Nietzsche è ancora vivo e probabilmente ascolta Jazz

Un gigante tra passato e presente

Sebbene sia ormai morto da quasi duecento anni, Friedrich Nietzsche ha scosso le fondamenta della Filosofia contemporanea, provocando grande divisione, nel corso degli anni, tra i suoi più accaniti sostenitori e coloro che non sopportano la brutale onestà con cui la sua oscura penna sputa sentenze sulla bianca carta dei libri.

Un solo aspetto del celebre filosofo nichilista riesce a mettere d’accordo tutti: egli rappresenta un punto di non ritorno nella storia della Filosofia. Il grande successo delle sue opere è sicuramente dovuto alla grande attualità dei temi affrontati: il modo che ha l’uomo di fronteggiare il dolore, la sottile linea che separa la fede cieca dall’illusione e il contrasto tra la morale imposta dalla società e la volontà del singolo individuo sono soltanto alcune delle tematiche che Nietzsche tratta nelle sue opere.

Possiamo dunque affermare che il pensiero di Nietzsche non va relegato al semplice studio accademico, bensì va considerato come un importante chiave di lettura per l’esistenza dell’essere umano in tutte le epoche.

L’apollineo contro il dionisiaco

Il concetto su cui si basa l’intera concezione che Nietzsche ha dell’universo che ci circonda è lo scontro tra l’apollineo e il dionisiaco.

Apollo era il dio greco delle arti e dei canoni, simbolo della razionalità umana. Dioniso era un dio introdotto dai greci nei loro culti a causa di influenze dei popoli asiatici con cui si sono rapportati nel corso del tempo.

Dioniso, a differenza di Apollo, non rispetta alcun canone. Non è razionale, bensì si abbatte sugli uomini come un vento impetuoso. Li spinge ad abbandonarsi ai loro istinti più primitivi, li fa sprofondare nella tentazione e li mette in contatto con la natura.

Inutile dire che la totale irrazionalità di Dioniso non può che divorare le fragili regole imposte da Apollo agli uomini.

Per Nietzsche, dunque, il mondo è stato, è e sarà sempre Dioniso e la sofferenza umana è dovuta dalla difficoltà che l’uomo ha ad accettare il disordine.

All’inizio del secolo scorso è nato un nuovo genere musicale che come tema centrale ebbe proprio il disordine: il Jazz.

Tra ordine e caos: il Jazz

Quando la popolarità di un nuovo genere musicale chiamato Jazz (si pensa il nome derivi da un vocabolo francese che richiama una sensazione di allegria e movimento) esplose a New Orleans, intorno al 1915, Friedrich Nietzsche era già morto da quindici anni.

Ci sono, però, incredibili somiglianze tra il messaggio contenuto nella filosofia di Nietzsche e la musica Jazz.

Questo nuovo genere musicale ha da subito colpito il pubblico per l’utilizzo di svariati virtuosismi e scale musicali alternative, capaci di suscitare nell’ascoltatore un grande senso di disordine e caos. Un richiamo verso gli istinti primordiali dell’uomo, un innato senso di movimento che getterebbe nella confusione anche la più razionale delle menti.

Il Jazz fa uso di un attento studio di scale musicali e virtuosismi per veicolare verso le orecchie dell’ascoltatore quella che è la natura umana: il disordine.

Proprio lo stesso senso di disordine e spaesamento si trova all’inizio del percorso che, secondo Nietzsche, deve portare l’uomo a diventare Übermensch, ovvero oltre-uomo.

La tappa iniziale di questo arduo cammino è segnata dalla morte di Dio, ovvero dalla morte di ogni certezza metafisica. Che essa sia una cieca fede in qualsivoglia religione o un’incrollabile fede nella scienza e nel progresso, ogni convinzione che serva a portare avanti il fragile ottimismo dell’uomo nei confronti della vita è destinata a crollare di fronte alla brutale verità. L’esistenza è sofferenza. L’uomo non può fare uso di alcun costrutto razionale per consolare sé stesso.

