Israele colpisce le basi ONU. Crosetto: “Un crimine di guerra”

La guerra di Israele è totale e indisciplinata. E questa, tra le varie valutazioni ideologicamente orientate e viziate, non può che essere riconosciuta come verità oggettiva. L’ultimo atto dell’esercito di Netanyahu ne è la conferma.

I soldati israeliani hanno “colpito ripetutamente” alcune basi della missione UNIFIL, nel sud del Libano, ferendo due persone. Lo ha dapprima affermato l’ONU, e poi confermato Andrea Tenenti, portavoce della missione UNIFIL, aggiungendo – ai microfoni dell’ANSA – che due delle tre basi colpite sono gestite da militari italiani, mentre la terza è il quartier generale della missione.

L’ errore, marchiano, si inserisce nell’operazione militare attiva da ormai dieci giorni in detta zona, che vede confrontarsi le forze israeliane e il gruppo politico e militare libanese Hezbollah.

L’assalto incontrollato

Alcune fonti locali hanno documentato l’attacco di un drone alla base UNP 1-31, sulla collina di Labunne.

Qui, il drone, dopo aver sorvolato più volte la base, avrebbe colpito l’ingresso del bunker in cui i soldati italiani avevano avevano avuto la premura di rifugiarsi. Un assalto incontrollato, che per poco non ha avuto risvolti immediatamente fatali.

Nell’atto, comunque, sono stati danneggiati i sistemi di comunicazione tra la base e il comando UNIFIL a Naqura. Provocando un disagio non di poco conto nell’ambito della duratura missione di pace.

Le reazioni italiane: “Un crimine di guerra”

Le reazioni del governo italiano non sono tardate ad arrivare.

Il ministro della Difesa Crosetto ha detto che “non esiste giustificazione” per quanto è accaduto, che “le Nazioni Unite non possono prendere ordini dal governo israeliano” e tali “atti ostili e reiterati potrebbero costituire un crimine di guerra”. Adducendo poi persino al fatto che “gli atti avvenuti non hanno una motivazione militare. Aspettiamo la risposta per capire cosa abbia portato a fare ciò che è avvenuto. Non sono colpi partiti per errore”.

Dopo aver protestato con l’omologo israeliano e “a voce alta” riferendosi all’intero panorama internazionale, il ministro ha scelto di convocare l’Ambasciatore d’Israele in Italia.

Ma a dare manforte ci ha pensato anche la premier Meloni, ribadendo unità d’intenti con il suo compagno politico, e giudicando “inammissibile” l’avvenimento.

I paesi dell’UNIFIL contro Israele

In seguito all’attacco è inoltre scattato il protocollo d’intesa tra i paesi europei impegnati nell’UNIFIL – la missione già citata, che mira al raggiungimento di una pace stabile tra Israele e il Libano.

E il ministro della difesa francese, per l’appunto, ha annunciato una riunione tra i rappresentanti dell’Italia, della Francia, della Spagna e dell’Irlanda.

Non sembra esserci divergenza d’opinione nel gruppo dei quattro; anche il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares, infatti, ha espresso “ferma condanna” e ribadito che “Israele ha il dovere di proteggere le forze di mantenimento della pace delle Nazioni Unite” tramite il suo account su X.

Gabriele Nostro

Sapienza, proteste e arresti tra gli studenti. Cosa sta accadendo a Roma

L’Università come centro di dibattito scientifico, ma l’Università anche, indubbiamente, come terreno in cui si combattono guerre politiche vere e proprie, marchiate da ideologie, valori personali e personali partigianerie.

I recenti fatti verificatesi all’Università La Sapienza, a Roma, evidenziano i caratteri sempreverdi di una delle massime istituzioni del Paese; che, per carità, non sono in assoluto un male o un bene, quando rimangono ancora nell’ambito del discutibile.

Il colore politico vi si immischia pienamente, è vero, tuttavia si farebbe cattivo gioco a banalizzare. Dato che, allora che si contesta, si svolge il compito democratico. Con più o meno grazia, ora vedremo.

Approfondiamo quindi le motivazioni sottese alle ultime proteste e all’impegnato sciopero che alcuni studenti dell’ateneo capitolino hanno deciso di avviare. Inserendo gli atti nelle più lunghe sequenze di eventi recenti, che unitamente riconducono a un tema: la guerra di Gaza.

Sapienza, i collettivi contro Israele

Il sottotitolo è lampante, come la realtà. Dei collettivi studenteschi, negli scorsi giorni, hanno protestato per chiedere alla rettrice Polimeni di interrompere i rapporti di collaborazione scientifica che l’Università La Sapienza ancora mantiene con svariate università israeliane.

Il pretesto? Quello che si è già sentito in altre occasioni: per gli allievi, Israele è diventata una potenza da boicottare – soprattutto nella figura del suo Primo Ministro Benjamin Netanyahu – per via delle proprie scelte belliche nei confronti della popolazione di Gaza.

E dato che il boicottaggio verso una Nazione non passa solo per le sanzioni economiche o la mancata esportazione di armi, i manifestanti hanno creduto doveroso farsi sentire per agire nell’ambiente, probabilmente, più di loro potere e competenza: l’ambiente accademico.

Il riferimento studentesco, oltre all’interruzione delle relazioni generali, si pone particolarmente su un accordo fatto tra il ministero israeliano dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) e il ministero italiano degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI), per finanziare progetti di ricerca tra i due paesi in vari ambiti scientifici.

L’iniziativa è stata molto criticata da studenti, professori e ricercatori, secondo i quali rischierebbe di finanziare tecnologie cosiddette dual use, ossia sfruttabili sia a scopo civile che militare.

