C’era una volta il tempo. E ora?

«C’era un volta il tempo. Avete presente il tempo? Il tempo delle sveglie e quello del riposo, il tempo degli appuntamenti presi e saltati, il tempo che manca sempre, il tempo che non passa mai, il buon tempo di chi non ha niente da fare, i mala tempora che currunt senza andare da nessuna parte».

Si, purtroppo sappiamo a quale tempo si riferisce Simone Tempia, autore di “Vita con Lloyd”, la celebre raccolta di dialoghi tra Sir e il maggiordomo Lloyd.

Nel suo secondo libro “Il giardino del tempo”, Tempia ci accompagna alla scoperta del suo giardino: rigoglioso, pieno di fiori, alberi e frutti. Un giardino non sempre curato, a volte lasciato alle intemperie.

Il giardino si fa metafora del tempo, quel tempo che, come descriveva all’inizio, è un po’ frenetico, scandito dalla corsa della vita.

Siamo così bravi a correre e a rincorrere che potremmo diventare tutti maratoneti. Eppure poi esclamiamo “non ho neanche il tempo per andare a correre”. Un paradosso, insomma.

 

L’evoluzione del concetto del tempo

Ma andiamo indietro proprio nel tempo.

Il concetto di tempo è molto antico ed è stato uno degli oggetti di riflessione che più ha affascinato i grandi pensatori, tanto da studiarne ogni piccolo frammento. Componente centrale della nostra quotidianità ed esperienza del mondo, fa riferimento alla “dimensione con cui si concepisce, organizza, rappresenta e misura lo scorrere degli eventi e il susseguirsi di stati”.

Continuità illimitata ma suddivisibile, distinguibile in passato, presente e futuro.

Una suddivisione che Dickens traccia abilmente attraverso il suo romanzo “Christmas Carol”. Durante quella notte di Natale, il tempo si comprime e si dilata in un processo astratto e contraddittorio,  che fugge da ogni fondamento scientifico.

Periodo andato, istante trascorso, presente che svanisce, futuro incentro: è sempre una questione di tempo. Una fiamma che arde senza mai consumarsi, pronta a illuminare un passato coperto da fitte tenebre.

 

Henri Bergson: uno scorrere continuo e indivisibile

Henri Bergson, filosofo francese del tardo XIX e inizio XX secolo, ha offerto una distinzione tra un tempo scientifico e misurabile, e un tempo vissuto, introducendo il concetto di durée”, come flusso continuo e indivisibile che è percorso internamente, riflettendone la coscienza e l’esperienza soggettiva.

Per Bergson la durata della vita è interna, fluida, indivisibile, al contrario dello spazio che risulta esterno, statico e divisibile.

La visione di Bergson pone l’accento sull’importanza dell’esperienza soggettiva e qualitativa del tempo, centrale per la nostra comprensione. Questa prospettiva invita a riconoscere che il tempo vissuto è fondamentale e non dovrebbe essere ridotto a una semplice dimensione misurabile come lo spazio.

La memoria ha un ruolo essenziale: collega il passato con il presente, mantenendo la continuità della durata.

Quindi, se per il filosofo francese lo spazio è una forma che frammenta e esteriorizza il flusso continuo, la durée abita dentro ognuno di noi, regolando la nostra coscienza. Questo mette in luce la profondità della nostra esperienza interna e critica la riduzione del tempo a una mera dimensione quantificabile.

 

Come sperimentiamo lo scorrere degli eventi?

«Scandisco la vita attraverso nuove unità di misura[..]. E così mi sono creato il mio tempo tutto verde. Un tempo che non è più fatto di numeri, ma di arbusti. Un tempo di ciò che cresce e anche i ciò che secca. Un tempo di cui aver cura. Un tempo che non cammina, ma che si attraversa, osservando tutto quello che c’è e quello che manca. Un tempo in cui tutto, a suo modo, ha un senso».

Attenzione, memoria ed emozioni sono i principali meccanismi cognitivi coinvolti nella codifica e nella manipolazione delle informazioni temporali. Si tratta di un fenomeno che guida tutta la nostra vita. Ci consente di organizzare ed eseguire le azioni, di orientarci in modo coerente a ciò che ci circonda.

Non è solo lo scorrere degli anni, dei mesi, delle settimane, dei giorni, delle ore, dei minuti e dei secondi. Non è solo una continuità quotidiana, una relazione con lo spazio in cui ci troviamo. Non è neanche una scatola vuota che dobbiamo riempire con tutta la nostra vita, con gli impegni, le preoccupazioni, i pensieri.

 

Il tempo della consapevolezza

Il maggiordomo Llyod definisce il tempo come un campo da coltivare, quello che scorre tra un prima e un poi. Fornisce un’idea di quanto qualcosa è cambiato nel suo divenire. Proprio come un giardino, che non dà subito i suoi frutti, non profuma all’istante di rosa o di lavanda.

Aristotele sostiene che per avere una percezione del tempo sia necessaria una mente capace di misurare, accentuando il nesso che intercorre tra tempo e anima.

Dunque, il tempo si definisce in relazione al soggetto che ne fa esperienza. E siamo noi i contadini che ci premuriamo di coltivare il nostro campo, senza fretta, aspettando quel soffio di vento che ci ridesti dalla frenesia di un tempo che si allontana dalla durée bergsoniana e dalla pazienza di Llyod.

Non importa quanto grande sia ciò che facciamo nel nostro tempo. O quanto grande pensiamo che debba sembrare.

Qualunque cosa fai, se sai come viverla e inserirla nel tuo tempo, può trasformarsi in un giardino ancora più verde.

 

Fonti:

https://www.treccani.it/enciclopedia/henri-louis-bergson/

 

Elisa Guarnera

Dietro il personaggio: Dr. Jekyll e Mr. Hyde

“Ti accorgerai a tue spese che nel lungo cammino della vita incontrerai molte maschere e pochi volti.

Le parole di Pirandello dettano la sceneggiatura nel teatro dell’esistenza. Ognuno aderisce al proprio ruolo, rifuggendo lo sguardo del pubblico. La platea osserva sorpresa i suoi attori.

Lo disse anche Schopenhauer: sul palco “nessuno si fa vedere com’è“. Sembrerà di osservare un novello Dr. Jekyll tentare di nascondere l’impetuoso Mr. Hyde.

Si alza il sipario sulla surreale pièce di cui il dualismo è leitmotiv. Immaginiamo, per qualche istante, di essere parte della folla accalcata sotto il palco.

Un riflesso sotto la maschera

Ecco recitare il primo dei protagonisti. Entra in scena un uomo alto e robusto, dall’aspetto impeccabile. “Liscio in volto“, la sua espressione lascia trasparire “comprensione e bontà“. Jekyll indossa, tuttavia, una grottesca maschera che ne cela l’io recondito. Ad ogni gesto sembra che Hyde chieda a gran voce di essere liberato.

Al centro del teatro, la luce riflette la sua mostruosa ombra sugli spettatori terrorizzati. Sfondo di questa grottesca pièce è la cupa Londra vittoriana.