La musica come linguaggio universale

E coloro che furono visti danzare, vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica.

Nietzsche F., La gaia scienza e idilli di Messina

Con questo aforisma della Gaia scienza, una delle sue più celebri raccolte di aforismi, Nietzsche evidenzia innanzitutto la centralità della musica come linguaggio nell’esistenza umana.

Come affermato da lui stesso ne La nascita della tragedia, una delle sue prime opere, la musica è uno dei pochi mezzi di cui l’uomo dispone per «andare in concerto di fronte alla propria anima», comprendere sé stesso in modo autentico e senza alcun filtro esterno, libero dai dettami morali di una società schiava delle illusioni.

In un mondo in cui gli uomini cercano disperatamente la consolazione, tramite mezzi razionali che non hanno alcuna efficacia, la musica è un’arte comunicativa, svincolata dalla parola umana, che necessita della conoscenza preliminare di una lingua per essere compresa. Ma arriva in modo diretto all’ascoltatore, suscitando immediatamente sensazioni forti e innate nell’anima umana.

Proprio partendo dall’evoluzione nella concezione greca delle opere teatrali, Nietzsche effettua un’approfondita disamina del cambiamento del rapporto tra l’uomo e il disordine.

Mentre, in un periodo iniziale della produzione di tragedie in Grecia, l’uomo si rapportava in modo diretto e spietato col dolore, come vorrebbe il Dioniso, in un secondo momento la tragedia greca è stata appesantita da artifici scenici ed elementi narrativi come il deus ex machina. Greci hanno dunque provato ad introdurre Apollo nella loro produzione tragica, allontanandosi dalla comprensione della vita come puro caos.

Il viaggio dell’uomo: dal dolore all’accettazione

Risulta quasi immediato il passaggio della centralità del caos, come base dell’esistenza e della sofferenza, nella filosofia di Nietzsche, alla centralità del disordine e dell’apparente insensatezza nei componimenti Jazz.

L’aggettivo apparente non è usato in modo superficiale: c’è un attento studio schematico dietro la musica Jazz, proprio come c’è una parvenza di ragione nel caos della filosofia di Nietzsche.

Senza anni di teoria musicale e senza lo studio delle complicate scale che ne costituiscono le fondamenta, sarebbe impossibile comporre un pezzo Jazz.

Allo stesso modo Nietzsche individua una via di fuga dalla ripetitività della sofferenza nell’esistenza umana. Una volta constatato il tramonto di tutte le certezze (la morte di Dio), l’unico modo che ha l’uomo per andare avanti è costruire i propri valori, obbedire unicamente alla propria morale, in modo tale da diventare oltre-uomo. Tutto ciò deve avvenire secondo una ragione interna all’uomo, che apre le porte al concetto di prospettivismo: non esiste qualcosa di oggettivamente giusto, ma i concetti di buono cattivo dipendono dalla prospettiva soggettiva da cui vengono osservati.

Filosofia e musica: la cura per l’anima

Gli anni della pandemia e del lock-down hanno gettato la società nel silenzio più totale. Non si sentiva alcun veicolo circolare in strada, niente serate nei locali, nessun evento sociale che coinvolgesse grandi gruppi di persone. Il silenzio assoluto.

Noi, in quanto esseri umani, abbiamo provato un grande sconforto nel vedere una società figlia del positivismo e della razionalità collassare su sé stessa.

Tutto ciò che la ragione aveva costruito stava crollando davanti ai nostri occhi e noi non potevamo accettarlo.

Ciò che venne teorizzato da Nietzsche nel XIX secolo non fa che ripetersi ciclicamente. Le convinzioni che l’uomo costruisce tramite la ragione crollano una dopo l’altra al presentarsi di nuovi problemi, causandoci sofferenza.

Negli anni del covid-19, è stata proprio la musica ad avere un ruolo centrale nella vita della maggior parte della popolazione globale.