Gli scontri con la polizia e i due arresti

Già da quanto scritto si può evincere il certo settarismo dei protestanti, palesemente pendenti verso una parte piuttosto che un’altra. Ma sono idee, visioni del mondo, sindacabili alla stregua dei loro contraltari.
Ciò che invece si può dire nettamente condannabile, al di là della posizione di giudizio, è l’atteggiamento di protesta. Almeno in prima fase eccessivamente aggressivo e distruttivo.
Martedì pomeriggio, infatti, al culmine del movimento studentesco si è giunti al confronto diretto con la polizia: per i tentativi di forzare la difesa posta innanzi alla struttura del Senato accademico e al commissariato.
Dallo scontro nessuno è uscito gravemente ferito. Ciononostante, due tra i molteplici partecipanti sono stati presi in riserva dagli agenti, per poi essere rilasciati – fatte le indagini del caso – dopo alcune ore.
Uno ragazzo è stato fermato dopo avere danneggiato un’auto della polizia, una ragazza avrebbe aggredito un dirigente della polizia durante il tentativo di irruzione nel commissariato.

Sapienza, ora è sciopero della fame

Che richiederà un sacrificio oneroso, una dedizione rara, che sarà meno esplicito e d’impatto, eppure – possibilmente – più ragionevole e incisivo sul lungo periodo.
I due scioperanti, Francesca e Leonardo (del collettivo Cambiare Rotta) si sono incatenati di fronte al rettorato dell’Università e ora non chiedono più di un confronto con la loro rettrice.
Adducendo alla responsabilità d’ascolto che quest’ultima dovrebbe rispettare, al fatto che le rivendicazioni non provengano dalla sola anima studentesca dell’Università e che quello di Israele sia un puro genocidio, né giustificabile né ignorabile.

(Link all’intervista: “L’intervista video agli studenti in sciopero della fame dell’Università La Sapienza di Roma“. Fonte: La Ragione).

Gabriele Nostro

Israele: Attacco Iran con droni e missili

Nella notte fra sabato e domenica l’Iran ha lanciato un attacco contro Israele. Sono stati impiegati più di 300 armi fra droni e missili. Nelle scorse ore infatti sono stati pubblicati in rete diversi video che riprendono il passaggio delle armi iraniane nei cieli dell’Iraq. Già nei giorni scorsi Israele aveva innalzato lo stato di allerta al livello massimo, a causa di diversi avvertimenti interni e internazionali su un possibile attacco.

Israele ha confermato la neutralizzazione del 99% di droni e missili attraverso il suo scudo – l’Iron Dome – e l’impiego dell’aviazione. Anche Stati Uniti e Regno Unito hanno partecipato alla difesa di Israele. Nel corso dei bombardamenti undici persone sono rimaste ferite. I danni più importanti sono quelli riportati nella base aeronautica di Navatim, nel centro del Paese.

(Reuters)

 

Vendetta contro Israele

L’operazione rappresenta una rappresaglia nei confronti dello stato ebraico per il bombardamento all’ambasciata iraniana a Damasco. Nel corso di questa offensiva Israele ha ucciso Mohammad Reza Zahedi, importante capo delle guardie rivoluzionarie iraniane (o pasdaran). Altri sette diplomatici sono morti, mentre l’ambasciatore iraniano in Siria è rimasto illeso poiché non si trovava in sede.

Non si tratta del primo attacco iraniano contro Israele. Tuttavia, un’offensiva di questa portata rimane senza precedenti in tempi recenti. L’offensiva rientra in un più ampio quadro di ostilità fra le due potenze nel Medio Oriente, nonché all’interno dell’attuale conflitto fra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. L’Iran infatti sostiene economicamente e militarmente diverse milizie nella regione fra cui Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, i ribelli Houthi in Yemen e altre unità in Iraq e Siria. Nel corso del conflitto nella Striscia, Israele ha ucciso importanti esponenti di Hamas fra cui i tre figli adulti del capo politico della milizia Ismail Haniyeh.

Droni e missili non sono partiti solo da Iran, ma anche da altri paesi dell’area dove risiedono milizie filoiraniane. Fra queste spiccano Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, ampiamente finanziate e supportate dal regime iraniano. In particolar modo Hezbollah rappresenta una sempre più preoccupante minaccia per Israele, a causa della forte espansione del gruppo. L’apertura di un fronte a nord dello stato ebraico potrebbe impegnare diverse forze militari israeliane distogliendole dalla Striscia di Gaza.

(Al Jazeera)

Le armi usate dall’Iran

L’attacco ha preoccupato la comunità internazionale per una possibile escalation regionale dell’attuale conflitto fra Israele e Palestina. L’Iran è infatti uno dei paesi più militarizzati della regione mediorientale. A partire dagli anni novanta la guida suprema Khamenei ha investito molto nell’esercito e in un’industria bellica nazionale e autonoma, che ha fornito al paese un grosso arsenale. La maggior parte delle risorse sono conservate in depositi sotterranei difficilmente attaccabili da attacchi esterni. L’Iran inoltre porta avanti da anni un piano di sviluppo di un potente arsenale nucleare.

Nel corso dell’attacco sferzato contro Israele, sono stati impiegati 170 droni, 120 missili balistici e trenta da crociera. I droni, del tipo Shahed 136 (che l’Iran vende tra l’altro alla Russia), sono detti “kamikaze” poiché volano autonomamente attraverso coordinate GPS e si schiantano contro diversi target, distruggendosi e facendo detonare l’esplosivo trasportato: possono impiegare diverse ore in volo prima di colpire, per cui il loro passaggio è visibile in cielo (come accaduto in Iraq e Israele la scorsa notte). I missili balistici, di cui l’Iran ne ha usati circa 30, vengono sparati a grosse altitudini oltre atmosfera per poi ricadere su diversi obiettivi: non richiedono motore e sono molto veloci, richiedendo solo una decina di minuti prima di colpire. I missili da crociera hanno invece una velocità intermedia e seguono una traiettoria orizzontale ad altitudine molto inferiore, poiché volano alimentati da un motore: anch’essi sono visibili insieme ai droni.

