Inchiesta su Capitol Hill, i testimoni: Trump tentò un golpe grazie ai gruppi di estrema destra

Nel gennaio 2022 negli Stati Uniti è stata aperta un’inchiesta parlamentare per indagare sui fatti del 6 gennaio 2021, quando migliaia di persone hanno fatto irruzione a Capitol Hill, sede del Congresso. Dal 9 giugno sono iniziate le audizioni pubbliche utili a presentare i risultati dell’inchiesta. Quanto emerso dalla stessa potrebbe stupire: se, dapprima, si pensava che l’assalto fosse opera di un gruppo di seguaci della teoria QAnon, adesso si fa sempre più concreto il possibile coinvolgimento dell’ex Presidente Donald Trump in un vero e proprio tentativo di ribaltare i risultati delle Presidenziali 2020.

il presidente della Commissione istituita ad hoc Bennie Thompson, deputato democratico, ha detto chiaramente che l’assedio è stato «il punto culminante di un tentato golpe» e che «Donald Trump ha istigato la folla a marciare verso il Campidoglio per sovvertire la democrazia americana».

Donald Trump incitò i suoi fan a marciare sul Capitol

L’ex Presidente avrebbe addirittura aggredito un agente alla guida della limousine presidenziale afferrando il volante per tentare di raggiungere i manifestanti. Questo è quanto emerge dalla testimonianza di Cassidy Hutchinson, testimone chiave che ha lavorato per l’ex capo dello staff Mark Meadows.

(Cassidy Hutchinson. Jacquelyn Martin via AP Photo)

A tal proposito, i Servizi Segreti hanno rilasciato una dichiarazione in cui hanno affermato di «aver cooperato pienamente con la Commissione e che continueranno a farlo». Per questo – continuano – «abbiamo intenzione di rispondere formalmente alle nuove informazioni rivelate durante l’audizione non appena potranno accoglierci».

Non finisce qui: Trump sapeva che c’erano persone armate e con giubbotti anti proiettili al comizio che aveva organizzato il 6 gennaio, poco prima di incitare la folla dei suoi fan a marciare sul Capitol. Inoltre, chiese di rimuovere i «fottuti metal detector» al suo raduno, affermando che i suoi fan non gli avrebbero fatto del male.

Un altro dato emerso dalle audizioni consiste nel fatto che Trump era a conoscenza della regolarità dello svolgimento delle elezioni, per cui era stato invitato a non parlare più di “brogli” e “frodi elettorali”. L’ex procuratore generale William Barr ha aggiunto che se «davvero Trump crede in quelle cose, allora è completamente fuori dalla realtà». Anche la figlia Ivanka Trump ha fatto sapere di essere d’accordo con Barr.

Minacce all’ex vice Mike Pence

Emerge dalle audizioni un altro dato: la vita dell’ex vicepresidente Mike Pence potrebbe essersi trovata in grave pericolo nel periodo successivo alle Presidenziali. Infatti, quando si è rifiutato di dare seguito al piano sull’interruzione della certificazione dei voti del collegio elettorale (e quindi di ostacolare la salita di Biden), Trump avrebbe scatenato la folla contro di lui attraverso vari tweet pubblicati sia mentre gli assalitori stavano marciando verso il Campidoglio, sia quando erano già dentro.

(Gage Skidmore via Flickr)Un documento riservato dell’FBI, in cui vengono riportate le parole di un informatore all’interno dei Proud Boys (una milizia di estrema destra fondata nel 2016), ha rivelato che «se ne avessero avuto l’opportunità, i membri del gruppo avrebbero ucciso Mike Pence». Non sorprende che diversi manifestanti abbiano intonato cori inneggianti all’impiccagione di Pence.

Intimidazioni anche contro i testimoni

Al termine delle testimonianze, Liz Cheney, membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti, ha presentato possibili prove di intimidazione dei testimoni e ostruzione alla giustizia.

Il Presidente vuole che ti faccia sapere che sta pensando a te. Sa che sei leale.

Sarebbe uno dei messaggi ricevuti dai testimoni.

Un precedente antidemocratico?