Nietzsche continua a spronarci a trovare il nostro equilibrio personale nel caos, e il mezzo più potente che abbiamo per farlo è sicuramente la musica.

Possiamo, dunque, concludere, alla luce della grande attualità del suo pensiero, che Nietzsche è ancora vivo e probabilmente ascolta Jazz.

Bibliografia:
Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Firenze, Giunti, 2021
Nietzsche F., Genealogia della morale, Trento, Rusconi, 2023
Nietzsche F., La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1977
Nietzsche F., La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977
Nietzsche F., Tutto sarà allora Dioniso, Firenze, Giunti, 2023
Storia del Jazz: https://www.elegancecafe.it/storia-del-jazz-le-origini/?srsltid=AfmBOoo1hBV-T2HUjr8EJEswe2wLtnOsIL_4HW0Vbvl00RPX0mvD558y

 

André 3000 è tornato ma non è più quello di prima

uvm 4 stelle
L’intenzione dell’artista è quella di “sospenderci” fra le note del suo flauto, alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé. – Voto UVM: 4/5

 

Dopo 17 anni di silenzio musicale dal rilascio di Idlewild, ultimo album degli OutKast, leggendario duo hip-hop di Atlanta, André 3000 fa il suo debutto da solista con un album new age dove è il flauto a fare da padrone.

Capita molto spesso nel mondo della musica di fare delle previsioni sulle uscite imminenti ma, quando si parla di un nome come quello di André Benjamin (in arte André 3000), è difficile pensare che avrebbe suonato qualcosa non hip-hop. Il duo da cui proviene infatti, gli Outkast, ha dominato la scena a cavallo fra gli anni ’90 e i 2000 con un successo difficile da eguagliare: Stankonia e Speakerboxxx/The Love Below sono fra gli album più venduti nella storia del genere. Oltre ai grandi numeri gli Outkast hanno anche plasmato un’eredità musicale da trasmettere, influenzando numerose generazioni successive di rappers – uno fra tutti, Tyler, the Creator – e aprendo, con il southern hip-hop, un nuovo fronte musicale in una scena che in quegli anni era culturalmente dominata dalla West ed East coast statunitensi.

Eppure, nonostante André 3000 avesse potuto vivere di rendita sulla scorta della fama e del nome creatosi con il compagno Big Boi, ha deciso di imbracciare il flauto e suonare “indisturbato” per le strade di Los Angeles. Da questa esperienza viene fuori New Blue Sun, un album a metà fra l’ambient jazz e la new age, completamente strumentale e realizzato insieme al musicista e produttore Carlos Niño.

Un lavoro di improvvisazione

Come André stesso ha dichiarato, il suo lavoro non nasce da uno studio e da una preparazione metodici. È un flusso di coscienza musicale dove le parole sono sostituite dal suo flauto, accompagnato da altri strumenti come gong, bastoni della pioggia, sintetizzatori, tastiere, violini, la cui organizzazione armonica è affidata al producer Carlos Niño. Persino la lunghezza e i refusi voluti dei titoli delle tracce rendono l’album “non intenzionale”.

Con il brano d’apertura I Swear, I Really Wanted to Make a ‘Rap’ Album but This Is Literally the Way the Wind Blew Me This Time (“Lo giuro, volevo davvero fare un album rap ma questo è letteralmente il modo in cui stavolta sono stato trasportato dal vento”) l’artista sembra quasi volersi giustificare con il suo pubblico per la sua scelta inaspettata, facendo subito intendere quale sarà il leitmotiv dell’intero lavoro, ovvero il flauto. In Ninety Three ‘Till Infinity and Beyoncé, dove la storpiatura della parola “beyond” lascia all’ascoltatore una certa libertà di interpetazione, le sonorità ambient elettroniche di Matthewdavid ci trasportano in un viaggio dai caratteri atavici e un po’ tribali.

