Legge sulla cittadinanza: in settimana un nuovo tentativo di riforma

Il Presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia, del Movimento 5 Stelle, depositerà un testo base che prevede il riconoscimento della cittadinanza italiana legato a un percorso scolastico: è stato chiamato ius scholae, ed è molto simile a quello che in passato è stato definito ius culturae. In merito a questa decisione, il Presidente ha dichiarato che:

Sono passati trent’anni dalla legge sulla cittadinanza e credo che un aggiornamento sia necessario mettendo al centro scuola e integrazione. Verificheremo in commissione le condizioni politiche per intraprendere questo percorso.

(fonte: ansa.it)

 

I dettagli della proposta

La proposta espande i criteri per ottenere la cittadinanza italiana. In pratica, il testo, che è composto da tre articoli, introduce un nuovo criterio per ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni. Stabilisce che un bambino nato in Italia o arrivato prima di avere compiuto 12 anni, possa fare richiesta di cittadinanza dopo aver fatto un ciclo scolastico di 5 anni, che può essere composto solo dalle elementari o da alcuni anni di elementari e altri di medie o superiori. In merito a ciò, Giuseppe Brescia ha dichiarato:

Credo che il modello dello ius scholae possa trovare un consenso largo, anche perché mette al centro il valore della scuola, il ruolo dei nostri insegnanti. È in classe che si costruisce la cittadinanza, l’appartenenza a una comunità. Ho lavorato su questo testo semplice che può essere approvato già in questa legislatura.

Da ciò si deduce che l’intento sia quello di arrivare a un accordo in tempi più rapidi. In commissione i numeri per l’approvazione di un testo base potrebbero esserci: voterebbero a favore il Movimento 5 Stelle, il Partito Democratico, la sinistra e parti del gruppo misto. Sia Matteo Salvini della Lega sia Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia hanno invece già dichiarato di essere contrari.

L’incipit della legge e i tentativi di riforma

Secondo la legge del 1992, l’ottenimento della cittadinanza italiana è attualmente regolato dal principio dello ius sanguinis (dal latino, “diritto di sangue”), ossia un bambino è italiano se lo è almeno uno dei genitori. Un figlio di  genitori stranieri invece, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento abbia risieduto in Italia legalmente. Successivamente, nel 2015, venne introdotto il concetto di ius soli, in combinazione con quello di ius sanguinis. Nel dettaglio, questa proposta di riforma prevedeva l’introduzione sia dello ius soli temperato che dello ius culturae: avrebbero potuto ottenere la cittadinanza i minori nati in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo, e anche i bambini e ragazzi nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato per almeno cinque anni un corso di studio. La proposta è stata approvata alla Camera il 13 ottobre 2015 e al momento la sua discussione è bloccata in Senato. Nel 2018 sono state avanzate altre tre proposte di riforma, presentate rispettivamente dalla deputata del Partito Democratico Laura Boldrini, dalla senatrice di Forza Italia Renata Polverini, e dal deputato Pd Matteo Orfini.

Dati sull’accoglienza nelle scuole

Questa legge è considerata carente da parecchio tempo, poiché ha escluso e continua a escludere migliaia di bambini, e ragazzi nati e cresciuti in Italia. Di fatto, essi sono subordinati alla condizione dei propri genitori, il cui permesso di soggiorno nel frattempo può scadere, compromettendo perciò la continuità di residenza richiesta dalla legge. Secondo gli ultimi dati del ministero dell’Istruzione, nell’anno scolastico 2019/2020 le scuole italiane hanno accolto complessivamente 8,5 milioni di studenti, di cui poco meno di 877 mila non hanno la cittadinanza italiana (pari dunque al 10,3 per cento del totale). Di questi ultimi, circa 710 mila frequentano la primaria e la secondaria di primo e secondo grado, cioè elementari, medie e superiori. Nel quinquennio 2015/2016 – 2019/2020, inoltre, il numero degli studenti “stranieri” nati in Italia è passato da oltre 478 mila a quasi 574 mila, con un incremento del 20 per cento circa.

 

I favorevoli alla riforma

La Presidente di Arising Africans, Ada Ugo Abara (fonte: avvenire.it)

Per la Presidente dell’associazione Arising Africans, Ada Ugo Abara, e il gruppo di attivisti dell’associazione, i requisiti della legge del 1992 sono considerati eccessivamente restrittivi. A Pagella Politica, Abara ha dichiarato che:

Le persone che nascono e crescono in Italia [da genitori stranieri] trascorrono 18 anni nell’incertezza più assoluta. Ci viene sempre chiesto di dimostrare di essere i cittadini migliori, campioni nel proprio ambito, senza il diritto a essere persone con percorsi ordinari

Di conseguenza, la riforma può rappresentare una svolta, poiché potrebbe «facilitare processi di inclusione sociale, pluralismo e partecipazione. Se anche la legge riconosce il diritto che le  persone hanno, le ultime resistenze e le narrazioni che le legittimano non possono che riconoscere la realtà». Appare chiaro ad Abara, dunque, che la politica:

non dovrebbe perdere l’occasione di fare la differenza sul piano dei diritti. Chiediamo a tutti di impegnarsi per una riforma entro la fine di questa legislatura. Non sarebbe la vittoria di una parte, ma un traguardo per l’intera società.