Al calar del sole, un timido riflesso si proietta sull’ampolla che Jekyll tiene tra le mani. Una figura dall’aspetto “detestabile” compare, mentre il pubblico osserva spaesato. Il rispettabile dottore ha trangugiato in un sorso quella strana pozione, perdendo di colpo se stesso.

“l’uomo non è in verità uno, ma duplice.” La mano trema, lasciando cadere al suolo la fiala. Questa frase risuona nei corridoi della mente di Jekyll. Il rispettabile dottore londinese, ormai smascherato, rivela la sua vera natura.

Hyde, grottesca faccia dell’altra medaglia, prende il sopravvento. Il pubblico guarda disgustato la repentina trasformazione. L’attore al centro del palco, sembra non avere nulla che si possa definire umano.

Basso e pallido, dava una peculiare “impressione di deformità”. Il viso di Jekyll è a malapena coperto da quella maschera esteriore che inibisce ogni suo primitivo istinto. Si riescono a distinguere solo pochi frammenti di quest’anima tormentata.

Se il mondo è teatro, l’austero dottore è interprete d’eccellenza.

In una gelida serata invernale, la fitta nebbia di Londra, fa da contorno a questo lugubre quadro. Intanto i lugubri edifici, appaiono quasi come mostri addormentati. Un silenzio tombale soffoca la città, ma viene rotto dai passi del malvagio Hyde.

In quello stesso momento, sotto lo sguardo di Erebo, qualcosa si muove anche nella lontana Edimburgo. Una figura, con passo elegante ma deciso, si muove nell’oscurità. Un ghigno illumina il suo volto. Sa che ora, col favore delle tenebre, potrà agire indisturbato. Non ha bevuto alcuna pozione, eppure, anche lui partecipa a questa lugubre pièce.

Dalla platea, ad osservarlo, c’è anche Stevenson. Probabilmente, in quel momento, la storia del tormentato Jekyll prende forma tra i suoi pensieri.

Si mormora un nome, ormai dimenticato tra le pagine della storia. La gente lo chiama William Brodie.

 

                                            Poster d’epoca, raffigurante i due protagonisti

“Deacon” Brodie: il vero dr. Jekyll

Immaginiamo, seppure per qualche istante, di trovarci nei panni di un contemporaneo di Brodie. Nella sua Edimburgo, ci accorgiamo che quest’uomo è, in realtà, benvoluto e rispettato.

Mentre Londra, la “metropoli d’incubo”, fa da contorno alle vicende del Dr. Jekyll, ora ci spostiamo in Scozia. Il giovane Brodie lavora come ebanista, professione ereditata dal padre. Inoltre, è lo stimato leader – o Diacono, il soprannome Deacon deriva da questo suo titolo – della “Corporazione di falegnami e scalpellini“.

Nel teatro della vita, tuttavia, anche lui recita inconsapevolmente la sua parte. A stento la maschera aderisce al volto.

Durante il giorno, lavora per quella stessa nobiltà che, durante la notte, è incauta vittima delle sue incursioni. Inizialmente il suo travestimento gli permette di recitare questa parte indisturbato. Al calar del sole, però, l’inganno è svelato.

In una Londra ancora assopita, la furia di Edward Hyde esplode contro Danvers Carew. In quello stesso momento, Brodie, si aggira per i vicoli della sua Edimburgo. La luce della luna, a malapena, ne sfiora l’ombra.

Guardingo, si aggira per Cowgate, nella parte bassa della sua città natale. Gettati gli utensili da carpentiere, eccolo apparire la sua vera natura. “Deacon” Brodie si mescola con mille altri uomini, distratti dal vizio.

Ivi, si abbandona ad uno stile di vita sregolato. Stevenson ne parlerà menzionando la “montagna di contraddizioni” che lo opprime. Ben presto, infatti, sarà la sua “sordida avarizia” a tradirlo.

Brodie, per anni, era riuscito a sfruttare le sue abilità: di giorno installava meccanismi di sicurezza e serrature nelle case dei più abbienti cittadini di Edimburgo; la sera, invece, sfruttava i duplicati delle chiavi che, con altrettanta maestria, produceva.

Aiutato da due complici, George Smith e John Brown, le sue azioni incutono “terrore nei cuori dei ricchi”. La storia di Brodie, tuttavia, ha raggiunto l’atto finale. Il Diacono e i suoi seguaci tentano, invano, di prendere d’assalto l’Ufficio delle Accise. Il tentativo di rapina, si conclude con un nulla di fatto. I colpevoli, in un goffo tentativo di fuga, si disperdono.

Una “fuga per un pelo”, gli permette di raggiungere l’Olanda. Qui, ad Amsterdam, termina la sua epopea. Ricatturato, viene condannato alla forca. Un curioso aneddoto racconta che fu proprio lui a costruire quello stesso patibolo.

Cala, così, il sipario. Tuttavia, anni dopo, c’è chi giura di aver incrociato lo sguardo, per le strade di Londra, con un uomo “alto e ben vestito”. Che si trattasse di un redivivo Brodie?

Un ritratto di William “Deacon” Brodie, ripreso da “An Account of the Trial of William Brodie: And George Smith”

                    Manuel Mattia Manti

Fonti

https://www.historic-uk.com/HistoryUK/HistoryofScotland/Deacon-William-Brodie/

https://archive.org/details/trialofdeaconbro00brod/mode/2up

https://www.britishlibrary.cn/en/articles/man-is-not-truly-one-but-truly-two-duality-in-robert-louis-stevensons-strange-case-of-dr-jekyll-and-mr-hyde/

https://www.forbes.com/sites/abrambrown/2019/10/25/bogeyman-and-gentleman-the-real-life-dr-jekyll-and-mr-hyde/

https://www.undiscoveredscotland.co.uk/usebooks/steveson-edinburgh/chapter04.html

https://archive.org/details/trialofdeaconbro00brod/page/8/mode/2up

Manuel Mattia Manti

Gli “Amori disperati” di Pavese

Quel po’ d’anima

“Le parole sono il nostro mestiere. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro.”

Così parla Cesare Pavese in una delle sue opere più celebri, quando racconta di quel “Mestiere di vivere” che fa apparire l’uomo quasi come un artigiano.

Prometeo, dalla sua argilla, creò l’uomo che, a sua volta, darà un contorno, sulla bianca tela, ad un inquieto mondo interiore. Proprio qui, il giovane Pavese scorge le sagome, tanto luminose quante distanti, delle moderne Pleiadi che lui, Orione dei nostri tempi, osserva in silenzio.

La prima di queste figure viene chiamata affettuosamente Milly. Lei, attrice, recita inconsapevolmente una parte nel primo atto della vita del poeta piemontese. Lui, dalla platea, la osserva di sfuggita e ogni suo sguardo è stenografo di una storia ancora al suo prologo.