Nonostante l’attacco a Capitol Hill sia sventato, negli Stati Uniti si continua a temere per il destino dell’assetto costituzionale. Anche alla luce degli ultimi eventi, tra cui l’overturning della RoevsWade e la conseguente abrogazione della tutela costituzionale del diritto all’aborto, si inizia a pensare (in realtà, già da prima) che questa broken democracy rischi veramente di vivere una deriva autoritaria. Soprattutto, i timori riguardano la possibilità che, in assenza di punizioni reali per i membri dell’Ufficio Presidenziale che hanno provato a coprire il tutto o vi hanno addirittura partecipato, si possa creare un precedente antidemocratico destinato a ripetersi in futuro.

Che l’ex Presidente adesso indagato non abbia imparato molto dalla vicenda, lo si nota anche dalle sue ferme intenzioni di ripresentarsi alle prossime Presidenziali.

Immagine in evidenza: Tyler Merbler via Wikimedia Commons.

Valeria Bonaccorso

Un sistema che non precluda voci ma che sappia riconoscere i falsi

Ha un limite la libertà?

Il 3 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa ma ancora oggi ci si interroga su quale sia il suo limite invalicabile, semmai debba esservene uno.

Una storia sbagliata

Il primo paese che abolì la censura, nel 1695, fu l’Inghilterra, dove già nel corso del Cinquecento era stato istituito un severissimo sistema di controlli sulla stampa. Dovette passare quasi un secolo, prima che tale censura venisse abrogata anche in Francia. Appena dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, la libertà di stampa fu proclamata dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Non tardarono però ad arrivare contestazioni da un gruppo di rivoluzionari. E anche un giurista francese considerò non un’utopia ma un’assurdità questa libertà illimitata che mai dovrebbe esistere nella legislazione di un popolo civile.

Si aprì così a Parigi, nell’estate del 1789, un dibattito sui limiti della libertà di stampa e di parola, a cui si cerca ancora una risposta. Sempre in Francia, infatti, lo stesso dibattito si riaccese dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo” nel 2015. Sorse dunque spontaneo chiedersi se fosse giusto o meno fare della satira, in quel caso sulla religione, senza tener conto della sensibilità di alcuni lettori. E la risposta non può che essere affermativa, in una società in cui (purtroppo o per fortuna?) vige la tutela dell’illimitata libertà di parola e di stampa. In cui illimitato vuol dire che tutto può essere oggetto di satira e di giudizio.

Libertà di stampa: utopia o distopia?

Dovremmo forse affidarci alle parole del filosofo olandese Baruch Spinoza, che all’interno del suo “Trattato teologico politico” propone per tutti una libertà di pensiero e di parola non illimitata. Il filosofo afferma infatti che è un diritto di ognuno esprimere il proprio pensiero, ma bisognerebbe limitarsi ad esporlo semplicemente seguendo la propria ragione, senza inganno, ira o odio nei confronti altrui.

C’è chi invece nel corso della storia non ha esitato a riconoscere ai sovrani la piena facoltà di giudicare le varie opinioni. Ma pensiamo davvero a cosa significherebbe istituire un controllo sulla libertà di stampa, evitando la pubblicazione di quei giornali ritenuti magari sconvenienti. Ciò rievocherebbe soltanto uno dei più terribili scenari orwelliani, mettendo nelle mani di un giudice l’immenso potere di decidere quando una libertà possa essere esercitata e quando no, sulla base del solo gusto personale. Può essere questa considerata “libertà di stampa”?
Essa dovrebbe piuttosto rappresentare un potere per contrasto: i giornali, in primis, dovrebbero dimostrare la capacità e la volontà di opporsi ad un potere “malato”, e non farsi soggiogare da esso.
Ora più che mai abbiamo bisogno che la stampa si metta in ascolto dell’altro ed eviti di appiattirsi sullo scontro politico.

La libertà di stampa non è un privilegio…

“Voi, la stampa libera, contate più di quanto abbiate mai fatto nel secolo scorso”

Sono state queste le parole pronunciate qualche giorno fa dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, alla cena dei Corrispondenti alla Casa Bianca. Tradizione ripresa dopo i due anni di sospensione voluti da Donald Trump, che ha sempre dimostrato una certa sfiducia nei confronti dei media, scagliandosi di continuo contro stampa e giornalisti. Per Biden, invece, il buon giornalismo serve da specchio della società, per riflettere sul bene, sul male e soprattutto sulla verità. Il Presidente non ha perso l’occasione per ringraziare i reporter di tutto il mondo che con coraggio oggi si fanno portavoce proprio di quella verità che affligge l’Ucraina, mettendo a rischio la loro stessa vita. Perché “libertà di stampa” in fin dei conti vuol dire anche “assoluta indipendenza dagli uomini del Governo”.