Shahed 136 (Wikimedia)

La reazione internazionale

Dopo che l’Iran ha lanciato il suo attacco contro Israele, diversi paesi hanno espresso la loro condanna e preoccupazione per gli attacchi iraniani contro Israele. Quest’ultimo peraltro non ha rassicurato i suoi alleati in Occidente, promettendo una contro-rappresaglia «quando il tempo sarà dalla sua parte». Di contro, la missione iraniana presso le Nazioni Unite ha affermato che gli attacchi sono stati condotti unicamente come vendetta contro Israele ma che potranno seguirne altri se questo risponderà. Il presidente Joe Biden ha dichiarato che non garantisce l’appoggio a Israele in un eventuale contro-attacco e starebbe inoltre dissuadendo il governo Netanyahu a rispondere.

(Reuters)

Francesco D’Anna

Sei mesi di guerra nella Striscia di Gaza

Sono trascorsi circa sei mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, quando diversi miliziani presero di mira diversi kibbutz nel sud di Israele. Questa serie di attentati, noti come operazione diluvio Al-Aqsa, ha portato alla morte di 1200 persone fra civili e militari israeliani. Contestualmente circa 250 ostaggi sono stati trasportati nei tunnel sotterranei della Striscia, usati come centro operativo da Hamas.

La reazione di Israele non si è lasciata attendere: il giorno seguente ha dichiarato lo stato di guerra con la Striscia di Gaza, una delle zone più densamente popolate al mondo. Qui vi abitano più di 2 milioni di persone, soprattutto palestinesi, in un’area geografica di 365 km2 (pari circa alla metà di quella di Madrid). Lo stato ebraico ha mobilitato migliaia di riservisti per organizzare una cospicua operazione di terra nella Striscia, preceduta da intensi bombardamenti su bersagli civili e militari. Le perdite umane complessive fra gli abitanti della striscia sono più di 30.000, un terzo dei quali rappresentati da bambini.

(Flickr)

La catastrofe umanitaria nella Striscia

L’operazione israeliana nella Striscia, organizzata per recuperare gli ostaggi ed eradicare Hamas dal territorio, non ha finora sortito gli effetti desiderati dal governo Netanyahu. Inoltre ha causato una catastrofe umanitaria nella Striscia: milioni di persone sono sfollate, vivono in condizioni igienico-sanitarie molto precarie ed è in corso una gravissima carestia. Nonostante le pressioni internazionali, Israele non ha facilitato l’arrivo o la distribuzione di aiuti umanitari. Ha inoltre chiuso la maggior parte dei valichi con la Striscia e non ha garantito percorsi sicuri per i convogli.

Recentemente ha fatto molto clamore la notizia dell’uccisione di sette operatori umanitari della ONG World Central Kitchen. Israele ha colpito tre auto dell’organizzazione poiché sospettate di trasportare un miliziano di Hamas. Questa ipotesi si è poi rivelata incorretta, inducendo Israele ad aprire un’inchiesta interna su chi abbia ordinato l’esecuzione. L’opinione pubblica internazionale tuttavia ha definito questo atto come: farebbe parte della strategia israeliana di affamare la popolazione palestinese come arma da guerra. L’attacco ha portato all’interruzione degli aiuti nella striscia da parte di WCK e di altre ONG, aggravando ancor di più le condizioni umanitarie.

Questi fatti si aggiungono a quelli dei mesi precedenti che hanno spinto il Sudafrica a fare causa ad Israele alla Corte internazione di giustizia dell’Aia. Quest’ultimo, secondo i sudafricani, non starebbe rispettando la Convenzione sul genocidio. L’opinione pubblica ha largamente lodato l’iniziativa giudiziaria, sebbene questa richieda tempi relativamente lunghi prima di ricevere un esito definitivo.

Flickr

Le reazioni della comunità internazionale

La comunità internazionale ha condannato la reazione israeliana, ritenuta spropositata e ingiusta. Tuttavia l’opinione pubblica ritiene insufficienti le misure prese contro la guerra: molti chiedono l’imposizione di un cessate il fuoco permanente e l’interruzione della vendita di armi a Israele. Inoltre diversi attivisti e politici denunciano il ritardo nelle azioni prese dall’ONU. I veti incrociati di Stati Uniti, Russia e Cina hanno infatti più volte bloccato l’operato delle Nazioni Unite.

Le Nazioni Unite hanno approvato due risoluzioni relative alla situazione nella Striscia solo nell’ultimo mese. La prima è quella del 25 marzo che chiede un immediato cessate il fuoco, approvato grazie all’astensione degli Stati Uniti: è teoricamente vincolante per Israele, che però non risulta al momento intenzionato a farlo. L’UNHRC, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, ha invece approvato la seconda, chiedendo l’interruzione della vendita di armi a Israele.

InternationalAffairs.org

Il ritiro da Khan Yunis

Negli ultimi giorni, le truppe di terra israeliane hanno abbandonato le loro postazioni a Khan Yunis, una delle ultime città a sud della Striscia. Il motivo fornito da Israele è quello di permettere al suo esercito di riposarsi e organizzarsi per le successive operazioni a Rafah. Qui si concentrano le sacche resistenza residue di Hamas ma anche nonché la maggior parte degli sfollati, spinti progressivamente dall’avanzata militare israeliana.