 

Federico Ferrara

 

Seminario “Il volto umano del diritto”: la testimonianza di Marco Cappato all’UNIME

L’incontro svoltosi l’11 marzo nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Messina, dal titolo “Il volto umano del diritto: visioni a confronto” verteva sul caso DJ Fabo-Cappato e di riflesso sull’ampio campo del fine-vita nell’ordinamento italiano. 

Il dibattito è entrato nel vivo dopo l’introduzione del prof. G. D’amico, docente di diritto costituzionale, e del prof. A. Randazzo, ricercatore di istituzioni di diritto pubblico; il nucleo della conferenza ha visto l’alternarsi delle argomentazioni di visioni differenti sul tema, espresse dai docenti: prof.ssa L. Risicato, ordinario di diritto penale, prof. A. Licastro, ordinario di diritto ecclesiastico, e prof A. Ruggeri, ordinario di diritto costituzionale, intervenuti per informare e far riflettere in merito alla disciplina italiana e i suoi limiti i partecipanti presenti all’evento, soprattutto giovani studenti, ma anche giuristi e avvocati sensibili all’argomento in questione. 

Da sinistra: il dott. Marco Cappato e gli altri ospiti – ©Ufficio Stampa UniMe, Aula Magna del Rettorato, 11 marzo 2019

Il discorso sicuramente più atteso, che di fatto non ha deluso le aspettative, è stato quello legato all’esperienza diretta di chi, come il dott. Marco Cappato, ha sempre operato in questo ambito tramite le sue personali battaglie sociali. 

Nel caso concreto e specifico, Marco Cappato, esponente dei radicali e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, nel febbraio del 2017, ha accompagnato Fabio Antoniani (DJ Fabo), divenuto cieco e tetraplegico in seguito ad un incidente, in una clinica svizzera, dove ha realizzato la sua volontà di porre fine alle sofferenze provocate dal proprio stato di salute.

Al rientro in Italia, Cappato riferisce quanto realizzato alle forze dell’ordine e decide di autodenunciarsi del reato di “istigazione al suicidio” previsto all’art.580 del codice penale, per il quale rischia dai 5 ai 12 anni di carcere. 

Ancora oggi è in attesa di giudizio, in quanto la Corte d’Assise di Milano ha sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale che, con ordinanza del 24 ottobre 2018, ha dato un termine di un anno al Parlamento Italiano per emanare una legge sulla questione. 

Il caso è divenuto di rilevanza nazionale già prima del 27 febbraio 2017, perché i due protagonisti avevano deciso di rivolgere un appello al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché esortasse il legislatore a proporre una disciplina che rendesse lecito il suicidio assistito, come in altri paesi. 

L’intervento da lui realizzato in qualità di testimone diretto, ha visto un’iniziale analisi proprio dell’articolo 580, evidenziando la necessità di un’interpretazione legata soprattutto agli interessi della società di oggi, profondamente diversi da quelli del 1930, anno in cui è entrato in vigore il nostro codice penale. 

Al termine della sua esposizione, Cappato ha rivolto al pubblico un quesito mediante un parallelismo:

“può esistere l’amore imposto? No, perché non sarebbe vero amore. Allo stesso modo, può esistere la vita imposta? No, perché non sarebbe vera vita.”