Lo sanno bene tutti quei giornalisti indipendenti della Russia che rischiano fino a quindici anni di carcere parlando della guerra in modo oggettivo e subendo la peggiore censura degli ultimi decenni. La stampa, dunque, non dev’essere nemica del popolo, ma piuttosto porsi come guardiana di una libertà ormai in bilico da troppo tempo, sempre pronta a mettersi dall’altro lato della barricata, nella parte scomoda, per difendere i propri ideali e la propria autonomia.

…è una necessità!

Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto in occasione dei 70 anni della Gazzetta del Sud, ha colto l’occasione per sottolineare l’importanza dell’indipendenza dell’informazione, definendola “l’unico riparo dalle sfide imposte dagli eventi del mondo”. Il Capo dello Stato ha poi continuato spiegando l’importanza di un sistema informativo che senza precludere nessuna voce riesca ad informare con proprietà critica i suoi lettori su ciò che accade nel mondo.

La libertà di stampa è alla base della democrazia e in quanto tale è necessaria alla sua realizzazione: fin quando un Paese avrà un’informazione indipendente e funzionale allora potrà vantare un buon governo.

 

Domenico Leonello

* Articolo pubblicato il 05/05/22 all’interno dell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud.

Biden riconosce ufficialmente il genocidio armeno: “Gli orrori non si ripetano mai più”

Lo scorso sabato, nel giorno del 106mo anniversario dell’inizio dei massacri armeni perpetrati dall’impero ottomano, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca.
Il 106mo anniversario del genocidio armeno a Los Angeles. Fonte: ANSA.it
Si è trattato di un gesto – senza precedenti nella storia della presidenza americana – che non è stato affatto ben accolto dal presidente turco Erdogan, il quale ha prontamente denunciato “la politicizzazione da parte di terzi” del dibattito sul genocidio, in un messaggio rivolto al patriarca armeno.   Prima di Biden, soltanto l’ex presidente Ronald Reagan aveva citato «il genocidio degli armeni» – comunque non in via ufficiale – in un passaggio di un documento del 1981 sull’olocausto, senza però più farvi ulteriore riferimento in seguito.

La scelta simbolica di Biden e le diverse reazioni

La decisione di utilizzare la parola ‘’genocidio’’ – anziché altre – per alludere alla tragedia possiede senz’altro un valore simbolico atto a ‘’confermare la storia’’, e “non a incolpare” la Turchia:
«Ogni anno, questo giorno, ricordiamo le vite di tutti quelli che sono morti nel genocidio armeno in epoca ottomana e ci impegniamo di nuovo a prevenire che tali atrocità accadano di nuovo». «Onoriamo le vittime del Meds Yeghern (Grande Male), in modo che gli orrori di quanto è accaduto non vadano mai persi nella storia», scrive Biden.
Il gesto del presidente americano rischia tuttavia di avere serie conseguenze sulle relazioni USA-Turchia, già tese durante la presidenza Trump: la Turchia, erede dell’impero ottomano, si rifiuta da oltre un secolo di riconoscere il genocidio armeno, reagendo in modo brusco contro i paesi che lo fanno. Così era stato quarant’anni fa con l’accenno di Reagan e così è stato anche nei giorni scorsi, quando Biden ha anticipato a Erdogan l’intenzione del riconoscimento; subito dopo il ministero degli Esteri turco avrebbe infatti fatto sapere che un tale gesto sarebbe stato considerato un affronto. Su Twitter il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha fatto sentire la sua:
«Le parole non possono cambiare o riscrivere la storia. Non possiamo prendere lezioni da nessuno sulla nostra storia. L’opportunismo politico è il più grande tradimento della pace e della giustizia. Rifiutiamo totalmente questa spiegazione, la cui unica base è il populismo».
Il riconoscimento Usa è stato invece plaudito dal premier armeno Nikol Pashinyan, che ha definito quello di Joe Biden un ‘’passo potente’’, mentre poco prima l’ambasciatore armeno negli Stati Uniti, Varuzhan Nersesyan, ha commentato nel seguente modo durante un’intervista della Cnn:
«Quello del presidente Biden è un atto di grande leadership morale contro una lunga storia di negazionismo». «Il genocidio armeno non è solo una vicenda del passato o che riguarda solo il popolo armeno, ma è una questione che riguarda tutti, per evitare nuovi genocidi nel futuro».