Ad oggi non si conosce con precisione la ragione per cui i membri della 98esima divisione stiano ritornando alle loro postazioni dall’altro lato del confine. Secondo esperti e analisti però è da escludere una fine del conflitto. Molto probabilmente Israele non rinuncerà all’invasione di Rafah, così come ricordato dal ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e dal presidente Benjamin Netanyahu. Alcuni esponenti interni al governo israeliano non sono però così sicuri: paventando una presunta indecisione da parte dell’esecutivo, il ministro della Sicurezza nazionale Itaman Ben-Gvir ha dichiarato che Netanyahu «non potrà servire da Primo ministro se decidesse di non invadere Rafah».

Nel frattempo molti sfollati stanno facendo il loro ritorno a Khan Yunis, dove hanno trovato mucchi di macerie e corpi.

Wikimedia

Francesco D’Anna

Conflitto Israele-Palestina: dialogo con la Prof. Francesca Perrini

Lo scorso 7 ottobre nei kibbutz di Be’eri e di Kfar Azza, situati nel territorio di Israele in prossimità della Striscia di Gaza, le milizie di Hamas (il partito radicale di matrice religiosa che controlla la Striscia dal 2006) hanno commesso una strage di centinaia di civili israeliani, dando inizio ad una nuova fase del conflitto che intercorre tra Israele e Palestina da quasi un secolo. 

Palestina
Grafico mostra l’attacco di Hamas durante i primi giorni. Fonte: ISPI

Le parole della Prof. Perrini

Per riflettere sul tragico scenario degli eventi che stanno causando nuovi spargimenti di sangue abbiamo rivolto alcune domande a Francesca Perrini, Professoressa associata di Diritto Internazionale del nostro Ateneo.

  1. Le immagini di nuovi orrori, a più di un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, inondano i social media ed i notiziari. In questa occasione, l’attacco lanciato dal movimento militante Hamas, uno dei due principali partiti politici dei territori palestinesi, nei confronti di Israele ha attirato l’attenzione globale. Quali sono le origini storiche dell’ormai decennale conflitto?

È nel 1948, all’indomani della nascita dello Stato di Israele, che ha inizio il conflitto arabo-israeliano In questo lungo periodo alcune crisi sono state particolarmente gravi, come quella del 1967, la c.d. “guerra dei sei giorni”, che ha visto l’occupazione israeliana di una parte dei territori palestinesi, tra cui proprio la striscia di Gaza.

  1. Di quale status giuridico godono (o meno) gli attori sino ad ora nominati? Hamas può essere qualificato come un movimento insurrezionale, dunque come soggetto di diritto internazionale? 

Per il diritto internazionale lo Stato acquisisce la soggettività internazionale in maniera automatica se è in possesso di due requisiti fondamentali, vale a dire l’effettività e l’indipendenza. Uno Stato che effettivamente esercita un potere di governo su una comunità territoriale ed ha un proprio ordinamento giuridico è di fatto un soggetto di diritto internazionale.

In questo senso, non vi è alcun dubbio sulla soggettività internazionale dello Stato di Israele, mentre, come è noto, con riferimento alla Palestina la questione è più controversa, sebbene negli ultimi anni si siano fatti importanti passi avanti. Uno di questi è la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la quale è stato riconosciuto alla Palestina lo status di non-member-observer-State. Ma anche l’ammissione della Palestina all’UNESCO e la sua adesione allo Statuto della Corte penale internazionale.

Quanto ad Hamas, la sua attività è limitata ad una parte di territorio ben delimitata e non può certo dirsi che rappresenti l’intero popolo palestinese.

  1. Dunque, la reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre non può essere giustificata in virtù dell’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, che riconosce il “diritto naturale” alla legittima difesa dello Stato aggredito dall’aggressione perpetrata da un altro ente di diritto internazionale

Ciò non toglie che lo Stato aggredito ha diritto di difendersi. In questo caso la legittima difesa di Israele non si fonda tanto sull’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, quanto sul più ampio concetto di autotutela, che, però, deve rispettare il requisito della proporzionalità. E, soprattutto, ciò che occorre sottolineare è l’obbligo che incombe alle parti in conflitto di rispettare il diritto internazionale umanitario, salvaguardando la popolazione civile. Purtroppo, queste sono le violazioni più atroci a cui assistiamo da giorni e – occorre ribadirlo – sono violazioni commesse sia da Israele che da Hamas.

  1. Quali, a Suo avviso, sono le prospettive future? La nascita e l’accettazione, da parte israeliana, di uno stato palestinese potrebbe permettere di alleviare i conflitti nell’area?

Non è facile fare previsioni, perché molto dipende da quanto gli sforzi diplomatici riusciranno a realizzare. Certamente l’auspicio non può che essere una pacifica convivenza tra due Stati sovrani nel pieno rispetto dei diritti del popolo israeliano e del popolo palestinese.

Aurelia Puliafito

Israele: la riforma di Netanyahu aumenta gli scontri. Tensione alle stelle a Gerusalemme

Ci troviamo a Gerusalemme, in Israele, dove da diverse settimane sono in corso delle proteste dovute a un progetto di revisione del sistema legale del paese. La riforma giudiziaria proposta dal nuovo esecutivo di Benjamin Netanyahu eliminerebbe la separazione dei poteri e indebolirebbe le basi della democrazia israeliana, concedendo un potere smodato al governo.

I manifestanti temono che questi cambiamenti abbiano un impatto notevole sulle donne, sulle minoranze, sull’economia e sull’intera popolazione.

Il primo ministro con i suoi alleati voteranno due dei progetti di legge che hanno come obiettivo modificare la composizione del comitato di selezione dei giudici. Inoltre, limiterebbero la capacità della Corte Suprema di rivedere e modificare le leggi. Infatti, per un paese che non possiede una costituzione scritta, il potere giudiziario è l’unico che può controllare il governo e salvaguardare i diritti individuali. Di conseguenza, con l’approvazione di questa riforma crescerebbe il potere del primo ministro mettendo a rischio la democrazia.