“Quel poco d’anima” che conosceva della giovane bastò a scatenare una tempesta d’emozioni, che troveranno via d’uscita solo grazie alle lettere che il poeta le scriverà. Ma il giovane Cesare, “perduto sotto la pioggia”, per riprendere le parole di De Gregori, lo sa: l’acqua sbiadisce l’inchiostro.

E lui rimane lì, ai margini di una storia di cui a malapena riesce ad annotare non mere parole ma sguardi.

Sospinto oltre il suo porto sicuro, ormai, il tormentato cuore del poeta ha iniziato la sua Odissea, in un mare tutt’altro che quieto, rischiando di naufragare sugli scogli dell’incertezza.

Inquietudine, questa, che fa da preludio ai tormenti sentimentali del poeta, leitmotiv delle vicende che, su carta, prendono vita.

Carla Mignone, la “Milly” di cui ci parla il giovane Pavese

 

Sentimenti al confino

“Gli amori di un timido sono sempre più seri di quelli di uno sfrontato.”

Frase, quest’ultima, che meglio descrive la vita sentimentale dello scrittore.

Dall’inchiostro della sua penna, sembrano tracciati i confini di una parete invisibile”. Essa separa Pavese da colei che chiamerà, affettuosamente, la “Donna con la voce roca”.

Ma l’amore dello scrittore non riuscirà mai a varcare le sbarre della sua indifferenza, come il rapporto tra Stefano e Concia non supererà quelle dell’incomunicabilità e della solitudine.

Sullo sfondo, due storie (e altrettante delusioni), con lo stesso epilogo. Entrambi condannati per difendere la donna di cui si erano invaghiti. E allo stesso modo, nessuno dei due, riceverà la tanto attesa lettera dell’amata.

Ma, mentre l’esilio di Stefano è limitato alle righe di un romanzo, quello del poeta sbatte sulle catene della realtà. Anche quando potrà lasciare la Calabria, dove si trovava, le mura dell’inquietudine continueranno, però, a tracciare i contorni di un vero e proprio confino interiore.

E in questo enorme Panopticon, dal quale scorgiamo incertezze e sentimenti, palpita inascoltato il martoriato cuore di un Pavese ormai disilluso.

D’altronde, citando Werther, l’uomo felice è una creatura che dimora nella nostra fantasia. Qui è relegato in una prigione cui fa da sfondo, come quella “quarta parete” citata dal poeta, il placido mare dell’inquietudine. All’orizzonte nessun porto sicuro, l’ Odissea sentimentale dell’autore piemontese lo conduce per altri mari, mostrandogli altrettante rive.

Nella bufera, a tuonare è quello che Pavese stesso ricorda come un attimo di “lucida follia”, quando la Pizzardo rifiuta la sua proposta di matrimonio. Ma lo scrittore, dalla “Donna con la voce roca” non si separerà tanto presto. Anzi, negli anni a seguire, ella rimarrà musa di versi e parole.

Incanalati in una stilografica, fidata compagna, Pavese comincia così a delineare i contorni di quel che definirà “Il mestiere di vivere”.

Tina Pizzardo, la “donna dalla voce roca”

 

“Tu, Vento di Marzo”

“Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è starci seduto vicino e sapere che non lo potrai avere mai.”

Chissà a cosa pensava García Márquez, quando scrisse queste poche parole. Sembra quasi facciano eco all’ultimo atto della tormentata Odissea del poeta piemontese, definendo i tratti di una trama già vista.

A dipingerne il tema, ancora una volta, la solitudine. Ormai, ella è quasi una compagna inseparabile, ancor di più dopo quelle che, tra i versi, ricorderà come le “serate di Cervinia”.

È il periodo in cui ogni battito e tremore hanno un nome: quello di Constance Dowling, giovane attrice americana di cui il poeta s’invaghisce. La definisce “vento di marzo”: è lei che ridesta il “torrente del cuore”, ispiratrice di versi che scandiscono le sue ultime, monotone, giornate.

Moderna Beatrice, “Connie” rappresenta l’aurora di una vita ormai al crepuscolo, avvinta da quel “vizio assurdo” che, infine, vincerà Pavese.

Ma la giovane ritorna in America, lasciando incompiuta la sceneggiatura di una vita con lo scrittore. Copione che ci parla, a tratti, di un Leandro dei nostri tempi, separato, non solo fisicamente, dalla sua Ero, a causa della lontananza. Leandro morirà in balia delle acque, come Pavese naufragherà nel mare del suo stesso dolore.

Chissà se, nel leggere le ultime battute di questa tragedia, Connie si fosse resa conto che, nei pensieri di Pavese, la morte aveva i suoi occhi color nocciola.

Il poeta e l’attrice, Constance Dowling

 

 

Manuel Mattia Manti

 

 

Fonti

https://www.sololibri.net/amori-donne-Cesare-Pavese-libri.html

https://www.unionesarda.it/3-minuti-con/cesare-pavese-e-lamore-per-tina-la-donna-che-voleva-essere-solo-unamica-irft6zil

https://www.ingenere.it/articoli/pioniere-tina-pizzardo-anticipo-sui-tempi

https://rivistasavej.it/lung/2016-2020/lamore-secondo-cesare-pavese-7b5ca736c081

https://glicineassociazione.com/cesare-pavese-e-lesperienza-del-confino-in-calabria/

https://www.harpersbazaar.com/it/cultura/libri/a37490166/constance-dowling-chi-e-amante-pavese/

https://www.ultimavoce.it/constance-dowling-lultimo-amore-di-cesare-pavese/

http://www.torinocittadelcinema.it/pdf/prono2.pdf

 

Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio

L’effetto Werther è un fenomeno psicologico e sociologico secondo cui la rappresentazione romantica del suicidio nei media può indurre comportamenti emulativi, soprattutto tra i giovani e le persone vulnerabili. Il termine nasce dal romanzo I dolori del giovane Werther (1774) di Johann Wolfgang von Goethe, in cui il protagonista, sopraffatto da un amore impossibile, si toglie la vita con un colpo di pistola. Continua a leggere “Effetto Werther: il tragico fascino del suicidio”

Genio e dannazione: la vita inquieta di Charles Baudelaire

Dall’armonia all’inquietudine: la svolta nella vita di Baudelaire

Charles Baudelaire nasce a Parigi il 9 aprile 1821, in una vecchia casa del Quartier Latin, al numero 13 di Rue Hautefeuille, dove oggi si trova la “Librairie Hachette”.

Considerato il simbolo del “poeta maledetto”, Baudelaire incarna la gioventù bohemienne, vivendo tra eccessi di alcool, assenzio e droghe, e combattendo contro le proprie fragilità mentali e fisiche.

La sua infanzia trascorre felicemente tra l’affetto della madre e il lusso del padre, un uomo anziano con inclinazioni artistiche. Tuttavia, la sua vita subisce una svolta drastica con il secondo matrimonio della madre con il maggiore Jacques Aupick, futuro generale, ambasciatore e senatore.

Baudelaire soffre profondamente questa unione e sviluppa un’avversione irriducibile per il patrigno, portandolo a un progressivo distacco dalla famiglia e a una vita sempre più ribelle e instabile.

