Eleanor Oliphant sta bene, anzi: benissimo

Elaonor Oliphant ha trent’anni e da nove lavora nello stesso ufficio come Grapich Design. È una persona normale con un aspetto normale e che mira alla normalità (se non fosse per quelle cicatrici che le scendono dalla tempia alla gola).

La sua vita è una routine settimanale ben definita: dal lunedì al venerdì lavora presso l’agenzia fino al pomeriggio, nella pausa pranzo va al bar fuori dall’ufficio, dopo aver constatato che portare il pranzo da casa è controproducente visto che gli alimenti si deteriorano prima dell’effettivo consumo), la sera cena con la sua solita pasta al pesto, ma il venerdì sera si concede una pizza margherita acquistata presso il suo rivenditore di fiducia sorseggiando la sua bottiglia di vino (chi ha detto che l’accostamento è sbagliato?), per poi concedersi una bottiglia di vodka che beve in quegli ultimi giorni della settimana.

Una vita caratterizzata da un’estrema solitudine interrotta solamente dalle telefonate della madre, il mercoledì sera, un essere cattivo che le ricorda un passato tristemente doloroso che ancora la nostra protagonista non si è lasciata alle spalle.

«Quando si legge di “mostri”… nomi noti… si dimentica che avevano una famiglia. Non spuntano fuori dal nulla. Non si pensa mai a chi resta ad affrontare i postumi.»

Quella con la madre è una conversazione telefonica che si svolge sempre alla stessa ora e il solito giorno anche perché la madre della protagonista è agli arresti e, dunque, non può concederle che quei 15 minuti di considerazione alla settimana.
Ma lei sta bene, anzi: benissimo.
Tuttavia, di punto in bianco, l’abitudinarietà di Eleanor viene stravolta.
A un concerto incontra l’uomo della sua vita, o almeno così crede, non sa niente di lui eppure si lancia in questa cotta dal sapore molto adolescenziale. Di colpo inizia a prendersi cura di sé, da via a una serie di “ristrutturazione” dai capelli alle scarpe ma allo stesso tempo rompere quella corazza che lentamente si è costruita. Allo stesso tempo, Raymond Gibbons, suo collega della sezione dell’helpdesk e dunque informatico, entra a far parte della sua vita.
L’uomo dai capelli rossicci chiari, una barbetta bionda stopposa, una pelle molto molto rosa, un abbigliamento alquanto opinabile, nerd nel midollo, fissato con i videogiochi, riuscirà con la sua semplicità e genuinità a crearci un rapporto di amicizia molto profondo, è, nel vero senso della parola, il primo essere umano ad essere amico di Eleanor. Pagina dopo pagina questo sarà sempre più coinvolto e rapito dalle vicende tanto da non riuscire a staccarsene.

Al tutto si somma uno stile narrativo riflessivo, fluido, intelligente, che si avvalora della tecnica del “narrare ma non spiegare”, del “fai vedere, ma non limitarti a una mera esposizione”. In un primo momento la storia può deludere, in alcuni casi annoiare, ma lascerà senza fiato per la forza straordinaria che la protagonista continua a dimostrare nei confronti della vita e per la piega che questa storia, nel corso delle pagine, prenderà. Davvero una lettura coinvolgente ed affascinante.

Serena Votano

“E l’eco rispose” un puzzle da ricostruire

“Hai l’aria di una che sta morendo dalla voglia di essere salvata.” 

Pensandoci, una parola-chiave per descrivere “E l’eco rispose” di Khaled Hosseini è proprio puzzle: tanti tasselli sparsi per il mondo da ricercare e da riunire.unnamed

Tutto parte da due fratelli, Abdullah e Pari, stretti da un forte legame interrotto dal padre per la sopravvivenza dell’intera famiglia.

Questa interruzione li separerà, conducendoli in parti opposte del mondo. La storia si espande gradualmente verso l’esterno seguendo i personaggi da Kabul a Parigi a San Francisco e all’isola greca di Tinos.

“Ben oltre le idee di giusto e di sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù”.

La storia ha inizio negli anni Cinquanta e sussegue il suo racconto fino ai giorni nostri, dopo ben tre generazioni
L’autore ci mette di fronte alle reazioni degli esseri umani, a come loro si amano, si odiano, si tradiscono, si dimenticano e si ricordano. Conosciamo così il rapporto di amore e odio tra Parwana e sua sorella Masuma, il triangolo platonico tra i coniugi Wahdati e l’autista-cuoco Nabi, il generoso e coraggioso altruismo di Amra e Markos, l’ipocrita solidarietà di Idris e Timur, l’impotente delusione di Adel davanti alla sconcertante scoperta della vera identità del padre tutta grazie alla straordinaria capacità di Hosseini di raccontare i sentimenti umani con sensibilità.