Foto dei manifestanti. Fonte : Rai News

Il 20 febbraio decine di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese, in particolare a Tel Aviv, dove hanno bloccato per circa un’ora l’autostrada di Ayalon e impedito a diversi funzionari di lasciare le loro residenze. Invece, a Gerusalemme oltre 100.000 persone si sono riunite fuori la Knesset, il Parlamento israeliano, chiedendo di ascoltare l’ appello del presidente Isaac Herzog, il quale aveva presentato una proposta di compromesso su cui negoziare, implorando la maggioranza di fermare l’iter parlamentare dell’approvazione della riforma per giungere a una proposta condivisa.

Alcuni deputati dell’opposizione sono entrati all’ interno dell’aula principale del Parlamento con grandi bandiere nazionali per sottolineare la preoccupazione del momento. Altri, a causa di schiamazzi, sono stati trascinati fuori a forza dal personale. In un corridoio alla vista del premier Netanyahu una manifestante ha urlato:

Corrotto. Cosa hai da sorridere? Vergogna! Stai demolendo la democrazia.

Ma il Premier non si è mostrato turbato ed ha continuato a a conversare con i giornalisti.

Lo sgomento dei cittadini di uno Stato ormai lacerato

Tutti i passi che stanno per avvenire nella Knesset ci trasformeranno in una pura dittatura, tutto il potere sarà con il Governo, con il capo del governo, e saremo tutti senza diritti.

Ha detto Itan Gur Aryeh, un pensionato di 74 anni.

Fonte: Euronews

Sono tante le persone che hanno partecipato, sventolando le loro bandiere simbolo dei valori che dovrebbero guidare lo Stato, mostrando coraggio e voglia di indipendenza. Lo dimostrano anche le parole del leader dell’opposizione Yair Lapid a una riunione del suo partito alla Knesset mentre i manifestanti si ammassavano all’esterno:

«Stiamo lottando per il futuro dei nostri figli, per il futuro del nostro paese. Non intendiamo arrenderci»

 

Nonostante la determinazione dei cittadini ed il grande afflusso di gente presente alle manifestazioni, per adesso non sembrano esserci risvolti positivi. Infatti, la Knesset ha approvato lunedì, nel primo dei tre turni obbligatori di votazione, le prime due disposizioni del colpo di Stato. Entrambi sono emendamenti alla Legge fondamentale sul sistema giudiziario: una permette alla coalizione di governo il controllo sul Comitato per le nomine giudiziarie; l’altro vieta alla Corte Suprema, in qualità di Alta Corte di Giustizia, di annullare le leggi fondamentali.

Ma questo non sembra fermare la volontà degli israeliani che sottolineano: «Siamo qui per lottare per la democrazia. Senza democrazia non c’è stato di Israele. E combatteremo fino alla fine».

È chiaro che questa situazione abbia gettato in profonda crisi la popolazione, al punto da far insorgere in alcuni ministri il timore di una guerra civile. Difatti, si pensa che le proteste aumenteranno di vigore nei prossimi giorni, in quanto si sono già uniti gli oppositori della colonizzazione israeliana in Cisgiordania e i movimenti di difesa dei diritti della comunità LGBTQ+, preoccupati dalla presenza nel governo di ministri apertamente omofobi.

Donna tiene in mano un manifesto contro il governo israeliano
Donna con manifesto contro il Premier Netanyahu. Fonte: Ansa

Le dichiarazioni dell’ONU su Israele

Sempre in questi giorni, il Consiglio di sicurezza ONU afferma che gli insediamenti di Israele in Cisgiordania “ostacolano” la pace. La risposta dell’ufficio del premier israeliano Benyamin Netanyahu non si è fatta attendere:

È unilaterale, nega il diritto degli ebrei di vivere nella loro patria storica e ignora gli attentati palestinesi a Gerusalemme. Quella dichiarazione non doveva essere pronunciata e gli Usa avrebbero dovuto non aderire.

Fonti diplomatiche hanno spiegato che Washington è riuscita a convincere sia Israele che i palestinesi ad accettare un congelamento di sei mesi di qualsiasi azione unilaterale.  Ciò comporterebbe un impegno a non espandere gli insediamenti almeno fino ad agosto da parte degli israeliani e da parte palestinese a non perseguire azioni contro Israele presso le Nazioni Unite e altri organismi internazionali.

Continuano i raid aerei in Cisgiordania

Malgrado la dichiarazione non vincolante in cui si esprime “preoccupazione e costernazione”, gli scontri non tendono a diminuire. Infatti, proprio stamattina giunge la notizia di un bombardamento su alcuni edifici di Gaza City da parte dell’ esercito israeliano, pare in risposta a sei razzi che si sospetta siano stati lanciati proprio da quelle strutture. I sei attacchi sarebbero dovuti, probabilmente, all’uccisione di undici palestinesi (tra i quali anziani di oltre 70 anni e un ragazzo di 16 anni), da parte dei militari israeliani nella città di Nablus e cento feriti.

E se per Israele le incursioni hanno lo scopo di contrastare futuri attacchi, per i palestinesi diventano un’ulteriore dimostrazione dell’occupazione per un conflitto che sembra non finire mai.

Serena Previti

Netanyahu rieletto: il popolo israeliano non ci sta, continuano le proteste

Siamo giunti ormai alla terza settimana consecutiva in cui il popolo israeliano scende in piazza contro il governo di Benjamin Netanyahu, Primo ministro di Israele dal 29 dicembre 2022 e precedentemente dal 2009 al 2021 e tra il 1996 e il 1999. Da quel giorno, oltre centomila manifestanti hanno riempito le strade di Tel Aviv senza sosta.

Le ragioni della protesta

Le manifestazioni sarebbero nate da un progetto di riforma del sistema giudiziario promosso dall’attuale governo. Riforma che, secondo gli oppositori, metterebbe in pericolo la democrazia del paese.