La sofferenza come fonte di ispirazione

L’esistenza del poeta è segnata da alloggi precari, debiti, instabilità mentale e vari tentativi di suicidio.
La precarietà economica lo costringe a dipendere spesso dagli aiuti materni, mentre il suo spirito inquieto e tormentato lo spinge a esplorare l’arte sotto prospettive nuove e radicali.

Baudelaire non si piega alle convenzioni e trasforma le sue angosce in opere poetiche di straordinaria potenza, capaci di tradurre la decadenza e la bellezza del mondo in versi memorabili.

Il rapporto con Victor Hugo: ammirazione e critica

Baudelaire entra nel mondo della letteratura quando Victor Hugo è già un’icona del Romanticismo francese. Dopo un’iniziale ammirazione per il grande scrittore, sviluppa un rapporto contrastante con lui, criticando l’abbondanza stilistica e la visione morale dell’arte. Baudelaire ritiene che il poeta non debba avere la missione di guidare l’umanità, ma piuttosto cercare la purezza artistica.
Nel suo “Salon de 1845” accusa Hugo di aver influenzato negativamente intere generazioni di artisti con il suo sentimentalismo eccessivo. Tuttavia, col tempo, modera le sue critiche, riconoscendo il contributo di Hugo alla letteratura francese, pur continuando a preferire autori come Théophile Gautier, che incarnano una visione dell’arte più rigorosa e libera da intenti morali.

Simbolismo e poesia: il ruolo de L’Albatros e Correspondances

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I fiori del male – Poemetti in prosa. Collana: i Grandi Scrittori Stranieri II-43

Nel 1857, Charles Baudelaire pubblica la sua opera più celebre, Les Fleurs du Mal, un capolavoro che rivoluziona la poesia moderna e anticipa il Simbolismo. Il libro viene censurato per immoralità e alcune poesie vengono bandite, ma la sua influenza si rivelerà incalcolabile.
Baudelaire sostiene che l’arte non debba avere un fine sociale o morale, ma debba servire esclusivamente la bellezza e la ricerca di verità nascoste nel mondo.

All’interno della raccolta emergono due poesie emblematiche della sua poetica: L’Albatros e Correspondances.
L’Albatros rappresenta il dramma del poeta, paragonato all’albatros, un uccello maestoso in cielo ma goffo e vulnerabile sulla terra. Questo simbolismo esprime il contrasto tra la grandezza dell’ispirazione artistica e la difficoltà di adattarsi alla realtà quotidiana.
Correspondances, invece, introduce l’idea delle corrispondenze tra i sensi e il mondo spirituale, un concetto chiave del Simbolismo. In questa poesia, Baudelaire sviluppa la teoria secondo cui la natura è un tempio di simboli che l’artista deve decifrare, una visione che influenzerà profondamente la letteratura successiva.

Le Poète est semblable au prince des nuées 
Qui hante la tempête et se rit de l’archer;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher

Il Poeta è simile al principe delle nubi,
che sfida la tempesta e ride dell’arciere;
ma esiliato a terra, tra il dileggio della folla,
le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.

L’Albatros

In Les Fleurs du Mal, Baudelaire esplora anche il conflitto tra due stati d’animo opposti: lo Spleen e l’Ideale. Lo Spleen rappresenta una profonda malinconia, un’angoscia esistenziale e un senso di disperazione di fronte alla banalità della vita quotidiana. Al contrario, l’Ideale simboleggia l’aspirazione alla bellezza, alla perfezione e a una realtà trascendente. Attraverso questa dicotomia, Baudelaire illustra la lotta interiore del poeta, diviso tra la ricerca di un ideale sublime e la realtà opprimente dello spleen.

L’ultimo periodo: malattia e morte

La sua salute, però, peggiora progressivamente. Nel 1866, viene colpito da un ictus che gli provoca una grave afasia e paralisi. Ricoverato alla “Clinique Hydrotherapique” di Chaillot, le sue condizioni rimangono stazionarie per mesi. Il 31 agosto 1867, alle 11 del mattino, muore a soli 46 anni, senza che Les Fleurs du Mal abbia trovato un nuovo editore.

L’eredità immortale di Baudelaire

Oggi, Baudelaire è considerato uno dei più grandi poeti di tutti i tempi. La sua arte, nata dal tormento e dal desiderio di trascendere la realtà, continua a influenzare generazioni di scrittori e artisti. Con il suo coraggio espressivo e la sua ricerca di una bellezza superiore, ha lasciato un’eredità immortale, capace di parlare ai cuori inquieti di ogni epoca.

 

Fonti:
Il sole nero dei poeti, Maria Luisa Belleli
I fiori del male – Poemetti in prosa, Charles Baudelaire

Dino Buzzati: sogni e attese nei suoi Sessanta racconti

Quando Dino Buzzati pubblica, nel ’58, Sessanta racconti ha già alle spalle un’avviata carriera. La sua produzione è cospicua sia per la prosa lunga – il suo capolavoro, Il deserto dei Tartari, è approdato in libreria nel ’40 per la Rizzoli – sia per quella breve, avendo infatti già scritto diverse sillogi.

“Sono le 57 e un quarto”

I temi trattati dallo scrittore bellunese sono legati quasi tutti a un mondo fiabesco e puro, che probabilmente lo scrittore apprendeva dall’osservare la natura incontaminata durante le sue passeggiate in montagna.

Tuttavia, quella che potrebbe sembrare una realtà tranquilla, di nuvole e natura serena, copre un mondo spesso angosciante, duro e giudicante. Lo si nota in particolare in Non aspettavano altro, in cui i due protagonisti vengono torturati per un crimine inesistente. Questo racconto, come altri, ha quell’aria angosciosa tipica degli incubi: sono da sogno, infatti, la sensazione di impotenza quanto l’urlo che muore in gola prima ancora di poter essere lanciato.

Dino Buzzati. Fonte: Archivio Farabola

Sempre riguardo al tema dell’incubo, che è tra i più frequenti nella raccolta, notiamo uno degli aspetti più condivisibili della narrativa buzzatiana. A chi non è mai successo di leggere, mentre sognava, orari impossibili sugli orologi? È quello che capita al Buzzati-personaggio in All’idrogeno, dove ” Sono le 57 e un quarto “.  È in questo racconto che brilla un aspetto fondante della raccolta: l’attesa, onirica e frequente, di un qualcosa di sconosciuto, il dover andare ad un ritmo non sempre sentito come personale.

Nei sogni come nella veglia, quasi tutti i personaggi di Buzzati sono spettatori di un mondo di cui non sono veramente parte attiva, che difficilmente è comprensibile o giustificabile, appunto, come un incubo in cui l’orologio punta le 57 e un quarto.