Un’accoglienza incerta per André 3000

Non è certamente un album facile da comprendere, André 3000 lo sa bene e non si aspetta di certo un’acclamazione unanime. I critici si sono infatti divisi subito fra chi ci ha visto il coraggio di un artista in fuga dalla fama e alla ricerca della normalità e fra chi invece la solita solfa new age neanche molto ambiziosa. L’intenzione dell’artista non è comunque quella di lanciare un messaggio ben preciso, è più quella di sospenderci fra le note del suo flauto alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé.

E a chi lamenta il suo mancato ritorno nel mondo dell’hip-hop l’artista ha affermato in un’intervista a GQ (intento a fare il bucato in una lavanderia a gettoni):

Come posso aspettarmi che tu sia
eccitato riguardo a un mio lavoro
se io stesso non lo sono?

 

Francesco D’Anna

Rileggere “Il grande Gatsby” in un graphic novel


Il riadattamento a fumetti de “Il grande Gastsby” è un’opera emblematica per i contenuti e le caratteristiche – Voto UVM: 4/5

 

Pubblicato a New York, nel 1925, Il grande Gatsby, il capolavoro di Francis Scott Fitzgerald, è tra le opere letterarie  più importanti del romanziere americano.

L’opera, dopo diverse trasposizioni cinematografiche,  è stata adattata per la prima volta al linguaggio delle immagini, in un romanzo a fumetti pubblicato in Italia dalla casa editrice Tunué. Il graphic novel curato dalla pronipote dello scrittore americano, Blake Hazard, è illustrato dall’artista Aya Morton, scelta dalla stessa e dal team di creativi dopo un’ attenta e articolata ricerca.

Le trasposizioni cinematografiche o teatrali dei grandi romanzi corrono infatti  il rischio di tradire l’essenza dell’opera nell’adattamento: di qui la necessità di rintracciare tra diversi artisti, quello dallo stile capace di restituire al lettore il vero spirito del protagonista e l’atmosfera del racconto. Aya, come la stessa Hazard scriverà nell’introduzione del graphic novel

“E’ riuscita a cogliere perfettamente lo spirito travolgente delle feste di Gatsby a West Egg, l’atmosfera languida dei pomeriggi trascorsi a casa Buchanan e lo strepitoso paesaggio urbano di New York.”

L’adattamento del testo originale è stato affidato invece al sapiente lavoro di Fred Fordhan, che oltre alla sua esperienza con lavori precedenti come quello su Il buio oltre la siepe di Harper Lee, vanta anche una carriera come illustratore.

 Il grande Gatsby, graphic novel. Fonte: Tunué

 

Pagina dopo pagina, tavola dopo tavola, vediamo delinearsi la vicenda di Jay Gatsby, il protagonista dell’opera, un uomo ricco e dal passato misterioso, le cui memorabili feste nella villa di Long Island sono note a tutti e a cui tutti possono partecipare. Nonostante la sua grandezza e la sua fama siano sulla bocca di tutti, nessuno degli ospiti sa veramente chi egli sia. Il lettore è accompagnato nel mondo di Gatsby attraverso la voce narrante, quella di Nick Carraway, suo vicino di casa e cugino di Daisy, amore giovanile del protagonista.

Daisy è il motore immobile che muove l’intero mondo di Gatsby, mondo che Fitzgerald ci presenta in nove capitoli disvelando piano piano la sua personalità e il suo passato attraverso il racconto della sua ossessione per quest’amore ideale e irraggiungibile.

 

Il bacio tra Jay Gatsby e Daisy

 

Dalla trama emerge un senso di disagio e inadeguatezza nei confronti della società americana di inizio secolo scorso, società caratterizzata  dalla perdita di ogni senso morale e guidata dal mito del guadagno ad ogni costo. Si delinea un’ideale di ricchezza che si sovrappone in modo grottesco ai valori fondanti dell’identità di popolo americano, quelli della cultura del lavoro e del sacrificio. Dunque non solo il racconto di giovani eleganti del mondo newyorkese, di macchine, ville lussuose, amori e omicidi, ma anche cronache di quella stagione indimenticabile degli anni Venti definita età del Jazz.