Alla tanto discussa protesta è intervenuto anche l’ex primo ministro Yair Lapid, ora leader del principale partito di opposizione, Yesh Atid: 

Quella che vedete qui oggi è una manifestazione a sostegno del paese. Persone che amano Israele sono venute qui per difendere la sua democrazia, i suoi tribunali, l’idea di convivenza e di bene comune. Ci sono persone che sono venute a manifestare per uno Stato ebraico democratico secondo i valori della Dichiarazione di Indipendenza. Non ci arrenderemo finché non vinceremo.

Il contenuto della riforma

Nel caso in cui fosse approvata, la riforma della giustizia aumenterà i poteri della Knesset (il Parlamento israeliano), fino a permettere a questo organo di  servirsi di una “clausola di annullamento” per annullare le sentenze della Corte Suprema con una maggioranza semplice di 61 voti (su 120).

Fonte: La Repubblica

Un potere del genere, secondo molti, si presterebbe ad abusi: da parte del governo, perché consentirebbe senza troppi ostacoli di approvare leggi a favore, ad esempio, degli insediamenti, o per favorire ulteriormente le mire espansionistiche israeliane in Cisgiordania; da parte dello stesso Premier Netanyahu, per bloccare eventuali processi a suo carico.

Un altro aspetto che spaventa il popolo  è che, con la riforma, si verificherebbe un indebolimento della magistratura a favore di quello esecutivo detenuto dal Governo. 

Rimosso il Ministro della Salute

Nella giornata di domenica, come chiesto dalla Corte Suprema di Israele, il Primo ministro Netanyahu ha annunciato la rimozione di Arye Dery, leader del partito ultraortodosso Shas, dall’incarico di Ministro dell’Interno e della Salute. Quest’ultimo, è stato processato per evasione fiscale un anno fa, patteggiando con sospensione della pena. 

«Si tratta di una persona che è stata condannata tre volte per reati nel corso della sua vita, che ha violato il suo dovere di servire lealmente e legalmente la collettività mentre ricopriva alte cariche pubbliche», ha dichiarato Esther Hayut, Presidente della Corte Suprema. 

Fonte: La Repubblica

Motivo per cui la Corte ha annullato la nomina con una sentenza che parla di “estrema irragionevolezza” nella scelta di conferirgli il doppio incarico di Ministro della Salute e degli Interni dopo le condanne penali a suo carico.

Non sembra essere d’accordo con questa decisione Netanyahu, il quale si è espresso a riguardo mostrando dispiacere nel rimuovere Arye Dery dal suo incarico, affermando di aver preso questa scelta con  «grande dolore e molta difficoltà». Inoltre, il Premier sembrerebbe voler trovare ad ogni costo, anche per vie legali, un modo affinché il suo alleato continui a collaborare con il governo. 

Federica Lizzio

Israele: sfrattati migliaia di palestinesi da un’area della Cisgiordania al fine di costruire un poligono di tiro

Sembra essersi conclusa una vicenda giudiziaria durata più di 20 anni riguardante una zona della Cisgiordania che fino a pochi giorni fa era abitata da migliaia di palestinesi. Diverse famiglie che vivevano nell’area di Masafer Yatta, infatti, sono state sfrattate dalle autorità israeliane ed in poco tempo hanno visto le loro abitazioni ridursi ad un cumulo di macerie.

I motivi dell’occupazione

«L’importanza vitale di questa zona di tiro deriva dalle sue uniche caratteristiche topografiche, che permettono di sperimentare strategie specifiche sia per piccoli gruppi di soldati sia per un battaglione».

Queste le parole dell’esercito israeliano estrapolate da un documento pubblicato sul Times of Israel, un giornale online tra i più rilevanti della zona.

l’idea di utilizzare Masafer Yatta come zona per esercitazioni militari era stata proposta già agli inizi degli anni 80. I primi problemi però arrivarono nei primi anni 2000, quando, la decisione dell’esercito israeliano di sfrattare circa 700 palestinesi dalla zona ha suscitato non poche polemiche. I residenti riuscirono ad ottenere la sospensione dello sfratto tramite una richiesta alla Corte Suprema.

La stessa Corte Suprema che il 5 Maggio scorso ha dato ragione all’esercito israeliano. Il corpo militare sostiene che i palestinesi che occupano Masafer Yatta siano solo dei nomadi. Non considerando la zona come dimora fissa di questi ultimi i militari israeliani ritengono sia loro diritto costruire un poligono di tiro.

immagine divenuta simbolo dello sfratto dei palestinesi. Fonte: avvenire.it

Il caso giudiziario

Il corpo militare di Israele rivendica il diritto alla costruzione del campo per l’esercitazione forte anche degli accordi di Oslo del 1993. Tali accordi stabiliscono che l’area C della Cisgiordania – all’interno della quale si trova la zona di Masafer Yatta – sia sotto controllo civile e militare del governo israeliano.

Dalla parte dei palestinesi si sono schierate varie associazioni per la difesa dei diritti umani. La più importante, l’ACRI (Association for Civil Rights Israel), sostiene che in realtà questa zona fungeva da dimora fissa per molti palestinesi prima ancora che l’Israele manifestasse l’intenzione di costruire il poligono di tiro. Non solo l’ACRI ma anche l’ONU, dopo che la Corte Suprema ha approvato la richiesta, si è espressa in maniera molto rigida nei confronti dell’operato israeliano:

«La decisione riguarda oltre mille palestinesi, inclusi 500 bambini, nella Cisgiordania occupata e consente lo sfratto dei residenti. Poiché tutte le possibilità legali interne sono state esaurite, la comunità è ora non protetta e a rischio imminente di sfollamento.»