La quotidiana ipocrisia in Dino Buzzati

In Buzzati l’inquietudine nasce proprio da quella normalità borghese che permeava la quotidianità che lo stritolava nella noia. Sono le piccole differenze dal normale vissuto a stupire i protagonisti, spesso portandoli a vere e proprie crisi esistenziali. Basta un’anomala goccia che sale le scale a turbarci (nel racconto Una goccia) o anche il progredire in una fantasia sfrenata da bambini, che porta al disastro (ne Il borghese stregato). È nella vita di tutti i giorni, quella in cui si annidano le paure più morbose, recondite o imbarazzanti, che i personaggi alieni o fantastici fanno emergere l’ipocrisia della vita di quotidiana.

Sono voci misteriose, o mostri insospettabili, a far sparire gli idilli in cui si nascondono i protagonisti di una silloge in cui perfino gli insetti hanno una loro rivalsa sulla tracotanza umana.

Il colombre disegnato da Dino Buzzati.
Il colombre disegnato da Dino Buzzati.

I non idilli di Dino Buzzati e Italo Calvino

Leggere Sessanta racconti non può che farci sentire i più piccoli abitanti di un cosmo senza limiti, ma sicuramente anche i più arroganti e ottusi. Questa, in fin dei conti, è anche la più grande differenza con il fantastico in Italo Calvino: se Buzzati parte dal quotidiano per “far urlare il più possibile gli oggetti familiari” (citando una frase di Magritte) fino ad arrivare al mondo delle fiabe, Calvino attraverso il fiabesco ci parla del quotidiano.

Sarebbe un grande errore, d’altra parte, credere che gli scritti di Buzzati siano leziose e pedanti critiche. Dietro l’angoscia o la più pura ansia di alcuni racconti ci sono vere e proprie perle di una fantasia sfrenata che mira semplicemente a divertire e che non può essere chiusa nelle maglie di uno spicciolo moralismo.

Carlo Rotondi

L’eternità di J.R.R. Tolkien al MessinaCon 2024

Esattamente cinquantuno anni fa, il 2 settembre del 1973, moriva John Ronald Reuel Tolkien lasciando ai
posteri un patrimonio letterale di valore inestimabile.

Il professore di Oxford, filologo, glottoteta, linguista e scrittore, è ricordato ancora oggi, a distanza di
settant’anni dalla prima pubblicazione de Il Signore degli Anelli, come autore di uno dei più grandi cicli
narrativi del XX secolo.

Ma per quale motivo la materia tolkeniana è stata a lungo una tematica spinosa da affrontare nel nostro Paese?

In occasione del MessinaCon24 ne abbiamo discusso con Stefano Giorgianni, linguista di formazione,
traduttore dall’inglese e dal russo, caporedattore di Metal Hammer Italia e presidente e socio-fondatore
dell’Associazione Italiana Studi Tolkeniani.

«Diciamo che il discorso parte da molti, molti anni fa. È stata una tematica complessa da affrontare non dal punto di vista letterario, ovviamente, ma da un punto di vista socio-politico, se vogliamo metterla in questi termini. Come sappiamo, un po’ di anni fa Tolkien era stato preso come uno degli autori alfieri di una certa particolare destra, che lo aveva un po’ “strumentalizzato.

Per fortuna quegli anni sono passati e molti studiosi si sono impegnati per tirare fuori Tolkien da quel calderone; siamo riusciti a portarlo un po’ ovunque, e senza alcun pregiudizio. Ti racconto una curiosità: quando nel 2017 ho tentato di organizzare un convegno tolkeniano a Verona, me l’hanno respinto, perché pensavo fosse un autore collocato politicamente. Ed è stato pochi anni fa! Per fortuna il nostro lavoro come Associazione Italiana Studi Tolkeniani, ma anche di molti studiosi esterni, ha aiutato a riportare Tolkien dove deve essere, ovvero in un ambiente assolutamente neutrale. Per chi vuole leggerlo, amarlo ed approfondirlo in tutte le salse… però solo da un punto di vista letterario, ecco!»

Le opere di Tolkien, un classico da riconoscere

Sin dalla sua fondazione l’AIST (Associazione Italiana Studi Tolkeniani) pone al centro del proprio operato il riconoscimento delle opere di Tolkien come classici della letteratura, battendosi affinché esse arrivino a divenir parte della formazione degli studenti italiani.

«Se vogliamo ricordare i classici che ci propinano a scuola continuamente» ci ha detto Giorgianni «Possiamo far rifermento a “I Promessi Sposi”: tu arrivi ad odiarlo, quel libro, perché continuano ad importelo per forza… però se lo leggi a distanza di anni, vedi che ha delle caratteristiche perfettamente applicabili anche ad un tempo contemporaneo. Questa è, secondo me, anche la lingua immortale di Tolkien.»

Sono proprio quelle caratteristiche presenti all’interno de Il Signore degli Anelli – quegli eterni valori di lealtà, amicizia e coraggio – che lo rendono un classico della letteratura.

«Ci è servita da questo punto di vista la traduzione di Fatica, uscita ormai da qualche anno.» ha continuato il presidente AIST «È stata una rivisitazione utile a rinfrescare un po’ l’opera, anche se molti, essendo cresciuti con i film di Jackson, erano affezionati alla traduzione vecchia. Ma cosa fa una traduzione? Una traduzione serve anche per rivisitare il messaggio dell’originale, non serve soltanto a scatenare battaglie inutili, che non servono a nulla da un punto di vista socio-letterario.»

Stefano Giorgianni ci parla di Tolkien ai nostri microfoni. © UniVersoMe

Il caso delle traduzioni tolkeniane

Alla luce delle polemiche inerenti alla nuova traduzione di Ottavio Fatica, abbiamo chiesto a Giorgianni, nonché traduttore della History of Middle-earth edita da Bompiani, se nel suo operato temesse il giudizio dei lettori più “conservatori”.

«Non è che l’ho temuto, lo abbiamo ricevuto quando è uscito il sesto volume.» ci ha raccontato. «Noi siamo vincolati alle scelte di Bompiani da un punto di vista dell’onomastica, della toponomastica, eccetera, perché dobbiamo usare per forza quello che è stato deciso in riferimento alle scelte di Fatica. Noi non possiamo
inventarci ex novo delle cose, dobbiamo usare quello che c’è, ed in più tradurre quello che manca, ma dobbiamo partire da quello è già in commercio. Anche perché è necessaria un’uniformità da un punto di vista editoriale, cosa che è sempre mancata. Adesso uscirà la nuova traduzione de “Lo Hobbit” di Wu Ming 4 e sappiamo che ci saranno delle polemiche: è inevitabile. Il problema è – quello che dico sempre – non bisogna lasciare per troppi anni una traduzione in commercio, perché sennò poi la gente pensa che quello sia il libro originale.

Una traduzione, bene o male, è sempre un’interpretazione del traduttore, qualcosa che dipende dai tempi che corrono in quel momento, quando viene tradotto, ed il linguaggio che viene usato. Sempre nel rispetto del linguaggio dell’autore. Però il testo originale rimane. Puoi esserci attaccato affettivamente, perché ci sei cresciuto, ma la nuova traduzione è un nuovo capitolo. E fra quindici anni ce ne sarà un’altra e la generazione che cresce adesso, con la traduzione di Fatica, fra quindici anni magari protesterà…ma il libro di Tolkien resterà quello. Quindi la traduzione non deve essere un feticcio da adorare. Bisogna sempre far riferimento al testo originale.»

