Il reale numero dei contagiati è maggiore, bisogna rifare i calcoli

Andrà tutto bene
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Sono trascorse più di quattro settimane dalla diagnosi di positività al SARS-CoV-2 del primo italiano, successivamente definito “paziente uno”. È stata quindi immediatamente attivata una task force allo scopo di risalire all’identità di un potenziale “paziente zero” che avesse importato il virus in territorio italiano. Le ultime evidenze ci orientano verso la Germania: dalle parole dell’infettivologo M. Galli il virus potrebbe originare da un iniziale contagio in territorio tedesco avvenuto tra il 25 e il 26 Gennaio. L’ipotesi più verosimile è che il virus sia quindi in circolazione da molto più tempo rispetto a quanto ci dicano i dati.

Nel frattempo, nonostante tutte le misure straordinarie per limitare il contagio, il numero di soggetti con diagnosi di Covid-19 è aumentato sia in Italia che nel resto dell’Europa e del mondo. Al momento abbiamo superato i 200.000 casi totali con una letalità compresa tra l’1 e il 10% a seconda della regione geografica presa in considerazione.

Le direttive dell’OMS per la conferma di un caso positivo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità prevede l’esecuzione di un tampone per confermare la diagnosi dei casi sospetti. Il test consiste nel prelievo di materiale a livello nasale e orofaringeo e la successiva analisi alla ricerca degli acidi nucleici del SARS-COV-2. Si tratta di un esame impegnativo che difficilmente può essere proposto in larghissima scala, specie nell’ipotesi di effettuarlo a tappeto in Paesi con decine di milioni di abitanti.

Alcuni studi suggeriscono di dare importanza anche al quadro radiologico dei casi sospetti, che permetterebbe di fare diagnosi in un numero addirittura superiore di soggetti se paragonato al tampone. La metodica tuttavia rimane al momento di solo supporto alla diagnosi, che è confermata dal tampone come da direttive OMS.

L’approccio è diverso da parte delle nazioni: l’esempio della Corea del Sud

Fin dall’inizio della pandemia i Paesi hanno organizzato il lavoro di diagnosi e controllo dei contagi in modo non uniforme. Interessante l’approccio della Corea del Sud che trae un’importante esperienza dalla MERS, un’altra epidemia fronteggiata fino a pochi anni fa causata da un Coronavirus. In questo Paese i tamponi si fanno addirittura in auto con l’obiettivo di raggiungere quanti più soggetti possibili, anche se asintomatici. Sono state messe in atto persino misure che hanno generato qualche perplessità in materia di privacy come l’applicazione Corona 100m che, incrociando i dati GPS, della videosorveglianza e le transazioni, localizza i casi positivi e permette di monitorarne gli spostamenti. Ad oggi in Corea sono stati effettuati oltre 280.000 tamponi di cui soltanto circa il 3% (8.320) sono risultati positivi.

In Corea del Sud il test si effettua anche in auto
Focus – In Corea del Sud si effettuano i tamponi anche in auto

In Italia si procede in modo diverso

Nel nostro Paese l’approccio è stato fin’ora differente. Il tampone è previsto, soprattutto nelle aree più colpite dove la richiesta è altissima, principalmente per i soggetti che presentano un quadro respiratorio grave, associato ad altri elementi diagnostici caratteristici dell’infezione. Questo approccio, almeno per il momento, esclude gran parte dei soggetti asintomatici o paucisintomatici dalla possibilità di ricevere il tampone.

In Italia sono stati infatti effettuati meno di 150.000 tamponi di cui oltre il 20% (31.506) è risultato positivo. Ciò significa che nel nostro Paese si fanno meno tamponi per unità di popolazione, molti dei quali risultano positivi dato che coinvolgono più spesso soggetti già sintomatici, quindi con un decorso clinico potenzialmente peggiore.

I limiti del tampone orofaringeo

Il classico tampone orofaringeo sembrerebbe presentare dei limiti, ancora non perfettamente quantificabili. In uno studio cinese effettuato su circa 200 pazienti sono state valutate varie sedi biologiche dove effettuare la ricerca del virus. L’espettorato e il tampone nasale e orofaringeo non sempre fanno diagnosi con certezza, ma perdono alcuni casi potenzialmente positivi (fino a 3 su 10, ma il numero di dati analizzati è comunque basso e quindi poco significativo).

Percentuali varie sedi di prelievo per tampone

Questa limitazione della sensibilità della metodica può essere superata facendo più tamponi in tempi diversi. Altrimenti, in casi selezionati, è possibile effettuare, attraverso una tecnica che prende il nome di lavaggio broncoalveolare, un’analisi del materiale presente a livello dei piccoli bronchi e degli alveoli, con una corretta diagnosi nella quasi totalità dei casi.

