…due donne, Dina e Clarenza, salvarono Messina durante l’assedio angioino?

Avete mai fatto caso alle due statue in bronzo dorato che battono le ore e i quarti nel campanile del Duomo? Alte tre metri, rappresentano due donne: non figure angeliche, come potrebbe sembrare, né personaggi casuali. Si tratta di due donne che hanno a che fare con la storia di Messina e a cui la città è stata tanto grata da renderle immortali, rappresentandole su uno dei suoi monumenti più famosi. I loro nomi sono Dina e Clarenza e per raccontare la loro storia dobbiamo fare un lungo passo indietro, fino al XIII secolo.
Era il 1282: il 30 marzo, lunedì dell’Angelo, scoppiò a Palermo la rivolta contro gli odiati dominatori francesi, gli Angioini. L’insurrezione, passata alla storia con l’espressione “Vespri siciliani”, si propagò ben presto in tutta la Sicilia. Il 28 aprile, anche Messina, che era rimasta l’ultimo baluardo dei francesi, si ribellò al giogo straniero.
Non riuscendo a sedare la rivolta, Carlo I d’Angiò decise di intervenire militarmente. Forte di 200 navi e 75mila uomini, a luglio, prese d’assalto la città dello Stretto, considerata la chiave della Sicilia: caduta questa, era convinto che l’intera isola sarebbe capitolata. Ebbe così inizio lo storico assedio di Messina, durato sino alla fine di settembre, durante il quale la popolazione peloritana mostrò straordinario coraggio nel resistere e combattere contro il feroce nemico.
L’8 agosto, accadde che una parte delle mura, presso il colle della Caperrina, rimase scoperta perché gli uomini di guardia erano andati a mettersi al riparo da un terribile temporale. I francesi ne approfittarono e in poco tempo riuscirono ad oltrepassare le mura. I messinesi, però, immediatamente accorsi, li respinsero e subito dopo ripristinarono le barricate. Quella notte, poi, sulle mura le donne presero il posto degli uomini, stremati.
Due di esse, Dina e Clarenza, erano di guardia proprio presso la Caperrina e quando videro che i francesi si avvicinavano, mirando ad attaccare nuovamente in quel punto, si adoperarono per allertare i concittadini. Al grido di “all’arme”, Dina iniziò a rotolare massi per rallentare l’avanzata dei nemici, mentre Clarenza di corsa raggiunse la torre campanaria del Duomo e suonò le campane a stormo. La popolazione si precipitò sul colle e in poco tempo ricacciò le truppe angioine.
Alle due donne, dunque, venne riconosciuto il merito della salvezza della città.
Due vere e proprie eroine, di cui la storia ci ha tramandato solo i nomi, ma che nel tempo sono state celebrate in versi e canti popolari, oltre che rappresentate, appunto, nel campanile del Duomo e, inoltre, sulla facciata lato nord di Palazzo Zanca in due grandi bassorilievi.

Francesca Giofrè

Shakespeare era davvero messinese? Molto rumore… per nulla

William Shakespeare

Dietro le absidi del Duomo, in largo San Giacomo, una epigrafe riporta alcuni versi di una commedia di uno dei più importanti drammaturghi della letteratura inglese e internazionale: William Shakespeare. La commedia, “Molto rumore per nulla”, ha una trama intricata piena di colpi di scena e il tema amoroso la rende forse una delle più fortunate del suo genere; ma soprattutto, ha la caratteristica di essere ambientata proprio a Messina. 

Fino a qui, si dirà, nulla di strano; del resto, sono parecchie le opere del drammaturgo inglese ambientate in Italia. Un particolare, questo, che nel corso degli anni ha stuzzicato la curiosità di parecchi studiosi: alcuni dei quali, pronti a sostenere che il grande drammaturgo non fosse originario del paesino inglese di Stratford upon Avon, come vogliono le biografie più accreditate, ma addirittura italiano. E, fra le tante città “candidate” per aver dato i natali a cotanto poeta e letterato, udite udite, c’è anche Messina.

Shakespeare era messinese, sostiene qualcuno; e la notizia ghiotta non è certo passata inosservata all’opinione pubblica, tanto che diversi anni fa il Comune di Messina arrivò persino a nominare Shakespeare “cittadino onorario”. Ma sarà vero? Su cosa si basano queste teorie?

Andiamo con ordine. Come già detto, le teorie sulle origini messinesi del Bardo si inseriscono nel solco dell’acceso dibattito sulla paternità delle opere di Shakespeare. In sintesi, secondo alcuni ricercatori William Shakespeare, attore e drammaturgo proveniente da una famiglia di artigiani non particolarmente abbienti, dal piccolo paese di Stratford upon Avon, per come ci viene descritto dalle biografie tradizionali, non avrebbe mai potuto avere la cultura sufficiente della quale fa mostra nelle opere che gli sono attribuite. Da qui, tutta una serie di ipotesi sulla sua reale identità: chi dice che il cognome Shake-speare, “Scuoti-lancia”, fosse uno pseudonimo; chi ancora che si trattasse di un prestanome. E, a questo proposito, esiste una sconfinata letteratura che propone un altrettanto sconfinato elenco di personaggi che potrebbero avere scritto le opere a lui attribuite: e fra questi, troviamo anche il nome di un italiano, Giovanni Florio, e del padre di lui, Michelangelo Florio.