Marco Siligato

L’istruzione in discussione: il valore della laurea negli atenei del sud

Con voce tonante Matteo Salvini ha annunciato di volere rimettere mano a una questione che riguarda da vicino il futuro e l’inserimento nel mondo lavorativo dei giovani neolaureati o in procinto di laurearsi. Nella fattispecie la proposta in materia non rappresenta uno scenario nuovo; si tratta di dare avvio a una riforma, già discussa in passato, che intende abolire il valore legale della laurea e dei titoli di studio. Alla Scuola di Formazione Politica della Lega, lo scorso 12 novembre, il vicepremier ha usato queste parole: “Negli ultimi decenni sia la scuola che l’università sono stati considerati serbatoi elettorali e sindacali, semplici fornitori di documenti”. In spiccioli, il Ministro dell’Interno, ha detto che i luoghi in cui viene impartita l’istruzione sono dei vacui erogatori di titoli, degli spazi adatti a incastrare consensi politici. L’appello non è scivolato in basso, come le foto che Matteo Salvini posta su Instagram mentre si trova a cena (per fare un giro nei suoi social, dai un’occhiata qui), ma ha ricevuto una replica da Marco Bussetti, Ministro dell’istruzione: “È un tema di cui si dibatte da tanti anni, per adesso non è in programma, ma non è detto che in futuro non possa essere analizzato”. Almeno per ora la faccenda pare essersi sciolta in un grande nulla di fatto, l’ennesima misura grossolana e azzardata che attrae e incanta chi è in attesa di un forte scossone da parte della coalizione gialloverde.

Non è senz’altro la prima volta che la Lega si incammina su questa strada. La messa in discussione del titolo di studio è un tema che aveva già appassionato Umberto Bossi, e non senza però una valida e maliziosa attenuante, se ricordiamo la lunga trafila del figlio Renzo per ottenere il diploma, ma anche le più recenti notizie riguardo una laurea che avrebbe conseguito in Albania (link). Anche Maria Stella Gelmini aveva sollevato la questione che ha continuato in seguito a stare a cuore alla squadra del Prof. Mario Monti. I pentastellati, Beppe Grillo in primis, sono fautori di analoghe opinioni sulla faccenda, tanto che il 31 luglio scorso Maria Pallini, deputata del Movimento 5 Stelle ha depositato una proposta di legge che prevede «il divieto di inserire il requisito del voto di laurea nei bandi dei concorsi pubblici».

Ma prima di analizzare i motivi di questa posizione, chiariamo subito cosa si intende per valore legale della laurea:

Il principio del valore legale dei titoli universitari è sintetizzato nel Testo unico delle leggi sull’istruzione superiore (R.D. 31.8.1933, n.1592, art. 167). La riforma universitaria in Italia (DM 509/1999) che ha introdotto i nuovi titoli accademici di ‘laurea’ e di ‘laurea specialistica’, ha voluto confermare esplicitamente il principio del valore legale affermando che i titoli conseguiti al termine dei corsi di studio dello stesso livello, appartenenti alla stessa classe, hanno identico valore legale (art. 4.3) (fonte Wikipedia)

Quindi, il valore legale del titolo di studio indica il grado di ufficialità riconosciuto ai sensi della legge a un determinato certificato ottenuto in una Università. Abolire questo principio consente di mettere sullo stesso piano due lauree conseguite in due branche differenti, attribuendo un maggiore rilievo a caratteristiche diverse che non rientrano nelle conoscenze e nelle nozioni acquisite nel piano del corso universitario. In un documento, risalente al 2013, che si può trovare sul sito della Lega (link), ci sono alcuni dei motivi che hanno orientato questa scelta: “Oggi una laurea presa in una qualsiasi Università italiana ha lo stesso identico valore, ma sappiamo bene che diversi Atenei, soprattutto meridionali, offrono un servizio nettamente inferiore alla media. Questo squilibrio provoca la mancanza di concorrenza tra Atenei, ma soprattutto si ripercuote sul meccanismo dei concorsi pubblici che penalizza sistematicamente chi proviene dalle Università del Nord”. Nel libero mercato rappresenterebbe un progresso, secondo i fautori, perché in questo modo le università, chiamate a puntare sulla concorrenza e sulla qualità, farebbero a gara tra loro per primeggiare sulle altre in materia di formazione, accelerando così un processo virtuoso che porterebbe a uno sviluppo del sistema dell’istruzione superiore.

Peccato che Matteo Renzi aveva gridato che ci sono di fatto in Italia università di serie A e serie B già alcuni anni fa all’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Torino (link). Le differenze tra gli atenei verrebbero ad aumentare a dismisura, e ciò comporterebbe una ulteriore svalutazione delle università del sud, vessate da problemi reali e presunti, sulla scia anche di luoghi comuni non sempre fondati. Come avviene negli USA sarebbero valutati positivamente, nelle assunzioni ai concorsi, non tutti i laureati in una disciplina che hanno il massimo dei voti, ma solo coloro che provengono da conclamate istituzioni accademiche, collocate quasi tutte al nord. Questo porterebbe a un netto divario tra i ceti, fornendo “un’istruzione all’altezza” soltanto a chi può permettersela. Una soluzione quindi che ha poco di equilibrato, considerato anche il fattore discrezionale per stabilire quali sono i parametri che definiscono un’istruzione di qualità, e che, se diventasse una possibilità concreta, provocherebbe un ulteriore declino di un sud già penalizzato.

Eulalia Cambria