Israele: Attacco Iran con droni e missili

Nella notte fra sabato e domenica l’Iran ha lanciato un attacco contro Israele. Sono stati impiegati più di 300 armi fra droni e missili. Nelle scorse ore infatti sono stati pubblicati in rete diversi video che riprendono il passaggio delle armi iraniane nei cieli dell’Iraq. Già nei giorni scorsi Israele aveva innalzato lo stato di allerta al livello massimo, a causa di diversi avvertimenti interni e internazionali su un possibile attacco.

Israele ha confermato la neutralizzazione del 99% di droni e missili attraverso il suo scudo – l’Iron Dome – e l’impiego dell’aviazione. Anche Stati Uniti e Regno Unito hanno partecipato alla difesa di Israele. Nel corso dei bombardamenti undici persone sono rimaste ferite. I danni più importanti sono quelli riportati nella base aeronautica di Navatim, nel centro del Paese.

(Reuters)

 

Vendetta contro Israele

L’operazione rappresenta una rappresaglia nei confronti dello stato ebraico per il bombardamento all’ambasciata iraniana a Damasco. Nel corso di questa offensiva Israele ha ucciso Mohammad Reza Zahedi, importante capo delle guardie rivoluzionarie iraniane (o pasdaran). Altri sette diplomatici sono morti, mentre l’ambasciatore iraniano in Siria è rimasto illeso poiché non si trovava in sede.

Non si tratta del primo attacco iraniano contro Israele. Tuttavia, un’offensiva di questa portata rimane senza precedenti in tempi recenti. L’offensiva rientra in un più ampio quadro di ostilità fra le due potenze nel Medio Oriente, nonché all’interno dell’attuale conflitto fra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. L’Iran infatti sostiene economicamente e militarmente diverse milizie nella regione fra cui Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano, i ribelli Houthi in Yemen e altre unità in Iraq e Siria. Nel corso del conflitto nella Striscia, Israele ha ucciso importanti esponenti di Hamas fra cui i tre figli adulti del capo politico della milizia Ismail Haniyeh.

Droni e missili non sono partiti solo da Iran, ma anche da altri paesi dell’area dove risiedono milizie filoiraniane. Fra queste spiccano Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, ampiamente finanziate e supportate dal regime iraniano. In particolar modo Hezbollah rappresenta una sempre più preoccupante minaccia per Israele, a causa della forte espansione del gruppo. L’apertura di un fronte a nord dello stato ebraico potrebbe impegnare diverse forze militari israeliane distogliendole dalla Striscia di Gaza.

(Al Jazeera)

Le armi usate dall’Iran

L’attacco ha preoccupato la comunità internazionale per una possibile escalation regionale dell’attuale conflitto fra Israele e Palestina. L’Iran è infatti uno dei paesi più militarizzati della regione mediorientale. A partire dagli anni novanta la guida suprema Khamenei ha investito molto nell’esercito e in un’industria bellica nazionale e autonoma, che ha fornito al paese un grosso arsenale. La maggior parte delle risorse sono conservate in depositi sotterranei difficilmente attaccabili da attacchi esterni. L’Iran inoltre porta avanti da anni un piano di sviluppo di un potente arsenale nucleare.

Nel corso dell’attacco sferzato contro Israele, sono stati impiegati 170 droni, 120 missili balistici e trenta da crociera. I droni, del tipo Shahed 136 (che l’Iran vende tra l’altro alla Russia), sono detti “kamikaze” poiché volano autonomamente attraverso coordinate GPS e si schiantano contro diversi target, distruggendosi e facendo detonare l’esplosivo trasportato: possono impiegare diverse ore in volo prima di colpire, per cui il loro passaggio è visibile in cielo (come accaduto in Iraq e Israele la scorsa notte). I missili balistici, di cui l’Iran ne ha usati circa 30, vengono sparati a grosse altitudini oltre atmosfera per poi ricadere su diversi obiettivi: non richiedono motore e sono molto veloci, richiedendo solo una decina di minuti prima di colpire. I missili da crociera hanno invece una velocità intermedia e seguono una traiettoria orizzontale ad altitudine molto inferiore, poiché volano alimentati da un motore: anch’essi sono visibili insieme ai droni.

Shahed 136 (Wikimedia)

La reazione internazionale

Dopo che l’Iran ha lanciato il suo attacco contro Israele, diversi paesi hanno espresso la loro condanna e preoccupazione per gli attacchi iraniani contro Israele. Quest’ultimo peraltro non ha rassicurato i suoi alleati in Occidente, promettendo una contro-rappresaglia «quando il tempo sarà dalla sua parte». Di contro, la missione iraniana presso le Nazioni Unite ha affermato che gli attacchi sono stati condotti unicamente come vendetta contro Israele ma che potranno seguirne altri se questo risponderà. Il presidente Joe Biden ha dichiarato che non garantisce l’appoggio a Israele in un eventuale contro-attacco e starebbe inoltre dissuadendo il governo Netanyahu a rispondere.