Queste le dichiarazioni del coordinatore umanitario delle Nazioni Unite Lynn Hastings. Ha poi ribadito come «Tali sgomberi, con conseguente sfollamento, potrebbero equivalere ad un trasferimento forzato, che va contro le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed il diritto internazionale».

La costruzione di un poligono di tiro come pretesto

Giustificare un’azione cosi “crudele” con la costruzione di un campo di esercitazione militare, al netto della profonda rivalità che esiste storicamente tra i due popoli, appare riduttivo. Nel 2020 a tal proposito è stato reso noto il resoconto di un incontro tra i vertici israeliani del 1981 in cui veniva suggerita l’idea di sfruttare la zona di Masafer Yatta come campo di addestramento militare al fine di evitare « l’espansione dei residenti arabi di quelle colline».

Questa dichiarazione fa apparire la costruzione del poligono di tiro come nient’altro che un pretesto per allontanare i palestinesi dalle zone della Cisgiordania. Nient’altro dunque che l’ennesimo passo in avanti (o indietro) di una lotta per i territori che va ormai avanti da più di mezzo secolo. Esattamente dagli anni del secondo dopoguerra. A nulla sono serviti i vari interventi da parte degli Stati Uniti o della stessa ONU per cercare di “fare da paciere”.

In un periodo storico in cui i conflitti del passato sembrano ritornare la speranza è che, almeno in questo caso, la diplomazia rieca a risolvere le controversie e non ci sia bisogno di far degenerare la situazione più di quanto non lo sia già.

Francesco Pullella

 

 

 

Cisgiordania, giornalista di Al Jazeera uccisa dall’esercito israeliano

Ai giornalisti deceduti durante reportage in zone di conflitto si aggiunge il volto di Shireen Abu Akleh, dipendente dell’emittente televisiva Al Jazeera, colpita con un proiettile alla testa e morta poco dopo essere stata portata in ospedale in gravissime condizioni.

L’uccisione di Shireen

La 51enne con cittadinanza americana e palestinese si trovava in Cisgiordania, territorio rivendicato dalla Palestina, ma sotto il controllo delle forze israeliane; in un campo profughi nella città di Jenin. Stava documentando un’incursione militare di matrice israeliana quando, arrivata sulla scena di un raid dell’esercito israeliano, è stata uccisa con un proiettile alla testa. Accanto a lei, Ali Al-Samoudi, un suo collega, è stato colpito da un proiettile alla schiena. Portato in ospedale, ora si trova in condizioni stabili. Come gli altri giornalisti presenti sulla scena, anche Shireen indossava il giubbotto antiproiettile con su scritto “press” e persino l’elmetto, normalmente utilizzati per proteggersi dai pericoli dei conflitti. Questo rende chiara la volontà di chi ha sparato.

Shireen Abu Akleh (Fonte: friulisera.it)

Al Jazeera accusa gli israeliani

L’emittente con sede in Qatar accusa i militari israeliani del decesso della giornalista conosciuta in tutto il mondo arabo e che, per trent’anni, si era fatta portavoce dei conflitti tra palestinesi e israeliani. In difesa, i componenti dell’esercito israeliano affermano di aver aperto il fuoco dopo essere stati esposti al “fuoco massiccio“, evidenziando la possibilità che la giornalista possa essere stata uccisa dai palestinesi. Le parole di Al-Samoudi, però, non lasciano spazio a equivoci:

“Il primo proiettile ha colpito me e il secondo proiettile ha colpito Shireen… non c’era alcuna resistenza militare palestinese sulla scena. Se ci fosse stata, non saremmo stati in quella zona.”

Una giornalista di Quds News Network lì presente, Shatha Hanaysha, ha dichiarato che, nonostante Shireen fosse già caduta a terra, il fuoco non si è fermato e, nell’immediato, nessuno è stato in grado di raggiungerla per aiutarla.

Le reazioni israeliane e americane

L’autopsia è stata condotta all’Istituto di medicina legale Al Najah di Nablus. Intanto il ministro israeliano degli esteri, Yair Lapid, afferma che Israele ha offerto ai palestinesi “un’indagine patologica congiunta” sulla morte di Abu Akleh:

“I giornalisti devono essere protetti nelle zone di conflitto e tutti noi abbiamo la responsabilità di arrivare alla verità.”

L’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, Tom Nides, si dice “molto triste” nell’apprendere la morte della donna e incoraggia “un’indagine approfondita sulle circostanze della sua morte” in un tweet.

L’orrore del funerale

Inquietanti“: è così che la Casa bianca definisce le immagini dei funerali che hanno fatto il giro del web. Tutto è cominciato all’uscita della bara dall’ospedale di Beit Hanina, quartiere arabo di Gerusalemme est: la polizia ha impedito che la bara fosse sollevata per essere portata in spalla da un gruppo di persone tra cui il fratello della giornalista. Successivamente la polizia ha assalito con i manganelli coloro che portavano il feretro della donna, facendolo inclinare verticalmente e quasi cadere. Al Jazeera ha ritenuto “aggressivo” l’atteggiamento della polizia israeliana in una circostanza così delicata. Gli agenti hanno giustificato il proprio comportamento sostenendo che dal corteo funebre sono state lanciate contro di loro pietre e altri oggetti.

Funerali di Shireen (Fonte: farodiroma.it)

 

Eleonora Bonarrigo

 

 

Una Conferenza internazionale per il Mediterraneo. Draghi: “Proteggere i più deboli con corridoi umanitari”

«Proteggere i più deboli anche attraverso la promozione di corridoi umanitari dai Paesi più vulnerabili e rafforzare i flussi legali, che sono una risorsa e non una minaccia per le nostre società», ha affermato il Presidente del Consiglio Mario Draghi nel corso della settima edizione della Conferenza Rome MED – Mediterranean Dialogues, promossa a partire dal 2015 dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dall’ISPI.

