serie di topic, tramite cui coagulare l’impegno attivo di varie personalità autorevoli.

Mentre nel 2023, abbiamo visto l’evento portare avanti disparati interventi, mostre, tavole rotonde e spettacoli incentrati sulla tematica della libertà, nel 2024, Taobuk presenta: Identità.

Per capire chi siamo – e perché siamo – il passaggio fondamentale è uscire da se stessi, percorrendo quella straordinaria esperienza che è la conoscenza e accettazione dell’altro. Vivere nella consapevolezza che non c’è identità senza alterità significa contribuire a piantare il seme del rispetto reciproco e plurale. È la vera grande missione della Cultura.

riporta la sinossi del programma.

Tramite grandi pensatori, Taobuk intende quindi veicolare un importante messaggio, cruciale alla luce delle recenti – e sanguinose – vicissitudini che hanno afflitto il panorama globale negli ultimi anni: ogni identità ha diritto di esistere ed estrinsecare se stessa, senza per questo limitare la libera espressione delle altre.

L’identità è un’impronta che non cancella quelle degli altri.

Bisogna riconoscerla, accettarla, accoglierla e rispettarla. È la sola speranza che ci rimane per non fare di ogni incontro uno scontro.

Questa edizione guarda all’ identità non come “io” ma come “noi” e pertanto identità che si pone coraggiosamente in relazione con l’altro, che accetta le diversità, che privilegia la capacità di ascolto, nella consapevolezza che si può affermare e difendere la propria identità senza dover ritenere che l’altro, il diverso da noi, costituisca una minaccia.

La XIV edizione inizierà giovedì 20 giugno e proseguirà fino alla giornata del 24. Fra gli oltre duecento ospiti d’eccezione, ricordiamo personaggi del calibro di Marina Abramović, Alessandro Baricco, Luciano Fontana, Jon Fosse e Ferzan Özpetek.

 

Eventi che segnaliamo: 

  • Giovedì 20 giugno, ore 18.00, giardino Palazzo Duchi di Santo StefanoQuanto è arrogante questo Occidente, con protagonista Piergiorgio Odifreddi.
  • Venerdì 21 giugno, ore 10.00, Palazzo CorvajaL’eterno divenire delle identità, intervento di Roberta Scorranese.
  • Venerdì 21 giugno, ore 11.00, Palazzo CorvajaIdentità come arma geopolitica, con Viviana Mazza, David Scharia, Roger Hearing, Alessandro Sallusti e Alessandro De Pedys.
  • Sabato 22 giugno, ore 10.00, Palazzo CorvajaQuale futuro?, ospiti Massimo Sideri e Andrea Prencipe.
  • Sabato 22 giugno, ore 15.00, Palazzo CorvajaAlgoritmi e lotta di classe, Paolo Landi in dialogo con Giuseppe De Belli.
  • Domenica 23 giugno, ore 12.00, Palazzo Duchi di Santo StefanoLe infinite possibilità di essere altro, con Fernando Arambaru.

Come ogni appuntamento, il sabato, giorno 22, si terrà presso il Teatro Antico la serata di Gala e la presentazione dei vincitori dei Taobuk Award. 

 

Un’ottima occasione per gli studenti di Unime per prender parte a questo prodigioso divenire e fluire di idee.

 

 

 

Fonte: https://www.taobuk.it/wp-content/uploads/2024/06/LOW_Programma-generale_12-giu.pdf

Fino a che punto ci si spinge per essere amati? Tanizaki e la sua Croce Buddista

La Croce Buddista: il dramma di un amore distruttivo e distruttore. Voto UVM – 4/5

 

Regione del Kantō, Giappone, annus horribilis 1923. Un devastante sisma di magnitudo 7,9 della scala Richter devasta Tokyo, Yokohama e tutte le restanti prefetture della regione. Uno scrittore trentasettenne ribelle ed ex enfant prodige ormai precipitato in un’infinita spirale di dissolutezza e disagio chiamato Tanizaki Jun’ichirō (rispettando l’onomastica giapponese il cognome precede sempre il nome) si vede obbligato a rifugiarsi a Osaka, nella regione del Kansai, per provare a ricostruire la sua vita già in pezzi e ulteriormente polverizzata dal sisma. È dall’incrocio di questa tragedia col dramma di Tanizaki che La Croce Buddista prende forma come romanzo a puntate nel 1928 per poi giungere ai lettori italiani attraverso i tipi di Guanda e grazie alla brillante traduzione di Lydia Origlia nel 1999.