 

Tolkien
Il linguista Stefano Giorgianni con la redattrice Valeria Giorgianni. © UniVersoMe

L’opera di Tolkien, un saggio di estetica linguistica?

Nel parlarci della nuova traduzione de Il Signore degli Anelli, Stefano Giorgianni ci ha anche spiegato i motivi per cui la più celebre opera di Tolkien è, a tutti gli effetti, un saggio di estetica linguistica.

«Una cosa di cui ci ha fatto accorgere Ottavio Fatica durante la traduzione è che, ad esempio, quella di Tolkien non è una vera e propria prosa, ma è quasi sempre una poesia. Tolkien non viene mai considerato un poeta, invece – questo si vede soprattutto attraverso la History – lui era fondamentalmente un poeta. Se tu vai a leggerlo in inglese – cosa che Fatica ha tentato di riportare in italiano – c’è un metro anche nella prosa. Oltretutto Tolkien ha inventato delle lingue, quindi è anche un trattato linguistico. Ha inventato delle razze che parlassero quelle lingue. Ci sono diversi strati. Il Signore degli Anelli da questo punto di vista ha un livello di analisi che è molto stratificato e prima che si arrivi alla fine manca ancora molto.

La profondità e le sfaccettature dell’opera di Tolkien, da un punto di vista filologico e linguistico, lo portano assolutamente alla definizione di saggio di estetica linguistica.»

Ma cosa significa concretamente creare una lingua, come ha fatto Tolkien?

Ci ha risposto il presidente AIST:

«C’è da dire che, quello che ha fatto Tolkien, secondo me è abbastanza irripetibile. Si sono visti spesso, in altri romanzi fantasy, dei popoli che parlano delle lingue, ma spesso è la lingua funzionale al popolo. In Tolkien è accaduto un po’ l’inverso. La potenza di Tolkien è quella di essere riuscito, da filologo e linguista, ad applicare quello che noi potremmo chiamare un mondo scientifico delle lingue in un romanzo. Perché le lingue di Tolkien – non tutte sono così particolareggiate, però linguisti successivamente le hanno comunque approfondite – hanno una struttura che è veramente da lingua artificiale vera e propria.

Se leggi la History hai un profilo dei primi vocabolari che sono approntati da Tolkien. È difficile trovare questo in un altro universo che non sia il suo. Per non dire che le lingue di Tolkien si possono anche parlare, se si vuole. Per dirti: analizzando soprattutto il linguaggio nero, che non è tra quelli di cui abbiamo più informazioni, si scorgono anche tante doti ed influenze glottologiche e linguistiche di un Tolkien accademico. Non è sicuramente una cosa “rapportabile” ad un autore che non avesse la sua formazione linguistica, secondo me. Questo lo porta ad un livello superiore rispetto agli altri, ancora adesso.»

Ed è così che J. R. R. Tolkien continua ancora oggi ad emozionare e stupire i propri lettori che, di generazione in generazione, testimoniano l’unicità di questo eterno autore che non si smette mai di (ri)scoprire.

 

Valeria Giorgianni

 

  • L’intervista è stata effettuata durante l’evento organizzato da Eriador Messina durante il MessinaCon 2024. 

Antoine De Saint-Exupéry: lo scrittore con la testa fra le nuvole

Ottant’anni fa veniva a mancare Antoine de Saint-Exupéry, uno degli autori più influenti del ‘900 grazie al suo capolavoro: Il Piccolo Principe. Oggi, in occasione dell’anniversario della morte avvenuta durante una missione aerea, vogliamo ricordare lo scrittore e la straordinaria eredità delle sue opere.

Antoine de Saint-Exupéry, il poeta aviatore

Nasce a Lione il 29 giugno 1900 da una famiglia aristocratica. Fin da piccolo, nonostante si dimostri da subito un ragazzo intelligente, non riesce ad applicarsi ed essere disciplinato e attento a scuola. Non sono d’aiuto i rapporti con i compagni che lo prendono in giro per la forma del naso e per il suo stare con lo sguardo rivolto verso l’alto.

“È un poeta che fa l’aviatore. Di solito gli aviatori non scrivono poesie e di solito i poeti non fanno gli aviatori. […] Lui ha bisogno di stare nell’aria, è il suo elemento, ma l’aria e l’aeroplano senza una casa, un porto, un aeroporto verso il quale volare non ha senso” –Prof. Raniero Regni (Ordinario di Pedagogia Sociale presso il Dipartimento di Scienze Umane della LUMSA di Roma) su Antoine de Saint-Exupéry

Durante la sua vita, oltre a essere pilota civile e militare, ha scritto diverse opere, di cui molte dedicate proprio alla sua passione per il volo. Ricordiamo infatti L’aviatore (1926), Terra degli uomini (1939), Il pilota e le potenze naturali (1940) e  Pilota di guerra (1942). Molti suoi scritti furono pubblicati dopo la sua morte, come ad esempio Lettere alla madre (scritte tra il 1910 e il 1944 e pubblicate nel 1953) e Reportage (1982).

Antoine de Saint-Exupéry. Fonte: Duecento Pagine
Antoine de Saint-Exupéry. Fonte: Duecento Pagine

Il successo de “Il Piccolo Principe”

Ma l’opera di Saint-Exupéry che ha fatto innamorare il mondo è indubbiamente Il Piccolo Principe. Il libro esce negli Stati Uniti nel 1943, dove l’autore è esule dalla Seconda Guerra Mondiale, e nel 1945, un anno dopo la sua morte, spopola in Francia. Di questo racconto, dalla struttura simile a quella di una fiaba, sono state stampate 134 milioni di copie in tutto il mondo e in ben 220 lingue, facendolo diventare così il terzo libro più letto al mondo dopo Il Capitale di Karl Marx e La Bibbia. Ancora oggi sulle librerie di ragazzi e adulti compaiono nuove e vecchie edizioni del libro, a testimonianza del fatto che sia quasi un testo imprescindibile per la crescita dei lettori.

La trama e la missione del libro

La trama narra di un pilota di aerei che, dopo essere precipitato nel deserto del Sahara, incontra proprio il Piccolo Principe. Quest’ultimo, capendo che anche l’aviatore ha una certa sensibilità, comincia a raccontarsi. Le vicende con l’amica Volpe, l’amore per la sua Rosa, riescono a descrivere con delicatezza inaudita e semplicità argomenti profondi che anche un lettore esperto e imbarcato può trovare commoventi. Sono tanti gli insegnamenti che traspaiono da questo libro, tanto da poterlo considerare un piccolo romanzo di formazione senza tempo o target di età. Tutti gli incontri che il Piccolo Principe fa, le varie strade che nel corso della sua vita il suo essere può imboccare, rappresentano le diverse possibili sfaccettature della natura umana. È un viaggio nella profondità di ognuno di noi e proprio per questo può far scaturire significati diversi anche in base all’età del lettore.