Quella che vediamo è solo la punta dell’iceberg, ma c’è del buono

La saturazione del Sistema Sanitario nelle zone italiane più colpite, associata alle modeste limitazioni del tampone, determina il fatto che gran parte dei soggetti asintomatici o paucisintomatici non riceveranno una diagnosi. L’OMS ci suggerisce che per ogni persona che richiede l’ospedalizzazione ci siano quattro soggetti asintomatici. Sulla base di questo rapporto è possibile ipotizzare che quella che vediamo sia solo la punta dell’iceberg e i soggetti infetti siano molti di più di quanto ci dicano i numeri.

Uno studio della fondazione GIMBE ipotizza che ad oggi in Italia possano esserci fino a 100.000 contagiati, di cui circa 70.000 casi non identificati.

Questa può essere letta, in parte, come una buona notizia: infatti permetterebbe di rivalutare il tasso di letalità dell’infezione in Italia. Questo valore fa molto preoccupare dato che raggiunge livelli molto alti (fino al 10%) in alcune zone del nostro Paese. La letalità si calcola mettendo in rapporto i decessi legati alla malattia e i casi identificati della malattia stessa (confermati quindi dal tampone). Se il numero effettivo dei contagiati, com’è verosimile credere, è notevolmente più alto, allora il tasso di letalità sarebbe più basso e in linea con quello di altri Paesi.

Anche se il Coronavirus così può fare meno paura, gli effetti di un rapido aumento delle ospedalizzazioni rimangono devastanti per il Sistema Sanitario, già allo stremo prima dell’emergenza. Soltanto evitando i contatti tra le persone e quindi isolando gli asintomatici potremo ridurre i contagi e tornare, al più presto, ad apprezzare il valore della normalità.

Antonino Micari

Coronavirus e Influenza: facciamo chiarezza

Fin dall’inizio della diffusione del SARS-CoV-2 è stata fatta molta confusione con la comune influenza. La carenza di dati e la stretta somiglianza dei sintomi d’esordio hanno fortemente disorientato l’opinione pubblica.

Oggi però si sta delineando in modo sempre più chiaro il profilo del nuovo virus, della patologia di cui è responsabile e dei provvedimenti corretti da seguire.

COVID-19 e influenza: i virus responsabili

Il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 è responsabile della COVID-19, dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease (malattia) e “19” indica l’anno in cui si è manifestata.

I coronavirus sono virus a RNA capsulati che causano malattie respiratorie di gravità variabile, dal raffreddore comune alla polmonite fatale. Dei numerosi ceppi di coronavirus, diffusi in diversi animali, sono 7 quelli patogeni per l’uomo. Quattro di questi ceppi sono responsabili di un semplice raffreddore comunetre invece causano infezioni respiratorie molto più gravi, e talvolta fatali:

  • il SARS-CoV, responsabile della “Sindrome respiratoria acuta grave“, patologia con una mortalità media del 10%, che varia significativamente per età, fino a oltre il 50% per età ≥ 65 anni; la SARS è stata rilevata per la prima volta in Cina alla fine del 2002 e si è diffusa in oltre 30 nazioni, con oltre 8000 casi nel mondo e 774 decessi, per spegnersi poi nel 2004;
  • il MERS-CoV, responsabile della “Sindrome respiratoria del Medio Oriente“, identificata nel 2012 in Arabia Saudita e responsabile ad oggi di circa 2500 casi in 27 Paesi e almeno 850 decessi;
  • il SARS-CoV-2, responsabile della COVID-19, così chiamato per la forte somiglianza con il SARS-CoV, dal quale si distingue per la letalità molto minore.

Il SARS-CoV-2 non è quindi né il primo né il più letale dei coronavirus già conosciuti, ma ha una maggiore velocità di diffusione.

L’influenza propriamente detta è determinata invece dai virus influenzali della famiglia degli Orthomyxoviridae, divisi in gruppo A, B e C in base a specifiche caratteristiche. Tuttavia, molte centinaia di altri virus possono causare sindromi parainfluenzali (causate dai Paramyxovirus) o  simil-influenzali (compresi alcuni ceppi di coronavirus), con sintomi sovrapponibili.

Le modalità di trasmissione e i sintomi d’esordio

Sia i virus influenzali e parainfluenzali, sia il SARS-CoV-2, condividono le stesse modalità di trasmissione ed una sintomatologia iniziale aspecifica.

La trasmissione avviene soprattutto per via aerea, attraverso le cosiddette “particelle di Flügge“. Si tratta di microgocce di saliva emesse soprattutto con tosse e starnuto che veicolano, sospese nell’aria, agenti infettivi di numerose patologie, fino alla distanza di oltre 1 metro.
I virus possono essere trasmessi anche per contatto diretto o indiretto tramite oggetti, sui quali i diversi virus sopravvivono per tempi variabili (alcune ore per il SARS-CoV-2).