Un po’ di storia sul Genocidio armeno

Fonte: Avvenire
Il genocidio armeno, termine con cui si definisce la deportazione e l’eliminazione del popolo armeno, avvenuto negli anni 1915 e 1916 ad opera dell’impero ottomano. A partire dalla notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915, il governo turco avviò infatti una campagna sistematica di arresti e deportazioni degli armeni, con il mero pretesto che fossero nemici interni alleati con Francia e Russia durante la Prima guerra mondiale. Secondo le stime degli storici, furono almeno 1,5 milioni le vittime di quei massacri. Ad oggi Ankara riconosce l’uccisione di un gran numero di armeni (anche civili) da parte dei turchi, ma contesta l’idea di un piano per il loro sterminio. Inquadrando tali uccisioni nel quadro confuso e violento della guerra il governo turco continua a negare categoricamente che sia avvenuto un vero e proprio genocidio. La posizione di Ankara rimane dunque fermamente negazionista a riguardo, nonostante l’attuale leader turco Recep Tayyip Erdoğan arrivò vicino al riconoscimento delle sofferenze subite dagli armeni nel 2014, quando offrì le sue condoglianze per i massacri.

Le tensioni tra USA e Turchia si inaspriscono

Le ragioni per cui Biden ha deciso di aspettare tre mesi prima di fare la sua prima telefonata da presidente a Erdoğan sono i già complicati rapporti tra i due paesi: mentre gli Stati Uniti criticano il modo in cui vengono trattati i giornalisti e l’opposizione in Turchia, quest’ultima vorrebbe che gli Usa consentissero l’estradizione del religioso Fethullah Gülen, accusato di aver organizzato il tentato colpo di stato in Turchia nel 2016 e che vive ormai da anni in Pennsylvania.
Fonte: Huffington Post
Ad inasprire ulteriormente i rapporti, l’avvicinamento negli ultimi anni della Turchia alla Russia. Si pensa infatti che, dopo la recente decisione di Biden sul genocidio armeno, la Turchia (membro della NATO) potrebbe organizzare ritorsioni politiche ed economiche, oppure limitare l’utilizzo delle basi sul territorio per l’esercito americano, fondamentali per le operazioni in Medio Oriente.

Riconoscimenti del genocidio nel mondo

Il movimento per riconoscere il genocidio degli armeni a livello internazionale si fa sempre più strada: secondo l’Armenian National Institute di Washington, sono 30 in tutto i paesi del mondo che hanno riconosciuto il genocidio, Italia compresa. Sebbene la diffusione del concetto di ‘’genocidio’’ si deve in parte all’ONU, quest’ultima non ha mai preso posizione in merito ai massacri subiti dal popolo armeno, ricordando di essere stata fondata solamente trent’anni dopo gli accaduti (nel 1945) e di non aver potuto quindi indagare direttamente sui fatti. Per quanto concerne invece gli Stati Uniti, sia la Camera che il Senato americani avevano approvato a larga maggioranza nel 2009 una mozione per il riconoscimento del genocidio.
La mappa dei paesi che riconoscono il genocidio armeno. Fonte: Bunte Kuh

Le parole dei presidenti americani agli armeni

Negli Stati Uniti vivono all’incirca due milioni di armeni-americani, gran parte dei quali sono discendenti degli armeni sopravvissuti al genocidio. In passato sono sempre state dedicate delle parole agli armeni dai presidenti americani, in occasione di quel 24 aprile riconosciuto come il ‘’Giorno del Ricordo per il genocidio armeno’’, senza però mai usare esplicitamente la parola “genocidio”. Barack Obama, ad esempio, nei suoi due mandati da presidente ha utilizzato parole come «atrocità di massa», «orrore» e «tragedia», nonostante le promesse di riconoscimento del genocidio fatte durante la campagna elettorale del 2008. Biden, che ha promesso lo stesso durante la sua di campagna elettorale, ha invece dimostrato di saper mantenere la parola.