Il jazz è il genere musicale che  meglio si presta per cogliere le contraddizioni della società americana degli anni Venti. Nato per esprimere la pena e la sofferenza degli afroamericani in schiavitù, viene assunto dai benestanti come colonna sonora di una vita frenetica e sfrenata. Età segnata dall’apparente spensieratezza di una vita ricca e da un’euforia collettiva e individuale che si esprime in un vortice di danze, tradimenti, frivolezze e alcool in bilico tra il tutto e il nulla, all’insegna di un sentimento di solitudine, incomunicabilità, vuoto e sconfitta che permea ogni vita e ogni interazione.

 Il grande Gatsby, disegno.

 

Il grande Gatsby è sicuramente il capolavoro della carriera di Fitzgerald. Riportando le parole di Blake Hazard, stampate all’interno di una cornice dorata nella sua introduzione del graphic novel, celebriamo ancora una volta questa magnifica opera restituita ai lettori in una veste del tutto nuova, incorniciandole a nostra volta tra le virgolette:

 “Il mio bisnonno era un uomo che sapeva apprezzare le novità tanto quanto i classici e i capolavori senza tempo. So che sarebbe stato incantato dalla freschezza di queste immagini, perché fedeli all’originale. [..] mi auguro davvero che questo Graphic novel possa essere apprezzato da tutti coloro che hanno letto e amato il grande Gatsby. Per quelli che invece si confrontano per la prima volta con il capolavoro di Fitzgerald, il mio augurio è quello che queste pagine rendano l’originale ancora più fruibile.”

Martina Violante

Premio Nobel per la Fisica 2007 ospite dell’Ateneo: intervista ad Albert Fert

 

Stamattina l’Università di Messina ha avuto l’onore di poter ospitare il Premio Nobel per la Fisica 2007 Albert Fert. Presso l’Aula Magna del Rettorato ha tenuto una Lectio magistralis, intitolata “Il percorso dalle scienze teoriche all’innovazione ” nell’ambito del convegno “Spintronics and Robotic at Unime”. Subito dopo è stato nominato Socio onorario dall’Accademia Peloritana dei Pericolanti.

Il premio gli fu insignito in seguito alle sue ricerche nell’ambito del rapporto tra campi elettromagnetici e resistenze elettriche. Fu così che scoprì la “magnetoresistenza gigante”, il fenomeno fisico che è alla base del funzionamento degli attuali hard disk e che ha permesso al mondo dell’informatica e dell’ingegneria di passare dai mastodontici calcolatori agli attuali micro dispositivi, dai laptop agli smartphone, dalla Playstation all’iPod. Inoltre, la magnetoresistenza gigante, è alla base della spintronica, una nuova branca della fisica che sarà capace, prima di quanto si immagini, di diminuire ulteriormente le dimensioni dei dispositivi ed aumentare esponenzialmente la quantità e velocità delle informazioni.

Noi di UniVersoMe, prima della lectio magistralis, abbiamo avuto l’opportunità di fare qualche domanda con il Prof. Fert che, seppur i tempi fossero molto ristretti, si è mostrato disponibilissimo e di una simpatia contagiosa.

A volte noi studenti universitari temiamo l’ambito della ricerca, lo immaginiamo come qualcosa di troppo difficile, di accessibile solo a pochi. Cosa consiglia ai giovani che vogliono diventare ricercatori? E quali sono le qualità che un buon ricercatore dovrebbe possedere per fare la differenza?

In realtà la ricerca è più facile di quello che pensate. Anche durante un PhD potrete scoprire come semplici esperimenti ed i relativi risultati possono alla fine risolvere qualche problema e conducono a nuove strade e così via. E’ sufficiente condurre esperimenti in modo accurato e dare fiducia alla propria immaginazione. L’immaginazione è la chiave di tutto, non devi seguire una sola via, ma vederne altre dove andare.

Immagini di poter tornare indietro nel tempo e di incontrare se stesso: cosa direbbe al ventenne Albert Fert? Quali consigli?

