“Il mostruoso femminile”: la paura delle donne tra mito e cinematografia di massa

“La donna è sempre stata un mostro.
La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto.”

Si apre così Il mostruoso femminile, saggio di Jude Ellison Sady Doyle, pubblicato in Italia nel marzo del 2021 ed edito da Tlon. Al suo interno, l’autrice si avvale di molteplici fonti – in primis casi di cronaca nera, letteratura gotica e cinematografia horror – per ricercare i timori alla base delle storie terrificanti che da sempre il patriarcato perpetra sul femminile. La narrazione è suddivisa in tre parti: figlie, mogli, madri – gli unici ruoli che la nostra società legittima per una donna – e pone come fondamento della sua analisi miti e leggende popolari che hanno costituito la materia prima di tutte le opere moderne successive.

La copertina del saggio. Foto di Rita Gaia Asti

Fin dai primi capitoli l’autrice dimostra che le figure femminili demoniache, o in generale sovrannaturali, sono ritratte con connotati mostruosi perché paradossalmente forniscono un ritratto realistico di come sarebbero le donne se lasciate libere di comportarsi da esseri umani indipendenti.
Il primo passo con cui il patriarcato se ne assicura la sottomissione, e dunque la de-umanizzazione, è la repressione della loro rabbia fin dall’adolescenza. Non a caso il nostro contesto socio-culturale alimenta narrazioni nelle quali la rabbia provata durante la pubertà femminile è così disumana da evocare potenze infernali.
E’ il caso de L’esorcista, l’iconico film del 1973 diretto da William Friedkin. Nella pellicola, la dodicenne Regan MacNeil viene posseduta dal demonio e manifesta comportamenti che, a ben vedere, più che una “possessione” sembrano una spettacolarizzazione orrorifica della pubertà femminile:

“Esplode di rabbia, insulta le figure autoritarie e vi si oppone, si fa beffe di Dio e dell’uomo, lanciando inutili provocazioni. Parla ossessivamente di sesso, soprattutto per scandalizzare gli altri. Impreca, urla, odia tutti, e il minuto dopo è l’adorabile bambina che vuole la mamma.”

Regan MacNeil in una scena de L’esorcista. Fonte: Warner Bros Entertainment, Inc

Quando l’autodeterminazione rende la donna disumana

Per il patriarcato è cruciale assicurarsi che fin dalla prima adolescenza la donna percepisca la propria rabbia come anomala e dunque se stessa come un mostro da addomesticare, da controllare dall’esterno, piuttosto che come un essere umano con sentimenti umani, anche negativi. Così può condurla più facilmente verso gli unici due ruoli che ha in serbo per lei: sposa mansueta e madre amorevole.

Tuttavia, anche in epoche remote, poteva capitare che donne sposate, soprattutto se troppo padrone di sé e provviste di una rendita personale più consistente di quella del marito, potessero apparire così anomale da non essere considerate affatto umane, ma creature di un altro mondo. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le fate del folklore irlandese. Queste, scrive Doyle, non solo pretendevano rispetto nell’ambito di una relazione coniugale, ma avevano diritto a lasciare il marito umano se le percuoteva:

“In una delle storie raccolte da Evans-Wentz, l’uomo impara che non deve percuotere più di due volte la moglie senza ragione, e per percossa si intende anche un leggero colpetto sulla spalla.”

Fate dal folklore irlandese. Fonte: amazon.it

Purtroppo un marito violento è solo il prodotto più evidente di una gerarchia patriarcale. Le sue manifestazioni più distruttive gravano invece nel profondo del nostro inconscio ed assumono la forma di modelli inarrivabili.

E’ il caso di Carolyn Perron, la cui vicenda reale dei primi anni settanta ispirò il film L’evocazione – The Conjuring, uscito nel 2013. Carolyn, liberale giovane poetessa atea, costretta di peso a diventare una casalinga conservatrice e cristiana, si convinse di essere perseguitata da una strega di nome Bathsheba.

In realtà, le azioni violente che immaginava compiute dalla strega erano compiute da lei stessa, ridotta in uno stato di disperata prostrazione. Bathsheba altri non era che la rappresentazione di sentimenti a lungo repressi: il rancore per l’abbandono delle sue aspirazioni, sacrificate ai bisogni delle figlie, ed il senso di colpa per non riuscire a rispecchiare quell’ideale di amore incondizionato, da sempre richiesto alle madri, avevano creato il mostro.