(Reuters)

Francesco D’Anna

Narges Mohammadi, chi è la vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2023

Il premio Nobel per la Pace, con 305 candidature, è stato vinto dall’attivista iraniana Narges Mohammadi per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e per la promozione dei diritti umani e della libertà per tutti.  Ad annunciarlo, Berit Reiss-Andersen – presidente del Comitato per il Nobel norvegese.

L’Iran ha detto la sua in merito all’assegnazione di questo premio all’attivista iraniana Narges Mohammadi, definendola una scelta «faziosa e politica».

Chi è la vincitrice del premio Nobel 2023

Narges Mohammadi ha studiato fisica diventando poi ingegnere e lotta da sempre per i diritti umani, contro la pena di morte e contro l’obbligo del velo. 

Insieme a Shirin Ebadi – prima donna musulmana a vincere un premio Nobel per la Pace – fonda il Centro per la difesa dei Diritti Umani, diventandone vicepresidente: quest’organizzazione si occupa principalmente di rappresentare prigionieri politici e prigionieri di coscienza nei procedimenti legali. 

Queste le parole di Shirin Ebadi:

Narges Mohammadi è in carcere da anni per le sue attività in sostegno dei diritti umani. Spero che il regime si renda conto che tutto il mondo ha gli occhi puntati sulle donne iraniane. Spero che cambi l’approccio nei confronti del popolo, in particolare nei confronti delle donne, mi auguro che il regime torni a ragionare in tempi brevi. Chi comanda in Iran deve capire che esistono i diritti umani, e che tutto il mondo tiene sotto osservazione chi governa calpestandone i diritti.

Per l’ONU «la vittoria del Nobel evidenzia il coraggio delle donne iraniane».

L’attivista è stata arrestata tredici volte e sottoposta a centocinquantaquattro frustate. L’ultima condanna risale a maggio 2016. Tuttora detenuta, deve scontare oltre trent’anni nella prigione di Teheran per “diffusione di propaganda contro lo stato”.

Nell’ottobre 2020, dopo cinque anni di reclusione, è stata rilasciata a seguito di un’operazione al cuore. In questo breve frangente ha lottato contro la tortura bianca, spiegando il tutto in un libro dal titolo White Torture.

Nell’opera spiega uno dei metodi di tortura usati nelle prigioni iraniane, in cui i prigionieri sono tenuti in celle bianche per periodi di tempo molto lunghi. Oltre l’esperienza dell’attivista, all’interno del libro troviamo il racconto diretto di dodici detenute politiche.

Lo scopo della tortura bianca è quello di interrompere permanentemente la connessione tra il corpo e la mente di una persona per costringere l’individuo ad abiurare dalla propria etica e dalle proprie azioni.  

Mi metteranno di nuovo in prigione, ma non smetterò di fare campagna finché i diritti umani e la giustizia non prevarranno nel mio Paese.

Premi vinti

Il Nobel per la Pace non è l’unico riconoscimento vinto da Narges Mohammadi. Citiamo anche il premio Alexander Langer dedicato all’impegno civile, culturale e politico. Anche allora non poté presenziare in quanto privata del suo passaporto.

Un ultimo premio vinto è il PEN/Barbey Freedom to Write Award 2023, che viene conferito ogni anno a uno scrittore incarcerato per onorare la sua libertà d’espressione.

Dopo aver appreso della sua ultima vittoria, l’attivista è riuscita a far trapelare un messaggio:

Non smetterò mai di lottare per la democrazia, la libertà e l’uguaglianza. Il premio mi renderà ancora più determinata, fiduciosa ed entusiasta in questo percorso. Al fianco delle madri dell’Iran, continuerò a battermi contro la discriminazione di genere sistematica fino alla liberazione delle donne. Spero anche che questo riconoscimento renda gli iraniani che protestano ancora più forti e ancora più organizzati.

Pene detentive di questo genere sono disumane, soprattutto per una persona il cui unico crimine è aver lottato per una causa giusta, per il riconoscimento dei diritti umani. Narges Mohammadi non vede i suoi figli da otto anni, ha davanti a sé ancora molti anni di carcere e non resta che speranza che la giustizia prevalga.

  Gabriella Pino

In Iran centinaia di bambine sono state avvelenate per far chiudere le scuole femminili

Nelle ultime settimane sono stati segnalati oltre duecento casi di studentesse di circa 10 anni, e di 14 scuole diverse, con sintomi di avvelenamento da agenti chimici, a pochi mesi dallo scoppio delle proteste in Iran legate alla morte della giovane Mahsa Amini.