Tale Giovanni Florio, o John Florio, fu un importante intellettuale e traduttore di origini italiane, contemporaneo di Shakespeare, e autore di numerose traduzioni in inglese di opere letterarie e filosofiche. Suo padre, Michelangelo, era un esule fiorentino di religione calvinista, costretto a vagare per molti anni in giro per l’Italia e infine a rifugiarsi in Inghilterra, per via delle persecuzioni religiose. Il primo a sollevare l’ipotesi Florio come reale identità di William Shakespeare fu il giornalista Santi Paladino, che nel 1927 in un articolo sull’argomento sostenne che dietro lo pseudonimo di William Shakespeare si celasse Michelangelo Florio. Questi sarebbe stato autore delle opere teatrali durante il suo soggiorno in Inghilterra, e si sarebbe ispirato, per “Molto rumore per nulla”, a una commedia omonima in dialetto siciliano, “Tantu trafficu pi’ nenti”, che Florio avrebbe conosciuto a Messina e il cui testo sarebbe andato perduto. I limiti di questa teoria furono subito evidenti: oltre a non esserci, alla prova dei fatti, nessuna evidenza dirimente a supporto di questa speculazione e neanche dell’esistenza stessa di questa opera, Michelangelo Florio sarebbe nato nel 1515 e le tracce della sua esistenza si perdono intorno al 1565, mentre la nascita di Shakespeare è datata al 1564. Lo stesso Paladino, qualche anno dopo, corresse il tiro e Shakespeare, nella sua nuova ipotesi, divenne non più uno pseudonimo ma un prestanome, attore di Stratford, che avrebbe curato la pubblicazione delle opere di Michelangelo Florio con l’aiuto del figlio Giovanni. 

Qualche decennio dopo, negli anni ’50, l’ipotesi Florio viene ripresa da uno scrittore lombardo, Carlo Villa; Villa riprende la prima tesi di Paladino, quella dello pseudonimo, e aggiunge un dettaglio: Michelangelo Florio avrebbe assunto lo pseudonimo di William Shakespeare traducendo il cognome della madre, Giuditta Crollalanza. Anche stavolta, però, non viene citato nessun documento attendibile a favore di questa tesi.

La teoria delle origini messinesi si innesta su questa stessa falsariga. Proviene dalla penna di Martino Juvara, professore di italiano ispicese in pensione, che nel 2002 diede alle stampe un suo saggio sulle origini siciliane di Shakespeare. La versione di Juvara appare sostanzialmente come un mix vagamente confusionario delle tesi precedenti. Il nome Shakespeare sarebbe lo pseudonimo di Michelangelo Florio; non però il Michelangelo Florio nato a Firenze e padre di John Florio, ma un suo omonimo nato a Messina nel 1564, di origini palermitane, figlio di Giovanni Florio e Guglielmina Crollalanza.

Tale Michelangelo Florio, come il suo omonimo fiorentino, avrebbe dovuto affrontare numerose peregrinazioni perché ricercato dalla Santa Inquisizione per via di idee eretiche; finisce col rifugiarsi in Inghilterra, presso un cugino inglese della madre (Shakespeare), che gli assegna il nome del figlio scomparso prematuramente, cioè, appunto, “William Shakespeare”. Grandi assenti, ancora una volta, le prove documentarie; a supporto della tesi, solo una serie di suggestioni e coincidenze assortite.

Insomma, alla fine dei conti, quella di Shakespeare messinese si rivela essere poco più che una ipotesi romanzesca, una speculazione; o, per dirla con le sue stesse parole, molto rumore… per nulla. 

Gianpaolo Basile

Image credits: GFDL, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2274219

Macalda di Scaletta: una dama guerriera nella Messina del Medio Evo

Nella folta schiera di personaggi che la Storia ha cristallizzato nella leggenda, trasformandone la memoria in un tutt’uno fra il mito, la diceria, l’aneddoto, l’epopea e la realtà storiografica, non può non rientrare il nome di Macalda di Scaletta. 

La sua è una storia affascinante, una autentica parabola che portò questa donna bella e ambiziosa, ricca e potente ma di umili origini, alla corte di uno dei più grandi monarchi di Sicilia, Re Pietro il Grande d’Aragona. Una storia fatta di intrighi e di tradimenti, sullo sfondo della caotica Sicilia dell’epoca dei Vespri Siciliani. 