Beh cosa potrei dirgli…<<Albert, non sei fortemente motivato per la ricerca, ma riuscirai meglio di quanto pensi!>> (ride). Non credo gli direi <<vincerai il premio Nobel!>>, ma gli consiglierei di credere di più nelle sue capacità.

Il rapporto tra l’uomo e la scienza sta diventando sempre più conflittuale giorno dopo giorno: per esempio in Italia imperversa il dibattito sull’utilità dei vaccini, in quanto gran parte dei cittadini non ha fiducia nella medicina. Secondo lei ciò costituisce un problema? Se sì, come i ricercatori possono fronteggiarlo? 

Questo rientra in un problema più generale, che è quello delle fake news. Ora, con la possibilità di una comunicazione massiva, è facile propagare idee piuttosto strane di scienza, politica, praticamente qualsiasi ambito. Se prima, per poter diffondere una notizia, bisognava sottoporla al vaglio di vari controlli sull’attendibilità, ora chiunque può dire ciò che vuole e raggiungere un gran numero di persone. Riportare un controllo su ciò che viene propagato non è un problema solo dei ricercatori, ma di tutta la società.

Leggendo la sua biografia mi ha molto colpito la varietà dei suoi interessi nati nel periodo degli studi a Parigi: l’arte, la musica jazz, la filosofia, il cinema, la letteratura…

Si si, è stato un bel periodo! (ride)

Quanto l’ambiente della Scuola Normale Superiore e quello di Parigi ha influenzato la sua vita da uomo e da ricercatore?

I miei sei anni alla Ecole Normale Supérieure, tra i 19 ed i 24 anni, sono stati molto intensi. La ricchezza della mia vita nel campus era data da un contatto costante con studenti che studiavano di tante altre discipline, dalle scienze alla filosofia appunto. Inoltre Parigi ci offriva tanti stimoli con i suoi musei, il cinema, i jazz club. Mi sono formato a 360 gradi.

Antonio Nuccio

Vinicio Capossela incontra a teatro gli studenti dell’Università di Messina per un racconto che ricalca radici e Ombre d’inverno

“Quando venivo in treno da Catania mi acquietava vedere la riva spoglia di corpi umani, quasi che l’estate fosse una febbre collettiva di cui finalmente ci si era sbarazzati. Mi ha dato un senso di quiete. L’inverno secondo me ci spinge a un rapporto di intimità con noi stessi, con le cose. Nella cultura popolare era la stagione del racconto, del focolare. Il fuoco genera il racconto, le ombre del racconto, dove nella penombra non si distingue la verità dall’immaginazione”

Al via la collaborazione dell’Università con l’Ente Teatro Vittorio Emanuele di Messina.
Un pomeriggio di metà novembre all’insegna di un colloquio da vicino con il cantautore, originario dell’Irpinia, esploratore di vaste latitudini materiali e immaginarie per vocazione e ricerca artistica, riservato agli abbonati di questa stagione teatrale e agli studenti Unime.
Quello con Capossela è uno degli appuntamenti che quest’anno permetteranno ai ragazzi e ai docenti dell’Università, oltre che agli allievi del Conservatorio, di incontrare in anteprima i protagonisti degli spettacoli sul cartellone. Agli iscritti all’ateneo peloritano è riservato inoltre il 50% di sconto sull’abbonamento e una riduzione del prezzo del biglietto per i singoli eventi in programma.