La locandina del film L’evocazione – The Conjuring. Fonte: sentieridelcinema.it

Perché leggerlo?

La penna dell’autrice, cruda ed a tratti tagliente, sviscera con cura ogni risorsa a cui attinge. Traccia un quadro meticoloso di ogni forma di violenza che l’uomo ha adoperato nei secoli per assoggettare il femminile. Ne derivano pagine indimenticabili, che risucchiano il lettore nella loro infinita ed illimitata oscurità con lo scopo di guidarlo verso una progressiva quanto necessaria presa di coscienza. Inoltre la bibliografia è arricchita con preziose considerazioni personali dell’autrice su ciascuna fonte menzionata, con l’aggiunta di validi consigli per chi volesse approfondirne il contenuto.

Rita Gaia Asti

 

“Gran Mirci” a Messina

Chi accede a Palazzo Zanca, sede del Municipio di Messina, ha modo di osservare l’epigrafe in bronzo “Gran Mirci”, ripetuta cinque volte sui cancelli d’ingresso dell’edificio.

Ma in quanti conoscono il significato nascosto dietro quest’antica iscrizione?

La leggenda

Per risalire all’origine della formula occorre andare molto indietro nel tempo.

Corre l’anno 379 d.C. e l’imperatore Teodosio I, prossimo alla morte, decide di suddividere il governo del suo vasto territorio fra i due figli. Assegna, rispettivamente, la parte orientale al primogenito, Arcadio, e quella occidentale al secondo, Onorio.

Questa decisione decreta in modo irreversibile la fine dell’Impero Romano, che non sarebbe mai più tornato ad essere governato da un unico sovrano.

Miniatura n° 32 dalle cronache di Costantino Manasse, con gli imperatori Arcadio, Onorio e Teodosio I – Fonte: wikipedia.org

Di questa divisione approfittano i barbari, già presenti ai confini dell’impero.

L’assedio

Nel 407, Arcadio, già alle prese con una pericolosa instabilità politica, si trova attaccato dai Bulgari.

Questi, con alla testa un certo Assariele, si erano ribellati e avevano preso d’assedio la città greca di Tessalonica, l’odierna Salonicco, costringendo l’Imperatore a lasciare Costantinopoli.

La battaglia infuria nel borgo per un’intera giornata e l’Imperatore e la sua intera cavalleria sono costretti a retrocedere.

Ad Arcadio, in condizioni di prigionia, impotente di fronte all’aspro degenerarsi del conflitto, non resta che richiedere soccorso. Invia messaggi d’aiuto a Taranto, a Brindisi, alla Puglia e ai veneti, ma nessuno di essi intende intervenire.

Si rivolge così, in un ultimo tentativo, a Messina, nota all’epoca come la florida città “dove il più famoso arsenale del Mediterraneo ritrovavasi“.

Il porto di Messina in un dipinto di Juan Ruiz risalente al 1748 – Fonte: pinterest.it

La svolta

All’arrivo delle richieste di aiuto da parte dell’Imperatore, lo stradigò Metrodoro decide di agire in favore di Costantinopoli, armando a proprie spese quattro navi. Successivamente, a lui si unisce Aristide, cavaliere messiene, che ne arma due, Messina che ne arma sette, Reggio e Trapani con una nave e Siracusa con tre.

Con un totale di diciotto navi, sventolanti la bandiera messinese, la flotta capitanata dallo stradigò fa rotta verso l’Oriente.

Sbarcati sulle coste di Tessalonica e annientate le imbarcazioni dell’esercito nemico, Metrodoro e i suoi, con l’aiuto dei tessalonicesi usciti dalla città, decimano i Bulgari, uccidendo lo stesso Assariele.

In tal modo, non solo i messinesi liberano Arcadio dall’assedio, ma riescono persino a riconquistare Costantinopoli, restituendola all’Imperatore.

Di fronte ad una tale prova di valore, ammirato e riconoscente, Arcadio conduce con sé nella capitale lo stradigò e i suoi uomini. Qui, in presenza della sua corte e del popolo, elegge Messina città principale dell’Impero, al pari di Costantinopoli, rivestendola col titolo di Protometropoli della Sicilia e della Magna Grecia e conferendole il “Comando e Governo perpetuo” della Sicilia.

