Il peso della libertà

Con i miei occhi vedo il grigio della città, sento sulla pelle il freddo di quello che qui chiamano inverno, sento il profumo e il gusto di un pasto, diverso ogni giorno, e il rumore dell’acqua che scorre lentamente dal rubinetto di un lavandino; quando sciacquo il viso, sento la freschezza e la limpidezza poggiarsi sul mio volto ed apprezzo ogni singola goccia che riga la guancia.

Da bambino credevo che tutto il mondo avesse gli occhi grandi, le case sfasciate monocolore e lo credevo tutto giallo come i lineamenti caldi del deserto e marrone. Allora, sembrava quasi non importarmi del ‘’sapore’’ lurido dell’acqua dei pozzi dispersi o delle giornate passate a non mangiare: a me piaceva giocare con quel pallone di pezza, insieme ai miei amici.

Ma da piccolo non sai che le leggende sui bianchi e sulla loro ricchezza, sulle terre verdi e sui palazzi alti, sono più che semplici storielle.

Un giorno, mi ricordo, i miei mi svegliarono nel cuore della notte – è arrivato il momento – mi dissero; così presi l’unica cosa che possedevo: la mia palla di stracci.

Se chiudo gli occhi vedo ancora la moltitudine di stelle che si riflettevano sul mare e poi quel barcone; vedo ancora tutta quella massa di gente, accalcata e stipata in una ‘’nave’’ che non ci avrebbe potuto sorreggere tutti.

Una volta salitoci su, mi sentivo schiacciato dagli omoni che erano almeno tre volte più alti di me e sentivo il mare dondolare sotto i piedi scalzi: eravamo delle bestie guidate da una chimera.

Non so quanto durò quel viaggio, che tutti chiamano ‘’della speranza’’, ma per noi, poveri animali in fuga, era una traversata della disperazione.

Il sole rinsecchiva le pelli, le labbra asciutte chiedevano acqua e gli occhi lucidi si rassegnavano alle onde del mare distanti dal nostro miraggio; la gente moriva lentamente cullata da una speranza naufragata nelle acque salate; i corpi affondavano giorno dopo giorno e sul quel barcone c’era un’inspiegabile senso di sollievo nel trovare più spazio per appoggiarsi a quella che ormai era la nostra precaria casa galleggiante.

Quando i miei genitori morirono sfiniti da quell’infinito tragitto, sentii che ci sarei morto anche io là sopra e che non avrei mai più visto la terraferma.

Fortunatamente, mi sbagliai.

Poche ore dopo vidi in lontananza una nave che probabilmente ci avrebbe salvato, ma nessuno di noi lì aveva la voce per urlare né la speranza di avere ancora un briciolo di speranza.

 

 

Subito dopo lo sbarco, ricordo ben poco.

Ma la sensazione di aver perso la mia dignità, di non avere più un’identità, mi accompagna ancora.

Adesso sono libero. Libero da quella ‘’puzza di oriente’’ che sembrava distinguermi dall’odore della leggendaria terra dei bianchi; libero di vivere; libero di sentire il peso della mia libertà.

 

Jessica Cardullo

Apri gli occhi

Curioso.

Curioso è essere cullato da un’alta marea di voci che sembrano chiamare il mio nome.

“ Nico, Nico….” – era un loop di suoni familiari che continuavano ad invocarmi e, in quel frastuono, c’era sicuramente qualche sconosciuto.

Mi sentivo sballottare da una parte e poi dall’altra: erano secondi, o forse minuti, o addirittura ore – non saprei dirlo con esattezza – ma so con convinzione che nella mia testa c’era una distinta confusione che avrei voluto si placasse.

Così, dissi fra me e me “ urla, Nico” e lo feci o almeno, così mi parse di fare.

In effetti, il rumore attorno a me era perpetuo, non smetteva, ed io piano piano realizzavo di essere disteso sulle bianche sfumature di un letto a rotelle.

Più sovrastante di tutte le voci, era lo strofinio continuo che percepivo sulla mia mano destra – credo – di un’energia inaudita.

Mi concentravo su quella sensazione e le voci erano ormai diventate una colonna sonora che imperturbabile cullava il disordine fra sogno e realtà.

Era questo il punto: cos’era? Un illusione? O stava accadendo davvero?

La domanda trovò subito una risposta nel mio spirito che osservava il mio corpo disteso su quello che, ora, mi appariva nitido come un lettino d’ospedale.

Un groviglio di pensieri martellava la mia testa.  

Finalmente riuscivo chiaramente a vedere cosa avevo intorno: le lacrime di mia madre, la mano della mia ragazza sopra la mia, le urla di mio padre ed i dottori che correvano con quella barella d’appresso, su cui io giacevo indisturbato.

Il caos, lo sgomento e la paura sembravano essersi impossessati di tutta quella gente, tranne che di me: avvertivo un’inspiegabile sensazione di pace.

Ricordo che d’un tratto arrivò Daniele e fu allora che ritornò il ricordo della sera precedente.

Il venerdì, io e Dani andavamo sempre in quel pub, vicino la piazza centrale, e quella sera passammo anche a prendere Peppe. Peppe…fu allora che pensai “Dov’è? Perché non è lì? Dov’è il mio amico?”