Appare d’un tratto con il suo consueto cappello da prestigiatore e la barba folta, nel ruolo di incantatore o sciamano accorso da geografie remote, nella sala Sinopoli del teatro Vittorio Emanuele, prima di fermarsi per una rapida intervista davanti a una telecamera. Il pubblico composto da giovani e curiosi, include artisti messinesi come per stabilire un dialogo fecondo tra un’intera città intorno ai temi dell’arte e della cultura. Il nuovo presidente del teatro, Luciano Fiorino, introduce l’intervista condotta da Katia Trifirò, professoressa del Dipartimento di Scienze Cognitive, e Matteo Pappalardo, direttore artistico della sezione Musica del Vittorio Emanuele. L’incontro alla vigilia della seconda tappa del tour Ombre nell’Inverno è stato fortemente voluto, spiega Pappalardo, perché Vinicio è un’artista che non ha mai guardato ai grandi numeri, al successo facile: “Da quando lo seguo, e cioè da più di vent’anni, a partire dal Premio Tenco, si è ritagliato uno spazio di grande significato attraverso non soltanto la musica, ma anche coi suoi scritti e i suoi romanzi”.

Terra dove finisce la terra; scelta del luogo non casuale, dopo il primo concerto a Carpi, in una “strettoia” di confine dove è forte il vento d’Africa, come recita Il Ballo di San Vito. Vinicio sa incanalare con singolare fascino suggestioni che hanno delle radici in un bagaglio fatto anche di magie, fiabe e leggende, come quella di Colapesce raffigurata da Renato Guttuso sulla volta del Teatro Vittorio Emanuele. Al mito e al flusso di sentimenti che convogliano nella città, limite di un continente, Capossela ha voluto anche rivolgere, a testimonianza di un profondo coinvolgimento personale, un lungo omaggio su Instangram:

“città di miraggi, di aedi, di pescatori magici, di Pilone e di terra che trema. Città di primi prosatori, di cadaveri che sanguinano e sudano, della “Machina” e della “Vara”… fondata da giganti e retta da un Colapesce. Il teatro Vittorio Emanuele è sempre stato un miraggio, mai raggiunto in questi anni, e da quello iniziamo: dallo stretto, giacché le ombre nell’inverno sono la strettoia dalla quale tutti gli spettri, devono passare. Gli asini e i muli dei Nebrodi arriveranno fino dietro al telo per congiungersi a pesci, sante vergini, creature degli abissi e “gettati a mare”. Tutti allo stretto, indispensabile!”

Fin dai tempi di Camera a Sud (1994) è il mediterraneo con le sonorità e i ritmi folclorici, la musica da ballo e gli echi carnevaleschi dei riti collettivi, a interessare la produzione di Capossela, che si apre tuttavia negli anni a un randagismo istrionico in grado di assorbire e trasporre con originalità influenze diverse, dai Balcani al sud America fino alla Grecia, variando i riferimenti letterari e lessicali. Contaminazioni che attraversano lo swing, le ballate intimiste foriere di malinconie, il jazz, con testi caratterizzati da ironia sagace e raffinatezza verbale. Dai temi che affondano nella vita di tutti i giorni dei giovani di periferia, le serate al piano bar, le feste di piazza, ai grandi argomenti legati al tempo e alla solitudine, ai marinai alle sirene e ai mostri marini di una grande Odissea teatrale, fino alle ombre d’inverno, passando per il capolavoro Ovunque Proteggi (2006). Capossela si è oggi trasformato in un performer capace di incantare e coinvolgere il pubblico con magnetiche coreografie. L’album Canzoni della Cupa, lavoro discografico del 2016, sancisce il legame con la terra di origine (già nel film il Paese dei Coppoloni) e con il repertorio di miti oscuri di un meridione dove affiorano il sangue e le figure arcane di animali sotto il sole delle vendemmie del mezzogiorno.

Gli incontri tra la cittadinanza e il teatro Vittorio Emanuele si inaugurano, come sottolinea la Prof. essa Trifirò, all’insegna dell’opera aperta, della contaminazione tra le diverse arti. L’attività di Capossela fa infatti dell’ecclettismo e dell’incursione in settori diversi come il cinema, la letteratura, la radio e il teatro, il suo marchio di fabbrica. Particolarità che è possibile ritrovare nello spettacolo di tappa a Messina (unica data in Sicilia) e poi nel resto di Italia: “E’ una coincidenza fortunata che Capossela approdi in questo teatro con questo spettacolo arrivando a parlare del tema delle ombre dell’inverno, una stagione di passaggio, di conti in sospeso, di fiabe e solitudini, di gelo e di fiammiferi, proprio qui a Messina in un luogo sospeso su un confine terraqueo, un luogo che si attraversa, dai bordi permeabili e denso di fantasmi, colpito dalla ferita del terremoto come l’Irpinia, e caratterizzato da un immaginario fantasmagorico”.