Dal film “Il Piccolo Principe” di Mark Osborne (2015). Fonte: Elapsus

L’eredità di de Saint-Exupéry

Molti gli artisti che hanno reso omaggio ad Antoine de Saint-Exupéry. Hugo Pratt, fumettista di fama mondiale, ha realizzato un fumetto, “Saint-Exupéry. L’ultimo volo”, sulla vicenda della morte. Francesco De Gregori, nell’album “Terra di Nessuno” (1987), ha inserito il brano Pilota di guerra, dedicata a lui. Inoltre nel 1995 il regista francese Jean-Jacques Annaud gli dedica un cortometraggio biografico dal titolo Wings of Courage. Questi e tantissimi altri artisti cercano volentieri di rendergli omaggio per tramandare la profonda lezione d’amore che trasporta nelle sue pagine. Peraltro di questo bestseller sono stati realizzati un film d’animazione (per la regia di Mark Osborne nel 2015) e una serie televisiva per Rai Fiction da tre stagioni (tra il 2010 e il 2016).

Antoine de Saint-Exupery è scomparso nel 1944 a soli 44 anni. Tuttavia, l’eredità che ci ha lasciato attraverso le opere ha un valore inestimabile per gli argomenti e il modo con cui è riuscito a trattarli. Egli riesce a trasmettere attraverso i suoi personaggi riflessioni e insegnamenti a chiunque lo legga, diventando vere e proprie pietre miliari delle nostre vite.

 

Rosanna Bonfiglio

Bianca Garufi e Cesare Pavese, tra amore e mitologia

Cesare Pavese e Bianca Garufi sono definiti dallo stesso scrittore torinese una “bellissima coppia discorde”. Ma chi sono davvero? Lei di culla romana, lui di Santo Stefano Belbo, sono senza dubbio due dei fiori all’occhiello di Casa Einaudi; ed è proprio lì che si incontrarono nel 1944, nella sede romana della storica casa editrice.

Bianca Garufi tra Letojanni e Via Centonze

Cosa lega Bianca Garufi alla nostra Messina? Da una lettera del 30 agosto 1945, mandata da Letojanni, leggiamo:

Vorrei sapere qualcosa di te, se stai bene, se sei ancora così crudele. […] Scrivimi, se vuoi, a Messina V. Centonze 102.5″

Si dà il caso che la madre della donna, Giuseppina Melita, sia l’unica sopravvissuta della sua famiglia al terremoto del 1908; motivo per cui la giovane Bianca, agli albori del suo intreccio amoroso con lo scrittore, passava le estati sull’isola siciliana tra Letojanni, Messina e Siracusa. Forse è per questo suo appartenere alla Magna Grecia che il mito le scorre nelle vene; e probabilmente dobbiamo a lei la stesura dei Dialoghi con Leucòuno degli ultimi capolavori di Cesare Pavese.

Bianca Garufi all’epoca (dal volume “Una bellissima coppia discorde”, C.G.G., 2023)

I “dialoghetti” con Leucò

Il 10 gennaio 1948 Cesare Pavese scrive a Bianca che stava studiando il greco: nel frattempo stava scrivendo i suoi Dialoghi con Leucò. È fuor di dubbio che, per l’opera, lo scrittore si sia fatto ispirare dalla figura della giovane amante, che però per sua sfortuna non la apprezzò poi così tanto, definendo i componimenti dei meri “dialoghetti“.

Non è da considerarsi un caso, però, che Leucò (Λεῦκος) in greco voglia dire “bianco“. E neanche che il cardine attorno cui gira l’opera sia la mitologia, tema caro sia a Bianca che a Cesare. Pavese vede il mito come un momento rifondativo e utilizza nomi noti per trattare dell’umanità tutta e di questioni universali. Parlando della mitologia scrive nel febbraio del ’46, nel suo diario, Il mestiere di vivere:

“Potendo, si sarebbe volentieri fatto a meno di tanta mitologia. Ma siamo convinti che il mito è un linguaggio, un mezzo espressivo […] una particolare sostanza di significati che null’altro potrebbe rendere.”

Dialoghi con Leucò e una pagina del volume “Una bellissima coppia discorde” – foto di Giulia Cavallaro

Il “caos vitale” di Bianca

La letteratura di Cesare Pavese è senza dubbio influenzata dagli amori che si susseguono durante la sua vita. E Bianca è per lui un fiume, come lui stesso la definirà in una lettera dell’ottobre del 1945: lei, senza saperlo, ha la forza di trascinarlo con sè, dirà lui stesso. Bianca, una donna curiosa, irrequieta, che poco aveva a che fare con un uomo come Cesare Pavese.

Bianca, come va il tuo caos vitale? Non riordinarlo troppo, perchè allora ti sparirà anche l’interesse alla vita. Tienilo giudiziosamente a mezz’acqua. E se stai troppo bene a Letojanni, scappa. Non mangiare il loto.” (lettera del 3 settembre 1945)

Quello che però senza dubbio Bianca Garufi non sapeva è che probabilmente fu lei ad ispirare i suoi dialoghetti, che Pavese definisce “un libro che nessuno legge e, naturalmente, l’unico che vale qualcosa” (lettera del 25 agosto 1950 a Nino Frank).

Il rapporto tra i due si sfilaccerà a partire dal 1947, anche se la loro corrispondenza non terminerà mai del tutto fino al febbraio 1950: nel loro carteggio si legge in trasparenza un tenero affetto che non terminò mai davvero, nonostante l’amore fosse finito. Sarà proprio ai Dialoghi con Leucò che Cesare Pavese affidò le sue ultime parole. Il 27 agosto 1950, prima di togliersi la vita nell’Hotel Roma di Torino, scrisse in un biglietto che lasciò all’interno di una copia del libro: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”

Ed è questo l’epilogo della “bellissima coppia discorde”. 

Giulia Cavallaro

*Le citazioni sono tratte dai seguenti libri:

Una bellissima coppia discorde,Il carteggio tra Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950), a cura di Mariarosa Masoero, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2023

Pavese Cesare, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 2020

Pavese Cesare, Lettere 1926-1950 (vol.2), a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1968

 

Ni cummini quantu a Giufà

In ogni angolo della Sicilia si parla dello sciocco Giufà e delle sue peripezie da credulone.

Un grande personaggio che intratteneva grandi e piccini, prima che il mondo dei cartoni animati e dei social facesse sfumare l’arte del cantastorie e delle tradizioni popolari.

In pochi sanno che Giufà non è soltanto un personaggio popolare della tradizione siciliana, ma anche uno di quella spagnola e soprattutto araba.

L’etimologia del nome 

Si pensa che Giufà provenga dall’arabo, ma a darci qualche informazione in più è l’origine del suo nome.

Una cosa è certa, l’etimologia racchiude le qualità del personaggio.