Gaia Cautela

“Lavoratori costretti a urinare nelle bottiglie”, Amazon nega ma poi ritratta

Uno scandalo inizialmente smentito, ma poi ammesso. Il colosso dell’e-commerce è stato costretto ad arretrare di fronte a un tweet che lo accusa di offrire ai suoi impiegati politiche poco dignitose sul posto di lavoro. Innumerevoli le testimonianze da parte di utenti ed ex lavoratori di Amazon che confermano quanto sostenuto anche dal democratico Mark Pocan.

La denuncia

La disputa sul social ha avuto inizio proprio da un tweet di quest’ultimo: “Pagare 15 euro l’ora i tuoi dipendenti non fa di te un posto di lavoro all’avanguardia, dal momento che li costringi a urinare nelle bottiglie.

La replica di Amazon non si è fatta attendere: “Se fosse così nessuno lavorerebbe per noi”, ribadendo poi che coloro che lavorano per l’azienda godano di assicurazione sanitaria e condizioni di lavoro ottimali. Ma è davvero così?

Fabbrica Amazon negli Stati Uniti. Fonte: AGI.

La realtà dei fatti è molto più triste di quanto non si immagini. A metterla in luce, non solo dichiarazioni ma anche documenti interni che erano stati esposti ai dirigenti dell’azienda, messi al corrente di questa “pratica” da lungo tempo. Difficile immaginarsi un dietrofront più clamoroso da parte di Amazon, che è stato costretto alle scuse nei confronti di Pocan, aggiungendo, però, che la polemica si era concentrata “erroneamente sui centri di distribuzione, dove invece i dipendenti possono allontanarsi dalle loro postazioni di lavoro in qualsiasi momento”.

Dunque, se da un lato Amazon tiene a fare le dovute precisazioni, dall’altro ammette la poca preoccupazione riguardo i suoi driver, privati di servizi igienici soprattutto durante la pandemia, quando tutto era chiuso. Vorremmo risolvere il problema. Non sappiamo come, ma cercheremo delle soluzioni” ha infine promesso.

La situazione degli Stati Uniti: il caso Alabama

“Sigh” – è il commento di Pocan alla vicenda, che ribadisce – “Non si tratta di me ma dei vostri impiegati, che non trattate con sufficiente rispetto e dignità. Iniziate a riconoscere le condizioni di lavoro inappropriate che avete creato per tutti i vostri dipendenti”.

Parole in linea con le recenti contestazioni avvenute in una piccola cittadina dell’Alabama, Bessemer, dove 6mila dipendenti Amazon stanno lottando per la creazione di una sezione sindacale per la tutela di diritti sul lavoro. Un granello di sabbia che potrebbe tuttavia inceppare un intero meccanismo, forte di un impero che conta 800 fabbriche negli Stati Uniti. La minaccia è stata avvertita dallo stesso Jeff Bezos che, per scongiurarla, ha invitato i suoi manager a monitorare attentamente la situazione.

 

Strike the Giant! è l’organizzazione trasnazionale che ha unito i lavoratori Amazon in Europa e America. Fonte: Into the Black Box

La voce meccanica all’ingresso della toilette che ricorda ai lavoratori che la loro paga ammonta a 15 euro l’ora – circa il doppio della paga media in Alabama – sarà sufficiente? Il sito creato appositamente dal colosso, DoItWithoutDues.com, per diffondere le ragioni anti-protesta, è il segno più evidente di un conflitto che ha dimensioni più ampia di quelle locali. Il Wall Street Journal scrive: “Amazon ha trattato e combattuto con le organizzazioni sindacali in Europa per anni e continua a farlo. Ma si è sempre opposta per principio all’avvio di un rapporto organico con le Union negli Stati Uniti”.