Inoltre, le viene riconosciuto il diritto di fregiarsi dello stesso vessillo imperiale: la croce aurea in campo rosso, tutt’oggi presente nello scudo stemma del Comune di Messina.

Per lasciare ricordo a tutta l’umanità, Arcadio fa scolpire sulla facciata della chiesa di Santa Sofia la formula “Pollè charis te Messene“, che durante l’occupazione angioina sarebbe diventata “Gran Mirci a Messina“, quindi “Molte Grazie a Messina“.

Epigrafe “Gran Mirci” sui cancelli di Palazzo Zanca – Fonte: Messinaierieoggi.it

La versione francese: da “Mirci” a “Merci

Sono diverse le versioni di questa storia che smentiscono l’epopea di Metrodoro.

La leggenda dell’assedio di Tessalonica, infatti, non sembra avere delle basi storiche. Durante il regno di Arcadio non vi è mai stato, effettivamente, un assedio della città, né, tantomeno, una conquista di Costantinopoli.

Per alcuni studiosi, sembra chiaro il riferimento della formula alla tradizionale alleanza fra Messina e i francesi

Alleanza che risale all’epoca delle Crociate e che si protrae alla sanguinosa Guerra dei Vespri Siciliani, durante la quale, sempre secondo gli stessi storici, Messina pare abbia risparmiato gli Angioini, concedendo loro la fuga. 

Da qui, “Merci” a Messina.

 

Valeria Vella

Fonti: 

wikipedia.org/Stemma_di_Messina

mutualpass.it/gran-mirci-

letteraemme.it/gran-merce-a-messina-la-scoperta-a-castanea/

Il mito di Risa

Una delle più affascinanti leggente legate al territorio peloritano è quella della città perduta, dal nome Risa, situata proprio verso l’estremità del Peloro, a ridosso del Lago di Faro. Ora la raccontiamo, dopo la interpretiamo.

Risa, Morgana e il Peloro

Risa si trovava a ridosso delle acque del Pantano Piccolo – o meglio, il Lago Santo di soliniana memoria –; era una città opulenta e ricca, per quanto comunque di ridotte dimensioni, la cui economia certamente si basava sul commercio; Risa si chiamava, pare, dal nome della sua Principessa, che la governava sapientemente. Un giorno, a causa dell’ira divina o di un sisma, essa fu completamente distrutta e fu sommersa dalle acque del lago, rimanendo da quel momento nascosta alla vista.

Oggi ancora i pescatori giurano d’avere sentito il rintocco d’una campana, appartenente a una torre di Risa, ritenuto un chiaro presagio di tempesta; si dice che sia il fantasma della principessa Risa a suonare, per avvertire i vivi del pericolo incombente. Un’altra versione vuole le rovine sommerse abitate da Morgana la Fata, la potentissima strega sorella di Artù e nemica dell’altrettanto potente Merlino, che si sarebbe trasferita dalla Britannia in Sicilia insieme ad ancelle e apprendiste e abbia il controllo dell’area (da cui il nome fatamorgana dato al particolare fenomeno di rifrazione), tutt’ora vivente e di tanto in tanto si fa vedere.

C’è una certa confusione nelle contrade del Peloro su quale dei due pantani celi Risa, giacché anche alcuni Ganzirroti se l’arrogano, ma vedremo che non c’è dubbio sulla sua locazione fra Margi, Torre Faro e Capo Peloro.

La Fata Morgana – Fonte: sferapanoramica.blogspot.com

Il Tempio nelle acque del Lago

Già quindici secoli fa, l’importantissimo passo della Raccolta di cose memorabili di Giulio Solino ci racconta del santuario lacustre – un’ara invero – situato al centro del Pantano Piccolo (la descrizione che ne fa è precisa): già di suo questa informazione basterebbe a chiarire che la base storica della leggenda di Risa esiste eccome. I santuarî di particolare importanza di solito non erano vuoti e soli, ma spesso avevano nelle vicinanze gli alloggiamenti degli ordini sacerdotali officianti o monastici, nonché l’eventuale mercato che vendeva animali sacrificali per le offerte e le abitazioni di tali commercianti: ecco come sorge un piccolo abitato, che se unito alla zona frequentata di Capo Peloro dà come risultato una probabile città di Risa.