“Un’agenda positiva” per il Mediterraneo

Dal 2 al 4 dicembre 2021 si svolge a Roma in modalità ibrida – con partecipazioni sia fisiche che virtuali, anche attraverso lo streaming –la Conferenza nata per discutere del futuro del partenariato euro-mediterraneo, del ruolo della Nato e dell’Unione Europea nel Mediterraneo. Ed è proprio sul ruolo centrale di quest’ultimo che il Premier, nel proprio intervento, ha ribadito la necessità di un coinvolgimento dell’Unione Europea:

Il Mediterraneo non sia solo il confine meridionale dell’Europa, ma il suo centro culturale ed economico. Serve un maggiore coinvolgimento di tutti i Paesi europei, anche nel Mediterraneo.

Il Rome MED si basa su quattro pilastri: prosperità condivisa, sicurezza condivisa, migrazione e società civile e cultura. Tra gli oltre 50 ministri partecipanti: il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Luigi Di Maio, nonché i maggiori esponenti dell’Unione Europea (come l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Josep Borrell) e delle Nazioni Unite; si aggiungano il Vice Segretario Generale della NATO Mircea Geoana ed alcune tra le personalità più influenti del Golfo Persico.

Oltre che il ruolo del Mediterraneo, saranno oggetto della conferenza anche i flussi migratori, le elezioni democratiche in Libia, le risorse naturali, la situazione nelle regioni del Maghreb (Africa nord-occidentale che si affaccia sul Mediterraneo) e del Sahel (Africa centrale), il Golfo Persico come perno degli equilibri mediorientali, nonché le tensioni tra Israele e Palestina – la richiesta del Premier Draghi, in questo caso, è di dare nuovo impulso agli sforzi internazionali a favore del processo di pace.

Flussi migratori e il ruolo della Libia

«L’Italia sostiene con convinzione il processo di transizione politica e pacificazione della Libia», ha affermato Draghi nel suo intervento, «Siamo ormai vicini alle elezioni del 24 dicembre: un appuntamento cruciale per i cittadini libici e per il futuro della democrazia nel Paese. Il mio appello a tutti gli attori politici è che le elezioni siano libere, eque, credibili e inclusive».

(fonte: repubblica.it)

La Libia rappresenta uno dei principali attori del Mediterraneo nell’ambito delle missioni di ricerca e soccorso dei naufraghi in mare e della gestione dei flussi migratori. La sua situazione delicata la pone spesso in dibattito con i principali interlocutori dell’Unione, ma soprattutto con le ONG che si occupano del salvataggio dei migranti in mare. Ad oggi, la Libia non ha ancora ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati (1951) e sui relativi diritti che dallo status ne derivano. La controversa posizione nell’ambito del rispetto dei diritti umani sembrerebbe poi porla in contrasto con l’art. 3 della CEDU sul divieto di tortura e trattamenti disumani, cui gli Stati dell’Unione sono obbligate a sottoporsi. Dall’impossibilità d’individuare la Libia come zona di sbarco sicuro ne derivano contrasti tra le ONG che rifiutano la giurisdizione di quest’ultima e gli Stati Europei che si affacciano sul Mediterraneo (come Italia, Malta).

Le parole di Draghi sul Golfo Persico

«Nel Golfo Persico, dopo anni di polarizzazione, assistiamo con interesse a nuove dinamiche cooperative. Come Italia abbiamo investito molto sulle opportunità in tal senso offerte dall’EXPO Dubai. Con l’Iran manteniamo un dialogo esigente, ma costruttivo, anche per quanto riguarda la non proliferazione del nucleare. Il nostro impegno in Iraq è rilevante. Contribuiamo al processo di graduale espansione della missione NATO, di cui assumeremo il comando per un anno a partire dal prossimo maggio». In questa zona del Medio Oriente, Russia e Turchia hanno giocato principalmente la carta militare, mentre Pechino ha rafforzato la sua presenza economica, diventando un partner chiave per molti paesi della regione.

Un dialogo difficile con l’Unione

Tra i punti principali dell’intervento del Presidente del Consiglio, anche l’esigenza di una collaborazione tra i Paesi del Mediterraneo che non si limiti ai rapporti bilaterali, né si esaurisca nella gestione delle crisi; ma anche una politica energetica condivisa per favorire lo sviluppo sostenibile. Tuttavia, il tragitto per un aperto dialogo con l’Unione per le questioni di principale interesse del bacino Mediterraneo (soprattutto sulla questione dei flussi migratori) sembra aspro e tortuoso: sono ancora innumerevoli le tensioni avvertiti ai confini con l’Europa dell’Est, ove ancora migliaia di persone sono bloccate al confine tra Polonia e Bielorussia nel tentativo di emigrare verso il territorio dell’Unione. Intanto, la Russia continua ad operare pressioni militari sull’Ucraina.

(fonte: ilvaloreitaliano.it)

Alcuni giorni fa, al forum dell’Unione per il Mediterraneo (UpM) di Barcellona, l’Alto Rappresentante dell’Unione Josep Borrell aveva affermato:

Il Mediterraneo non può essere solo sinonimo di migrazioni, bensì anche uno strumento di cooperazione in quanto rappresenta la porta d’ingresso dell’Africa. Oggi nel Mediterraneo ci sono troppi conflitti e instabilità politica, a volte sembra più una frontiera che separa due mondi con enormi differenze economiche e sociali che non un nesso di unione.

Nella giornata di ieri sono stati infine approfonditi temi strategici come il ruolo dei giovani e delle donne e il loro contributo alla crescita sociale ed economica, il peso economico delle infrastrutture, la complessità della questione migratoria, il ruolo strategico della cyber security, e il contributo della società civile nelle società mediterranee.

Valeria Bonaccorso