“Oggi sono venuta a trovarla, Maestro, con l’intenzione di narrarle ogni cosa”

Esordisce così sul punto di piangere Sonoko, protagonista dell’opera, d’innanzi al suo stimato Maestro; ha finalmente deciso di rompere il silenzio sull’incredibile storia di come la sua vita e il suo matrimonio sono andati in frantumi. Il titolo originale de La Croce Buddista è 卍 (manji) e a partire dal simbolo della croce uncinata, tristemente noto in Occidente per gli orrori del Terzo Reich ma importante nella cultura buddista in quanto simbolo di pace e armonia, Tanizaki intesse attraverso le sue quattro braccia altrettante relazioni d’amore morboso tutte riconducibili a un unico e folle centro: la seducente Mitsuko.

Scrittura in calligrafia giapponese del carattere “manji”

Una rete di bugie non ci salverà

Il fil rouge dell’intera opera è la dipendenza. Un’emozione funesta, manifestazione di un amore crudele e “intarsiato di segreti” orchestrato da Mistuko in una rete di bugie che non fa altro che auto-alimentarsi. L’infedeltà nell’opera nasce dal pettegolezzo; Sonoko è felicemente sposata con Kotaro e frequenta con regolarità e dedizione un’accademia d’arte femminile. Il quieto vivere della donna è funestato da una voce di corridoio che la vedrebbe protagonista di una relazione saffica con la giovane compagna Mitsuko. Le due non si conoscono ma sodalizzano sino a rendere il pettegolezzo realtà. La menzogna diviene lungo tutto il romanzo un elemento multiforme, e il suo confine con la verità è reso impalpabile dalla disobbediente penna di Tanizaki.

L’intreccio dell’opera è complesso, anzi complessissimo, la narrazione di Sonoko è febbricitante ma impeccabile nella cura del dettaglio; porta con sé documenti, scritti e carteggi che rendono l’intero racconto una paradossale indagine sul desiderio umano di essere amati a tutti i costi.

Tanizaki Jun’ichirō

Come l’amore può distruggerci

“Certamente si divertiva solo per vanità ad accaparrarsi l’amore che riservavo a mio marito […] lei aveva potuto indovinare il mio punto debole: benché mi chiamasse «sorella maggiore», avevo finito con l’agire come una premurosa e sottomessa sorella minore”

“Sorella maggiore”, è così che Mitsuko si riferisce a Sonoko; con un termine usato nella cultura omossessuale nipponica per indicare l’individuo dominante all’interno di una coppia. La giovane amante nascondendosi dietro la conveniente etichetta di “sorella minore” regala alla narratrice una sensazione prima d’imbarazzo e poi di lusinga che muterà in un’irrefrenabile rabbia quando la più grande menzogna di Mitsuko verrà scoperta (o forse rivelata come estremo segno di onnipotenza?).

La Croce Buddista è un romanzo notturno di un sole di mezzanotte che non teme di nascondere la verità lì dove è più che visibile. Prende per mano il lettore trascinandolo in una serie infinita d’intrighi dal tipico gusto nipponico. Le note della traduttrice, puntuali ma non prolisse, illuminano e districano i riferimenti culturali più complessi rendendo il romanzo di Tanizaki godibile ad un pubblico che va ben oltre quello degli appassionati della cultura del Sol Levante.

Giuseppe Cangemi