C’è molta confusione fra le persone che conoscono la leggenda, poiché ripetono insistentemente che la campana i cui colpi si sentono appartenga alla “chiesa di Risa”, il che collocherebbe questa città a un periodo almeno post-romano, ma questo non è possibile poiché non abbiamo nessuna testimonianza d’un vero e proprio abitato; si tratta di una fantasia popolare, prodotto dell’abitudine a sentire le campane delle chiese, poiché a Risa ovviamente il Cristianesimo non c’era e non appartenevano campane agli edifici di culto. Invece, viene da pensare che il ricordo d’un luogo di culto rimandi al santuario testimoniato da Giulio Solino.

L’idea di scavare canali di collegamento con il mare sicuramente non è nuova, giacché si è ritrovata un’imbarcazione risalente al periodo bizantino. Bisogna rammentare che tutta quell’area era adoperata come stazione navale e militare, come testimonia la presenza del faro e di un attracco almeno in epoca romana, pertanto è assai probabile che vi fosse un approdo di cui si servivano anche i marinai fenici quando dominavano i mari; persino a loro potrebbe essere legata l’ara che continuava a esistere nel Tardo Impero.

Il “Pantano Piccolo”, Lago di Torre Faro – Fonte: sferapanoramica.blogspot.it

Ma Risa è Reggio…

A complicare la situazione c’è il fatto che il vecchio nome di Reggio – la dirimpettaia – fosse proprio Risa, nel dialetto dei Normanni, e ch’essa sia un luogo centrale nel corpus dei Paladini di Francia caro all’Opera dei pupi, ma non è un argomento che qui verrà discusso.

Si cade troppo spesso nell’errore di pensare che le leggende siano romanzetti privi di fondamento, quando non è affatto così: se qualcosa viene raccontato, è perché qualcosa si ricorda, che ci piaccia o no. Per essere sempre tutto falso dovrebbe esserci dietro ogni leggenda qualcuno che se l’è inventata di sana pianta per puro piacere, il che è statisticamente improbabile.

Stupisce, in ogni caso, come in così tanti anni da quando se ne parla non si sia voluto procedere con un’approfondita ricerca archeologica quello che potrebbe essere un elemento fondamentale per ricostruire la nostra storia più remota. Se non per Risa, per l’Ara delle Acque.

 

Daniele Ferrara

… dietro il fenomeno della “Fata Morgana” si nascondono antiche leggende?

Fin dai tempi dei primi colonizzatori greci lo Stretto, porta della Sicilia, è il posto in cui il confine fra la natura e il sovrannaturale diventa sfumato; così, le tempeste e i gorghi che si inghiottono le antiche navi diventano opera di terribili creature divoratrici di uomini, e i capricciosi venti che ne increspano le acque sono i figli del dio Eolo che dimora nelle vicinanze; ogni fenomeno naturale che riguarda lo Stretto trova sempre la sua spiegazione nel mito.

Forse il più spettacolare di questi fenomeni è quello della cosiddetta Fata Morgana, che si osserva comunemente su entrambe le sponde dello Stretto nei mesi torridi dell’estate, quando sulla sponda opposta appaiono immagini tremolanti nelle quali si riconoscono alberi, palazzi, figure che possono far sembrare all’osservatore la terraferma più vicina di quanto non sia.

Niente più che una questione di fisica: in particolari condizioni atmosferiche la luce viene curvata dal passaggio attraverso diversi strati d’aria a diverso indice di rifrazione, dando origine ad un effetto ottico molto simile ai miraggi del deserto. Ma questo gli antichi non lo sapevano, ed è per questo che si è diffusa la leggenda della Fata Morgana.

La storia della Fata Morgana ha origini antiche ed ignote: le prime attestazioni dell’uso di questo nome per descrivere il fenomeno risalgono al Seicento, ma la storia ha probabilmente radici più antiche, che affondano nel medioevo cavalleresco. Morgana infatti è la fata delle acque del ciclo arturiano, sorellastra di re Artù: vive in un castello di cristallo nascosto sotto le acque del mare, e con le sue illusioni porta alla rovina i naviganti. Legata al fratellastro Artù da un rapporto ambiguo di amore e odio, è la prima causa della distruzione del suo regno; ma, alla fine dell’ultima battaglia del re, riconciliatasi col fratello morente, è lei che lo trae in salvo portandolo nella magica isola di Avalon, cura le sue ferite e lo mette a riposare, nascosto sotto una montagna incantata, in attesa del giorno del suo glorioso ritorno.

Ma che ci fa un personaggio della mitologia celtica nella mediterranea Sicilia del mito omerico?