Dalla montagna di scritti su Macalda è difficile capire dove finisce la leggenda e inizia la realtà. Si sa che nacque a Scaletta, vicino Messina, intorno al 1240, e che ereditò dal padre, Giovanni, il castello di Scaletta, solida roccaforte strategica sulla strada fra Catania e Messina, che tutt’ora si erge maestoso a guardia di quel tratto della riviera jonica. A differenza di quel che si potrebbe pensare però, le origini di Macalda erano umilissime: il nonno era un militare di bassa estrazione sociale, tanto da essere soprannominato “Matteo Selvaggio”, che aveva acquisito il castello dietro concessione reale e che aveva avuto la fortuna di arricchirsi grazie al rinvenimento di un tesoro nascosto al suo interno. 

Una famiglia di inarrestabili arrampicatori sociali di cui Macalda è degna discendente: dopo aver sposato in prime nozze un nobile caduto in miseria, Guglielmo Amico, alla morte del primo marito dà già mostra del suo carattere spregiudicato e indipendente, finendo a girovagare per la Sicilia travestita da frate francescano, fra espedienti e avventure amorose. 

“Molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo, generosa nel donare e, a tempo e luogo, valorosa nelle armi al par d’un cavaliere”: è questo il ritratto che fa di lei un suo contemporaneo, lo storico catalano Bernat Desclot. Qualche anno dopo, questa giovane dama guerriera viene data in moglie ad Alajmo da Lentini, anziano uomo d’arme e politico navigato alla corte angioina; a questo altrettanto spregiudicato e ambizioso personaggio, che già anni prima non aveva esitato a tradire Manfredi di Svevia per ottenere il favore degli Angioini, si deve parte del suo successo.

Di lì a qualche anno, infatti, Alajmo non esita a tradire anche Carlo d’Angiò schierandosi a favore dei siciliani insorti nella rivolta dei Vespri. Quando re Carlo scende alla testa dei suoi uomini per sedare la rivolta, è Alajmo, nelle vesti di Capitano del Popolo di Messina, a frapporsi fra lui e il suolo siculo e sarà lui il grande regista della difesa cittadina durante l’assedio di Messina del 1282, punto di svolta della prima guerra del Vespro e tappa fondamentale della storia della città, mentre alla moglie, in sua assenza, viene affidato il governo di Catania.

All’arrivo nell’isola di Pietro d’Aragona, acclamato dagli insorti Re di Sicilia, Alajmo da Lentini viene premiato per la sua strenua resistenza col titolo di Gran Giustiziere del Regno: lui e la moglie diventano così fra i più alti dignitari della nuova corte di Sicilia. Ma a Macalda non basta: quando il re entra in trionfo a Randazzo Macalda non si fa sfuggire l’occasione per farsi notare e gli viene incontro a cavallo, in armatura, con in mano una mazza d’argento. Ben presto diventano evidenti le sue intenzioni di sedurre il Re per diventarne la favorita: intenzioni che non sfuggono alla moglie, la regina Costanza di Hohenstaufen, legittima erede di Federico II di Svevia, con cui presto inizia una rivalità spietata, una autentica escalation di provocazioni e continui sfoggi di potere e ricchezza.

Così, quando Alajmo da Lentini, sospettato dell’ennesimo tradimento, cade in disgrazia presso il nuovo Re, anche Macalda ne condivide la sventura. Mentre il marito, dopo essere stato convocato in Spagna, viene fatto giustiziare, Macalda finisce i suoi giorni in prigionia, nel castello messinese di Rocca Guelfonia. Anche da prigioniera, i suoi comportamenti restano assolutamente sopra le righe: si racconta che destasse stupore per la vivacità e l’immodestia dei suoi abiti, mentre trascorreva le giornate intrattenendosi a giocare a scacchi con un altro nobile prigioniero del castello, l’emiro Margam Ibn Sebir.

Sublimato nella leggenda, il personaggio di questa straordinaria siciliana anche a distanza di secoli non esaurisce il suo fascino; nel tempo, la si ritrova come protagonista di diverse leggende e racconti popolari siciliani. Nell’Ottocento Michele Amari, storiografo siciliano, la riscopre come personaggio storico e riferisce con gusto prettamente romantico e dovizia di particolari tutti i particolari più rocamboleschi delle sue avventure; qualche decennio dopo, Macalda diventa addirittura la protagonista di poemi e melodrammi.

Femminista ante litteram o ambiziosa femme fatale? Spregiudicata arrivista o valorosa amazzone guerriera? Eroina romantica o donna del suo tempo? Macalda di Scaletta è stata un po’ di tutto questo e un po’ niente. La sua storia si perde nel mito e ne trasforma il personaggio in un archetipo, enigmatico e complesso, di indomita donna siciliana. 

Gianpaolo Basile

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