La sintomatologia dell’influenza è quella che ognuno sperimenta quasi ogni anno. Dopo un periodo asintomatico di incubazione, mediamente di 48 ore, nei casi lievi si limita a un semplice raffreddore comune. Nei casi più manifesti si aggiungono febbre, tosse, malessere, stanchezza, dolori ossei e muscolari, cefalea anche intensa e a volte disturbi gastrointestinali come nausea, vomito e diarrea.

La COVID-19 ha un esordio più subdolo, tant’è che l’incubazione può protrarsi fino a 14 giorni secondo le prime stime. Quindi insorgono i sintomi che, nei primi 5 giorni, secondo un recente studio del Chinese Center for Disease Control, sono rappresentati da febbre, che nel 99% dei casi è il primo sintomo, tosse secca presente nel 68% e faticabilità nel 38%, dolori muscolari e cefalea nel 14% ed in una percentuale ridotta prevalgono nausea e diarrea (4%).

L’esordio delle due patologie è quindi praticamente identico, il che pone la necessità, per fare diagnosi precoce ed evitare la diffusione del virus, di eseguire tamponi per la diagnosi già ai primi sintomi aspecifici.

Le possibili complicanze e la letalità

Qui le principali differenze tra le due patologie.

Per quanto riguarda l’influenza, nella massima parte dei casi i sintomi si calmano entro 5 giorni e si ha guarigione completa in 1-2 settimane. La complicanza più comune è la sovrapposizione di un’infezione batterica a carico dell’apparato respiratorio, che può portare a bronchite ed aggravarsi fino a sviluppare una polmonite batterica secondaria. Può essere interessato anche l’orecchio con otite, sinusite, soprattutto nei bambini, ma anche complicanze a carico dell’apparato cardiovascolare (miocardite) e del sistema nervoso, oltre che l’aggravamento di malattie preesistenti. Più della metà dei casi complicati si registrano nei soggetti di età superiore ai 65 anni.

La COVID-19 invece, secondo l’ultimo rapporto dell’OMS del 9 marzo, è causa di:

  • infezioni lievi o asintomatiche nell’80% dei casi;
  • forme severe nel 15% dei casi, complicate da una polmonite primaria data dallo stesso SARS-CoV-2 che si manifesta intorno al 5°-7° giorno dall’esordio dei sintomi e richiedono ossigenoterapia;
  • infezioni critiche nel 5% dei casi, che richiedono ventilazione assistita.

Riguardo la letalità dell’influenza, secondo le stime del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia ogni anno circa il 9% della popolazione è colpito dall’influenza (5-8 milioni di persone), con un numero di morti diretti che oscilla tra i 300 e i 400 e con un numero di decessi che oscilla tra i 4 mila e i 10 mila per chi sviluppa complicanze gravi a causa dei virus influenzali.
Il tasso di letalità è globalmente basso, inferiore allo 0,1%, ma estremamente significativo se si considera l’elevato tasso di incidenza.

La mortalità per COVID-19 si attesta ad oggi, mediamente, al 3-4% dei casi, ed è strettamente dipendente dall’età del soggetto.

Inoltre, un soggetto affetto da COVID-19 trasmette il virus mediamente a 2-2.5 persone, molto più rispetto all’influenza (circa 1.3), il che giustifica le strette misure necessarie per contenere i contagi.

Le possibili terapie e il punto della situazione

Per l’influenza esistono sia vaccini, rinnovati annualmente, che farmaci antivirali efficaci nei casi complicati.
Tali presidi invece sono inefficaci contro il SARS-CoV-2: ad oggi l’unica terapia è quella di supporto supporto in ambiente ospedaliero. Tuttavia la ricerca di farmaci specifici e di un vaccino è già estremamente attiva.

COVID-19 e influenza sono dunque due patologie estremamente diverse, se non per il loro esordio. Così come COVID-19 è una patologia diversa da altre epidemie e pandemie che si sono verificate in passato. In realtà, dati alla mano, non avrebbe neanche senso fare un paragone.

Come spesso è accaduto in passato, ci si trova davanti ad un virus del tutto nuovo, originato probabilmente dal cosiddetto “salto di specie” dagli animali all’uomo, che ha caratteristiche uniche che la comunità scientifica sta imparando a conoscere e ad affrontare.
A maggior ragione, è necessario evitare speculazioni e contenere la disinformazione, affinché ogni cittadino possa collaborare con il giusto senno in questa sfida.

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/situation-reports
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/32139372
https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2
https://ourworldindata.org/coronavirus
https://www.cdc.gov/flu/about/keyfacts.htm
https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2002032
http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioFaqNuovoCoronavirus.jsp?lingua=italiano&id=228#1