Dal Nuovo vocabolario siciliano, si evidenzia che comunemente il nome Giufà derivi dal nome Giovanni; tuttavia, a

Nasreddin Khoja Fonte: Wikipedia

 

noi piacciono le storie e siamo andati ad indagare la “vera” etimologia del nome, animati dal desiderio di scovare un significato più goliardico, e così è stato.

Gioieni Giuseppe, nella sua opera interamente dedicata all’etimologia delle parole siciliane, sostiene che il nome derivi dallo spagnolo Ciufà, che indica la burla, lo scherno. Difatti, la tradizione ci tramanda racconti di gesta comiche.

Per altri Giufà non è un personaggio di fantasia inventato dalle mamme per intrattenere i più piccoli, ma in realtà è Nasreddin Khoja, un personaggio storico del XI secolo realmente esistito in Turchia.

 

In letteratura

Se per l’etimologia del suo nome, non vi è alcun dubbio, Giufà è lo sciocco del villaggio, qualche incertezza sussiste circa la sua apparizione letteraria.

Alcuni collocano la sua prima testimonianza scritta nel XVII secolo per mano di due poeti siciliani, Venerandu Ganci e Mamo da Cianciana, che inauguravano un nuovo personaggio da aggiungere alla letteratura umanista tipica di Boccaccio.

Giuseppe Pitrè – Fonte: l’identità di Clio

Altri sostengono che la prima apparizione del personaggio nella letteratura  avvenne grazie allo studioso delle tradizioni popolari, etnologo, medico e scrittore Giuseppe Pitrè intorno al 1845. Calvino, proprio in occasione della trasposizione del personaggio tipico della tradizione orale, disse : «al centro del costume di raccontar fiabe è la persona – eccezionale in ogni villaggio o borgo – della novellatrice o del novellatore, con un suo stile, un suo fascino. Ed è attraverso questa persona che si mutua il sempre rinnovato legame della fiaba atemporale col mondo dei suoi ascoltatori, con la Storia».

È curioso scoprire che diversi scrittori del Novecento hanno trasportato Giufà nelle loro opere.

Italo Calvino, recuperò il nome per soprannominare Gurdulù, lo scemo del villaggio, nella sua opera Il cavaliere inesistente; Leonardo Sciacca intitola un’opera Giufà e il cardinale.

Nelle storie che vedono protagonista Giufà, coesistono l’eroe e l’antieroe, impersonificati in scenari di ironia e beffa, sarcasmo e benevolenza, con temi attuali che invogliano alla critica verso il potere sociale.

Maldestro ma furbo, essere paragonati a Giufà può essere utilizzato in senso positivo, ma anche in senso negativo. Solitamente in Sicilia si usano tra i modi di dire “fari u Giufà” e “ni cummina quantu a Giufà”.

Il personaggio nella tradizione siciliana

Vediamo insieme le sfaccettature di questo personaggio, che si adatta ad ogni contesto culturale.

In Sicilia, il paragone con il personaggio di Giufà serve ad indicare chi è privo di furbizia e in preda ai più disparati malfattori.

Difatti, le storie che ruotano attorno al personaggio di Giufà lo ritraggono vittima di furti avvenuti con estrema facilità.

La trama della storia che fece la sua prima comparsa nell’opera di Pitrè prende spunto da consuetudini bucoliche nella Palermo del tempo, quando briganti e malfattori invogliavano i ragazzi a scambi di prelibatezze, sottratte furtivamente dalle dispense di casa, con promesse mai mantenute.

D’altronde, Giufà è il tipico fanciullo di campagna poco istruito che si esprime in modi di dire, racconti tramandati dalla madre e vive alla giornata in modo ingenuo, cacciandosi sempre nei guai.

Nella tradizione reggina

Nella tradizione reggina troviamo una piccola eccezione al Giufà siciliano, pur rimanendo nel background di un fanciullo sciocco. In questa versione, Giufà, al momento opportuno, si difende dagli attacchi, impersonando i caratteri della tradizione giudaico-spagnola del ragazzetto sciocco ma furbo, che si adatta alla circostanza in cui si trova.

Insieme a Giangurgolo e alle storie di Fata Morgana, diventa un volto amatissimo dal popolo calabrese.

Nella tradizione giudaico-spagnola

Nella tradizione giudaico-spagnola, viene presentato come un personaggio dal carattere ambivalente, passando dal non saper acquistare neanche da mangiare al nutrire chi avesse fame, ed è anche il ribelle che si prende a cuore le questioni sociali.

Il Giufà della tradizione giudaico-spagnola è un cavallo il cui valore si vede a lunga corsa.

Essere Giufà

Giufà è anche il titolo di un ciclo di racconti tragicomici interminabili e autoconclusivi. È sicuramente un personaggio del Novecento pensato come comico ma estremamente riflessivo.

È un personaggio che si ama per le sue sciocchezze e ingenuità, e ci sorprende per le sue risposte secche e furbe. Per questo vogliamo lasciarvi con due brevi storie che racchiudono il senso del “sii nu Giufà”:

Il barbiere maldestro

Giufà andò da un nuovo barbiere per radersi i capelli.

Il barbiere, non avendo molta pratica ed avendo una mano malferma, ad ogni taglio gli procurava una ferita che veniva prontamente saturata con un batuffolo di cotone. Ben presto una prima metà del capo di Giufà fu ricoperta da tanti batuffoli per evitare la fuoriuscita di sangue.

Quando il barbiere prese a radere l’altra metà della testa, Giufà gli chiese sarcasticamente: “Visto che già metà della mia testa l’hai seminata a cotone, cosa pensi di coltivare nell’altra parte?”.

 Giufà e i ceci

Giufà e i tre ceci
Giufà e i tre ceci
Fonte: colapisci.it

Un giorno la madre di Giufà andando a Messa raccomandò al figlio di mettere due ceci in pentola a bollire in modo tale che quando tornava sarebbero stati pronti.

Dopo un poco che la madre era uscita Giufà eseguì l’ordine ricevuto. Quando la madre tornò trovò la pentola che borbottava sul fuoco ma quando alzò il coperchio si accorse che dentro l’acqua i ceci non c’erano.

Infuriata, rimproverò aspramente il figlio per non averla ascoltata ma Giufà si difese dicendo: “Ho fatto più di quanto mi hai detto, ho messo in pentola ben tre ceci invece di due! Poi per controllare la cottura ho assaggiato il primo, per vedere come era di sale ho mangiato il secondo ed infine per vedere se era ancora duro ho mangiato il terzo! Per questo sono finiti!”. La madre, allora, esasperata, cominciò a picchiarlo con un cucchiaio di legno sulle gambe senza aggiungere altro.

 Elena Zappia

Fonti

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuf%C3%A0

https://www.treccani.it/enciclopedia/giufa_%28Enciclopedia-Italiana%29/

https://www.tempostretto.it/news/cultura-giuf-eroe-siciliano.html

https://www.e-genius.it/Trinakria/sicilianelcuore.info/tradizioni/index.php?content=giufa

https://www.sololibri.net/Storie-di-Giufa-origine-varianti-riscontri.html

https://www.experiences.it/archives/7324