Per Vinicio (che ha studiato all’università per due anni alla Facoltà di Economia e Commercio) l’arte è “qualcosa di divinamente inutile” nata per affrancarsi dalla lotta per la sopravvivenza. Tant’è che, parlando dei dipinti nelle Grotte di Lascaux, dice: “La prima scintilla nel divino dell’uomo si trova non tanto nelle sue preghiere ma nel fatto di avere dipinto su fiato in un osso queste prime figure. Per gli esseri umani l’arte è qualcosa di indispensabile da nutrire, e (rivolgendosi agli studenti presenti) tutti quelli che con lo studio e con la pratica – l’arte non deve necessariamente renderci grandi artisti o famosi artisti – si nutrono di arte fanno qualcosa di importante” pertanto: “la resistenza culturale è la prima cosa che esercitiamo per mantenere una forma di individualità di pensiero. Fare musica è un atto politico, come suonare il Rebetiko in un epoca di grande omologazione. Anche la musica popolare da ballo è una forma di resistenza. La musica popolare è nata raramente per esibirsi, ma per accompagnare atti collettivi, di lavoro, di festa, di lutto.”

La condizione dell’uomo contemporaneo, secondo Capossela, è quella di una diaspora, un allontanamento dalle proprie radici, che ha fatto perdere il senso di un’ Itaca, di una forma di unità. Questa condizione è possibile ritrovarla solo nel racconto: “Ernesto De Martino e Carl Gustav Jung sostengono che l’ombra, il cono nero, contiene qualcosa di cui non si è nemmeno consapevoli, che può essere anche un’ombra culturale. La radice è una forma di ombra”. Per cui: “Per arrivare a un senso di unità bisogna completare la parte di luce con quell’ombra. E’ interessante confrontarsi con l’ombra che spesso trova origine in una comunità culturale anche distante.” e “ l’appartenenza a una comunità di origine ci permette di non essere provinciali”.

Le ombre sono anche quella della morte, della solitudine e della vecchiaia in una stagione che proietta le oscurità ancestrali di antichi rituali e fantasmi, ma apre anche voragini personali: “Le ombre che all’inizio mi interessavano erano quelle di Nutless che, in C’era una volta in America, in un teatrino di fumatori d’oppio, proiettava ombre cinesi. Ma queste sono di altro tipo.
Nascono da meditazioni, e sono parte dell’esperienza umana”. Finché c’è vita, aggiunge con sarcasmo Vinicio Capossela, c’è spazio anche per poter dire: “Ah, questa riflessione me la ricorderò per tutta l’eternità quando sarò morto!”.

Il tour Ombre nell’Inverno, che da Messina proseguirà nel resto di Italia nei teatri fino al 13 dicembre, è uno spettacolo fatto di veli, riflessi e materiale folclorico, figure del sacro e del mito come quella del licantropo e di San Nicola nel racconto di Natale scritto insieme al catanese Jacopo Leone, che percorrerà l’ultima produzione discografica di Vinicio Capossela da Marinai, profeti e balene e Canzoni della Cupa.
Un’età matura nella carriera dell’artista che affronta adesso il tempo circolare del mito, non più quello dell’urgenza adolescenziale legata all’estemporaneità di amori difficili. Rispondendo alla domanda di uno studente chiosa così la questione che riguarda l’evoluzione di stile: “E’ curioso come le più terribili canzoni d’amore si scrivano da giovani, quando la nostra memoria non sta dentro un bicchiere, eppure la nostalgia ci vince”.

Eulalia Cambria
ph Fernando Corinto