Quella quiete apparente in cui galleggiavo, aveva lasciato il posto al fracasso dei ricordi: un bicchiere di tequila, poi un altro e un altro ancora.. mi metto alla guida…le luci, l’autostrada…sbando. Il buio.

E Peppe dov’è?

Quasi come se la mia anima si staccasse leggiadra dal mio corpo, cominciai a gironzolare per l’ospedale guidato da un sesto senso non indifferente che mi portò in un’altra stanza: il mio amico era inerme, attorniato dai suoi familiari che piangevano cascate.

“Non poteva essere vero. Non succede mai che una volta esageri e muore qualcuno. Era un incubo.” – era la solfa che mi ripetevo per convincermi che non avevo distrutto la vita del mio amico, quella della sua famiglia e anche la mia.

Proprio in quel momento, in preda alla disperazione più totale, vidi in lontananza una luce soffusa e subito dopo un bagliore cosi forte da farmi chiudere gli occhi.

È li che pensai “ è finita.”

 

Curioso.

Curioso è svegliarsi da un incubo che altro non è che la conseguenza di una stupida azione sbagliata.

Curioso è dover continuare a vivere, quando il senso di irresponsabilità ha ucciso il tuo amico.

Curioso è aprire gli occhi ogni mattina e chiedersi “Perché l’ho fatto?”

Curioso è sentirsi vittima dei propri sbagli.

Curioso è credere di essere onnipotenti alla guida di una macchina.

 

Jessica Cardullo

Il leone ed il bambino

leone_bianco

Alle 20 in punto varco la soglia della porta – “ Sono a casa!” – e vedo il mio piccoletto correre verso di me – “ Ciao papino” – dice saltandomi addosso.

Ciao caro” – sento urlare dalla cucina poco distante dall’ingresso.

Credetemi, non c’è niente di meglio, dopo una giornata di lavoro, del rivedere la tua famiglia.

Finita la cena, mi infilo il pigiama e (come ogni giorno) scorgo mio figlio sulla soglia della porta della mia stanza: con aria timida, so già cosa andrà a chiedermi – “ Papà non è che mi racconti quella storia che mi piace tanto, prima di addormentarmi?”

Come poter dire di no?

Allora lo seguo nella sua stanzetta, lui si mette a letto e gli rimbocco le coperte; con occhi sbarrati mi guarda come per incitarmi a cominciare con il racconto.

  • La storia inizia fra le calde terre del Sudafrica, con un branco di leonesse e i loro cuccioli distese nella savana. Fra quei maestosi e giallastri leoncini, ce n’era uno bianco, più vispo degli altri; si allontanava, alla scoperta di quella terra di gazzelle e leoni dalla criniera possente.
  • Non devi allontanarti da me, potrebbe essere pericoloso! Al di là del ruscello, ci sono gli uomini e loro sono cattivi!”- gli raccomandava sempre la mamma – ma lui non sembrava avere paura.

In una delle più calde giornate della stagione, il bianco leoncino in esplorazione, si ferì ad una zampetta: non riusciva più ad appoggiarla.

Disperato, cominciò a ruggire per farsi sentire dalla madre, ma la sua voce era ancora piccola e poco potente; le ore passavano e la notte sembrava essere sempre più vicina.

I suoi lamenti giunsero all’orecchio di Thato, un piccolo bambino che abitava oltre il ruscello.

Anche lui, curioso, decise di seguire quei gemiti, trovando, così, il povero cucciolo immobile e ferito: in un primo momento indietreggiò per la paura, ricordandosi quanto pericolosi fossero i leoni.

Thato, però, non poteva lasciarlo morire, così prese dell’acqua dal ruscello e lavò la ferita del leone e poi gli disse: “ Torno subito”.

Raggiunse la sua casetta e di soppiatto prese un unguento curativo e metà della sua cena; corse il più veloce possibile per raggiungere l’animale.

Lo curò e gli diede da mangiare, promettendogli che non l’avrebbe lasciato solo finché non sarebbe riuscito ad alzarsi.

Si fece notte e l’unguento funzionò: finalmente il leoncino riuscì a mettersi in piedi; guardò Thato e mosse la zampa verso di lui, in segno di riconoscenza, prima di andarsene.

Tornato dal suo branco, il piccolo raccontò alla madre preoccupata che aveva conosciuto un uomo buono, che si era preso cura di lui e che non lo dimenticherà mai.

E così fu.

Passati diversi anni, il leoncino ormai cresciuto era a caccia con altri due leoni, quando udì uno sparo.

D’un tratto videro dei cacciatori, proprio di fronte i loro occhi, con i fucili carichi; così cominciarono a ruggire.

La battaglia era pronta, fin quando il leoncino riconobbe quell’uomo buono: si avvicinò con calma, nonostante avesse paura, proprio come tempo prima il bambino fece con lui; Thato riconobbe il manto bianco del cucciolo smarrito ed ordinò agli amici di abbassare le armi.

In un istante, quell’uomo e quell’animale abbandonarono la paura e la violenza, lasciando il posto alla fiducia e a qualche carezza.