“In queste occasioni ci vuole uno sforzo immane per ricordare, per non perdere di vista una verità innegabile: questo disastro è opera sua. Niente di quanto le è capitato è ingiusto o immeritato. Se l’è meritato.”
Ci fa vedere le violenze subite dal popolo che abita in Afghanistan, da tutte le guerre e battaglie che si sono verificate e che stanno continuando con il passare degli anni senza un attimo di tregua.
La storia riesce a seguire le vite di tutti i protagonisti, a seguire la loro sofferenza ma anche il modo in cui lottano per la salvezza.

“Ora ero libero di fare ciò che volevo, ma scoprii che era una libertà illusoria, perché ciò che più desideravo mi era stato tolto. Dicono: trovati uno scopo nella vita e perseguilo. Ma talvolta è solo dopo aver vissuto che si riconosce che la vita aveva uno scopo, e probabilmente uno scopo architettato dal caso. E ora che avevo assolto il mio, mi sentivo senza una meta, alla deriva.”

È una storia bellissima e straziante al tempo stesso, la penna di questo scrittore non delude mai e ci porta alla scoperta del suo popolo in una maniera unica e speciale. I dialoghi sono pochi ma incisivi, sicuramente non è un romanzo semplice nei contenuti e non la definirei una lettura da svago ma penso sia da consigliare a chiunque voglia leggere un romanzo toccante e profondo, così come tutti gli altri romanzi di Hosseini.

“Dove poteva andare un uomo dopo essere stato in vetta al mondo?”

 

Serena Votano

 

“Fai bei sogni” di Massimo Gramellini

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“ Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere: completamente vivi.”

Il pensiero della morte è uno di quei fardelli che ci portiamo dietro per tutta la vita. Si cerca sempre di relegarla nel più profondo dei nostri cassetti del cuore, si prova a nasconderla sotto una pila di avvenimenti ed emozioni vissute. Più volte tentiamo di esorcizzarla purificandoci con una serie di riti di fede. Ma lei è sempre lì, pronta a venir fuori dalla sua prigione dell’anima, per segnare alcuni dei momenti più tragici e difficili della nostra vita lasciando cicatrici che difficilmente vanno via.

La storia di Massimo, narrata in prima persona in questo romanzo autobiografico, inizia proprio alla fine di quella della sua amata madre. È la mattina del 31 Dicembre 1969  e i suoi sogni da bambino innocente di nove anni sono interrotti bruscamente dall’urlo del padre che è appena venuto a conoscenza della morte della moglie, la mamma del fanciullo che osserva sgomento la scena dalla porta della sua cameretta, ancora intontito dalla quantità di informazioni, miste ai postumi della dormita, che gli stanno pervenendo.

Questo avvenimento segnerà un repentino cambiamento nella vita del giovane torinese, che alternerà momenti di solitudine e moderata autocommiserazione, a momenti di tenui gioie donategli dai brevi amori giovanili, dalla scrittura e dalla sua squadra del cuore, il Torino.

La storia è narrata in maniera lineare, attraverso un lungo flashback che si interrompe negli ultimi capitoli, con forti spunti ironici che accompagnano tutte le fasi della vita del protagonista: dagli anni delle scuole medie passati a difendersi dai bulli e a rinnegare la morte della madre, al periodo Universitario, in cui il demone della sua infanzia, che lo scrittore denomina Belfagor, lo priva di emozioni,  passioni e sentimenti per evitargli ulteriori delusioni che la vita potrebbe propinargli; fino ai primi anni da giornalista e inviato vissuti nel limbo tra amore e frustrazione, gioie e delusioni.

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“Camminavo sulle punte e le guardavo di continuo, perché non ero capace di alzare gli occhi al cielo. Avevo le mie ragioni. Il cielo mi faceva paura. E anche la terra.”

Il rapporto con il padre sarà un nodo cruciale nella storia, caratterizzato da pallidi momenti di vicinanza e brusche liti che porteranno più volte lo scrittore a sferrare decise staffilate nei confronti dell’autoritario genitore. Il tutto si risolverà nelle pagine finali in cui Massimo, ormai grande, riceverà una busta sigillata da quarant’anni nella quale si nasconde il più sconcertante dei segreti che lascerà ogni lettore stupefatto.

Con questo libro, Massimo Gramellini, ci apre le porte più remote della sua anima e ci permette di toccare con mano le ferite che gli sono state inferte, ma anche di vivere i numerosi successi che la  vita gli ha riservato, tutto in maniera semplice e ironica, ma allo stesso tempo profonda e diretta al cuore.

È una lettura consigliata per tutti coloro che, nonostante la scomparsa di un qualcosa o un qualcuno a loro caro, hanno il coraggio di andare avanti e di combattere i propri demoni interiori, proprio come Massimo con Belfagor. Ma è anche un libro per tutti coloro che hanno perso la speranza nella vita, affinché possano riprendere a guardare il cielo tenendo i piedi ben saldi a terra.

Giorgio Muzzupappa