Joe Biden con i lavoratori Amazon: “Fate sentire la vostra voce”

L’immagine di un business che conta 1,3 milioni di lavoratori in tutto il mondo -960mila solo negli Stati Uniti- preoccupato del benessere di ciascuno di loro sembra cadere innanzi alla voce che si leva da chi, in questo meccanismo, non è stato altro finora che soggetto di un algoritmo. Dalla loro parte anche il presidente Joe Biden, il quale ha espresso solidarietà ai lavoratori Amazon. 

Alessia Vaccarella

Si va verso le elezioni presidenziali USA: ecco le modalità, i candidati e le previsioni

Le 59esime elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America si terranno il 3 novembre 2020.
Ma quali saranno le modalità? Chi sono i candidati? E quali sono gli sviluppi recenti?

Come voteranno gli americani: la legge elettorale

Si tratta di elezioni “indirette”.
Significa che il 3 novembre i cittadini voteranno quelli che sono definiti “grandi elettori”, i quali formeranno poi il Collegio Elettorale.
Ogni Stato votando, con la sua legge elettorale e in base alla sua grandezza, contribuirà alla formazione del Collegio Elettorale: 538 membri in tutto.
Sarà poi il Collegio ad eleggere presidente e vice presidente, il 14 dicembre 2020.

Ogni membro del Collegio Elettorale è legato alla lista di un candidato presidente, quindi è molto improbabile che dopo voti per un diverso candidato presidente.

I protagonisti

Donald Trump, attuale e 45esimo presidente USA

Trump ha iniziato la sua campagna elettorale meno di un mese dopo l’assunzione della carica, cioè già nel 2017.
Tuttavia nell’ultimo periodo le controversie sono aumentate.
Il presidente ha infatti alle spalle il processo di impeachment, di cui è stata presentata una richiesta formale il 12 luglio 2017.
Diventa così il terzo presidente ad essere messo sotto accusa, dopo Johnson e Clinton.
L’accusa riguardava il tentativo di Trump di ostacolare le indagini per il caso Russiagate (interferenza russa nelle elezioni del 2016).

In questi ultimi giorni invece c’è un’aria fortemente critica nei confronti del presidente: il modo in cui ha gestito l’emergenza Coronavirus e le proteste dei movimenti Black Lives Matter hanno fatto discutere parecchio.

Anche gli stessi esponenti dell’ala repubblicana sembrano incerti.
Recentemente Colin Powell (ex segretario di Stato di George W. Bush, quindi repubblicano) ha dichiarato: “Non ho votato per lui allora” e “non posso certamente sostenerlo quest’anno”.

Chiaramente, queste controversie non sono da considerarsi come l’unica prospettiva, che lo da per spacciato.
C’è ancora molto tempo perchè Trump ribalti la situazione in suo favore, organizzando un’efficace strategia comunicativa, come spesso in passato ha dimostrato di saper fare.

Così potrebbe essere interpretato il suo recente Tweet a proposito dei lavori di costruzione del muro lungo il confine con il Messico.

 

Joe Biden, il candidato per i Democratici

Ex vicepresidente di Barack Obama (dal 2009 al 2017), è stato soprannominato da Trump “Sleepy Joe”.
È un democratico moderato ed ha un programma progressista. Di seguito, sinteticamente, i punti principali:

  • Sanità: ripartire dall’Obamacare, riforma sanitaria attuata da Obama e da sempre contrastata da Trump. Questa prevede l’aumento del numero di persone tutelate dal sistema sanitario che secondo l’attuale presidente, invece, costerebbero troppi agli americani.
  • Economia: investimenti in infrastrutture per far crescere il numero di posti di lavoro per la classe media.
  • Armi: ha intenzione di attuare provvedimenti per adottare misure stringenti sull’uso di armi da fuoco.
  • Immigrazione: Biden ritiene l’immigrazione una risorsa per il paese. Vuole cancellare il Travel Ban (legge che vieta l’ingresso in USA ai cittadini provenienti da Paesi a maggioranza musulmana).

La dichiarazione del rapper Kanye West

Recentemente il rapper Kanye West ha dichiarato, in un tweet, di volersi candidare per le elezioni 2020.
Tuttavia il suo staff non ha ancora ufficializzato l’annuncio.

In ogni caso, tale dichiarazione ha suscitato diverse perplessità.
Il rapper era sempre stato un forte sostenitore di Trump, quindi non è ancora chiaro il motivo della sua mossa.

Angela Cucinotta