E come dice Rousseau?”

  • Tutti gli animali diffidano dell’uomo e quando sono sicuri che non vuol fargli del male, la loro fiducia diventa così grande che bisogna essere più che barbari per abusarne.
  • Esatto, piccolo mio. Buonanotte”

Jessica Cardullo

L’assoluta felicità

Charles-Eugène-Plourde-Se-non-trovi-la-felicità

Nel momento in cui mi chiedo quale sia la risposta alla quotidiana domanda “cos’è la felicità?” , la prima parola che riesco a scovare è, probabilmente, “utopia”; se poi, cerco nel fondo del mare di definizioni – errate o incomplete che siano – che la mia mente associa alla parola felicità, forse la accosterei ad un momento, ad un’emozione o, addirittura, ad una persona.

Altrettanto spesso, mi ritrovo ad accontentarmi della risposta quasi rapida e inevitabilmente superficiale che mi do.

Ma per il resto del tempo, nei momenti in cui non mi pongo questo interrogativo, qual è la risposta?

Tra i metafisici, coltivare la virtù più elevata era il gradino da salire per raggiungere l’ambita ed elevata eudaimonia – letteralmente, lo spirito buono o più comunemente, la felicità.

Nietzsche, d’altro canto, proporrebbe la teoria della felicità come forza vitale e lottatrice; come colei che non limita la libertà ed afferma il suo essere, senza ricadere nell’effimera condizione di pigrizia e di staticità.

È forse, quindi, il più cospicuo di un modello concettuale o è una figura da imitare?

Soffermandomi sul sorriso di un bambino che gioca, sulla mia famiglia che scherza a tavola o su un mio collega che si laurea, ogni teoria viene sbaragliata dal concetto dell’attimo.

Ritorno, allora, a trovare una soluzione diversa ad un quesito apparentemente insulso.

Ma se la felicità è un attimo, è fallace: un momento è lì e la vedi con gli occhi; la tocchi con gli angoli di bocca rivolti verso il cielo.

E per ognuno, la felicità è un istante diverso, è soggettiva.

Dunque, non solo è l’illusione di un momento ma ricade nella propria realizzazione – o per meglio dire – nelle scelte.

Ci sono.

La felicità è capire cosa vogliamo che, di per sé, rappresenta uno stato relativo di gioia e che raggiunge il suo stato assoluto nel momento in cui si ottiene quello che ci si prefissa come un obiettivo.

Magari, per quella ragazza che sta sorridendo davanti ad uno schermo di un cellulare, l’apice sarà un bacio; per quell’uomo che è stato appena licenziato, sarà un posto di lavoro; per quella donna con il pancione, sarà tenere tra le braccia la sua piccola creatura.

E dopo aver raggiunto questa vetta, cosa c’è?

Poi c’è un’altra felicità, un altro obiettivo o, piuttosto, un nuovo sogno.

Riassumendo, collegando, cercando fra i miei pensieri la risposta a “che cos’è la felicità?” credo sia questa: la felicità è un sogno, fugace ma continuo.

Jessica Cardullo

Angolo di strada

unnamed-5

La ragazza con i capelli lunghi correva nella strada come se fosse rincorsa da un segugio; attorno al collo indossava una sciarpa colorata ad occhio un po’ troppo lunga per la sua minuta statura, e la si vedeva svolazzare per qualche centimetro dietro di lei; stringeva dei libri al petto, che sembravano pesarle più del dovuto.

È bastato un incrocio su quella via trafficata ad interrompere il suo passo svelto: la fretta di due impacciati giovani si era trasformata in un fortuito incontro a ridosso di un angolo di strada.

Il cielo d’argento sopra di loro prometteva pioggia, ma quell’urto di sguardi era sole fra le nuvole cupe.

La ragazza bassina, chinata a terra per raccogliere i libri, aveva trovato il suo silenzio in una città rumorosa solo guardando gli occhi dello sconosciuto davanti a lei.

L’assurdo del caso aveva fatto incontrare due persone perfettamente conformi ed i loro cuori stavano facendo il resto.

I sorrisi si accoglievano l’uno nell’altro e nelle parole riecheggianti c’era la bellezza di una nuova primavera.

Poi, l’ardore delle chiacchiere li accompagnò per mesi; anche quando l’odore dei ciliegi profumava la brezza delicata sui loro volti.

Se i due erano stati perfetti sconosciuti, adesso i loro occhi vedevano gli stessi colori.

Le mani si intrecciavano mentre il Tevere vicino scorreva incurante dell’amore che si stava scatenando.

Fra i vicoli di Campo de’ Fiori, un chitarrista per strada accompagnava quella apparente normale passeggiata, che per loro era la più bella di sempre.

 

 

  • “ Io sono Elio”
  • “ Io Giulia” – rispose la ragazza con i capelli lunghi.

Era incappata negli occhi smeraldo di quello straniero fino a sprofondarci dentro.

In quel pozzo verde speranza, aveva trovato la sua felicità anche se per un breve idilliaco momento, ma sapeva che avrebbe voluto inciamparci per altre mille volte ancora.

 

 

Jessica Cardullo