Probabilmente le leggende del ciclo arturiano sono arrivate in Sicilia al seguito dei re normanni. È infatti Gervasio di Tilbury, storico inglese al servizio del re Guglielmo sul finire del XII sec., che per la prima volta identifica nel vulcano Etna la sede dell’ultima dimora di Artù. La leggenda, ripresa da diversi altri autori medievali, si arricchisce di elementi nel tempo: la mitica Avalon sarebbe la Sicilia e l’Etna sarebbe quindi il monte incantato dove Morgana ha trasportato Artù.

È per difendere il riposo del re da eventuali intrusi che Morgana mette in atto i suoi potenti incantesimi. La troviamo quindi in diverse leggende in cui difende la Sicilia dagli invasori, facendo apparire ai comandanti nemici, giunti sulle sponde della Calabria, la terraferma talmente vicina da spingerli a buttarsi a mare per raggiungerla a nuoto, annegando miseramente; o ancora, in una altra versione della storia, è lei che offre il suo aiuto addirittura al conte Ruggero per liberare la Sicilia dai saraceni; aiuto che Ruggero, devoto al Dio dei cristiani più che a una fata pagana, cortesemente rifiuta…

Come spesso succede, quindi, storia locale e tradizioni di terre lontane finiscono con l’intrecciarsi e confondersi nelle acque dello Stretto, crocevia di popoli e di miti.

Gianpaolo Basile

… la città di Messina pullula di fantasmi?

Ebbene sì. Ogni città con una lunga storia ha i suoi misteri e le sue leggende. Messina, con i suoi mille anni di storia, ha subito molte perdite, a seguito di due grandi terremoti (1783 e 1908) e di due ondate di bombardamenti. L’incommensurabile mole di morti violente è probabilmente alla base della folta tradizione spettrale della città dello Stretto.

Immaginiamo un giovane ragazzo con una terribile insonnia e ipotizziamo che in una tiepida notte autunnale decida di fare una passeggiata per distrarsi. Si potrebbe dirigere verso la terrazza del Sacrario di Cristo Re per ammirare uno dei panorami più belli al mondo. Ogni tanto appare una donna bellissima con i capelli biondi ed un sorriso splendente che prende i giovanotti sotto braccio. Chi prova a rivolgerle la parola vede sparire la fanciulla in preda al terrore. Nei pressi della chiesa di Montalto, sulle scale che portano alla fontana Falconieri, il ragazzo potrebbe incontrare una triste e dolce ragazza in lacrime. Sarebbe inutile andare a confortarla, sicuramente sparirebbe.

Potrebbe decidere di fare una passeggiata nella piazza del Municipio. Nei pressi del monumento ai caduti potrebbe vedere un uomo in uniforme steso a terra. In molti raccontano di averlo sentito lamentarsi di essere stato ferito. Non appena ci si avvicina per soccorrerlo, il soldato si dissolve  rapidamente. Se il nostro insonne si trovasse sulla Passeggiata a mare, potrebbe incontrare un uomo che indossa una divisa di altri tempi che indica ai passanti un corpo senza vita tra i flutti sussurrando: ”Guarda come volli rovinarmi…”. Chi ha assistito alla scena ha detto che il corpo è vestito come il fantasma e che nell’aria si percepisce un odore nauseabondo.

Il nostro giovane potrebbe terrorizzarsi passando di fronte alla chiesa Porto Salvo, a ridosso del muro di cinta della Fiera, alla vista di un uomo decapitato che tiene la testa in mano e che si diverte a spaventare chi passa da quelle parti. Se invece il ragazzo si trovasse a ridosso del crocevia S.S Annunziata – Viale della Libertà potrebbe imbattersi in un fantasma che si pugnala ripetutamente con un coltello, cade e si rialza. La scena si ripete circa una ventina di volte. In via Felice Bisazza invece si potrebbe avvistare una coppia di fidanzatini che si tengono per mano. Appena vedono qualcuno che gli si avvicina si spaventano, lui si pone innanzi a lei come per difenderla e dopo poco scompaiono entrambi.

Non importa la veridicità di questi racconti, ciò che conta è che essi siano segno di una città con una ricca tradizione di leggende derivate da una storia affascinante e spesso ricca di sorprese….

Renata Cuzzola
Un ringraziamento speciale va a Giandomenico Ruta,
appassionato di misteri e di cultura locale.