Iran, bambine avvelenate per non farle andare a scuola. Fonte: Vanity Fair

Dopo un’iniziale reticenza, domenica scorsa sul caso si è espresso il viceministro dell’Istruzione iraniano Younes Panahi, secondo cui l’avvelenamento seriale di studentesse nella città religiosa di Qom e in altre città sarebbe “intenzionale”, nel tentativo di provocare la chiusura delle scuole femminili. Numerosi i genitori scesi in strada per chiedere più tutele da parte delle autorità locali e nazionali.

Qom, la città dell’Iran dove tutto è cominciato

La recente segnalazione rappresenta in realtà soltanto l’ultimo episodio di una serie di avvelenamenti “intenzionali” nei confronti di almeno 400 ragazze, con l’obiettivo di impedire l’istruzione femminile.

Il primo avvelenamento risale al 30 novembre, quando diciotto studenti della scuola tecnica Nour della città religiosa di Qom giungono in ospedale con sintomi di intossicazione grave. Da allora, più di dieci le scuole femminili nel mirino: sono almeno 194 gli avvelenamenti della scorsa settimana in una scuola femminile nella città di Borujerd, così come a Teheran e Ardebil.

Centinaia le famiglie spaventate che, vedendo da novembre figlie bambine o adolescenti rientrare da scuola con nausea, mal di testa, tosse, respiro difficile, palpitazioni, letargia, hanno messo in atto un passaparola che ha fatto chiudere le scuole per due giorni la settimana scorsa. Già il 14 febbraio, un gruppo di genitori protestava davanti al governatorato della città per chiedere spiegazioni.

Ad aggravare l’accaduto le ultime notizie sui social, secondo cui una delle studentesse di Qom avvelenate da sostanze chimiche non ancora certificate, sarebbe morta. Si chiama Fatemeh Rezaei e appare su centinaia di hashtag su Twitter. La famiglia dell’undicenne, allieva della più prestigiosa scuola religiosa della Repubblica islamica, è stata minacciata di non divulgare la notizia, poi rilanciata dagli amici della vittima.

Non è un caso che gli avvelenamenti siano cominciati proprio a Qom, città da 1,2 milioni di abitanti. Una città “santa”, sede di molte istituzioni del clero iraniano e che ha ospitato la maggior parte dei leader del paese.

Le dichiarazioni sul movente

Sebbene Panahi non abbia indicato i possibili responsabili nelle sue dichiarazioni, alcuni media locali riferiscono che le ragazze sarebbero state avvelenate proprio da movimenti di estremisti religiosi, probabilmente ispirati dalle politiche dei talebani afghani di vietare l’accesso alle scuole a bambine e ragazze.

Alla luce dei primi elementi emersi con le indagini del ministero dell’Istruzione e l’intelligence iraniana, il viceministro iraniano alla Salute ha affermato:

«Si è scoperto che alcune persone volevano che tutte le scuole, in particolare le scuole femminili, fossero chiuse», aggiungendo tuttavia che «i composti chimici usati per avvelenare gli studenti non sono prodotti chimici di guerra, gli studenti avvelenati non hanno bisogno di trattamenti aggressivi, e una grande percentuale degli agenti chimici usati sono curabili».

Anche Homayoun Sameh Najafabadi, membro del comitato parlamentare per la Salute, ha confermato in un’intervista al sito “Didbaniran” che l’avvelenamento delle studentesse nelle scuole di Qom e Borujerd è intenzionale. Le dichiarazioni giungono dopo che il ministro dell’Istruzione, Youssef Nouri, aveva definito come mere “voci” le notizie sull’avvelenamento.

Un evidente cambio di posizione da parte del regime, che appena dieci giorni fa definiva come “non confermate” le notizie degli avvelenamenti.

La condanna dell’Italia

Dinnanzi ai fatti di un Paese che continua ad essere dilaniato da forti instabilità politiche, la Lega ha deciso di presentare un’interrogazione parlamentare:

«Ennesimo episodio sconcertante che non può lasciarci in silenzio […] L’accanimento terribile e violento contro le donne iraniane continua a sconvolgerci e a indignarci. Come Lega, domani presenteremo un’interrogazione al ministro degli Esteri Tajani, perché su fatti drammatici del genere urgono risposte celeri», si legge in una nota dei senatori della Lega nelle commissioni Esteri e Difesa: Marco Dreosto, Andrea Paganella e Stefania Pucciarelli.

Severe anche le considerazioni di Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa verde e deputato di Verdi e Sinistra:

«I fatti gravissimi accaduti in Iran sono una dolorosa evidenza del fatto che ci troviamo di fronte a pratiche che ricordano l’orrore di quelle di sterminio naziste. Una situazione davanti a cui il Governo, insieme all’Unione europea, deve stabilire subito cosa intende fare per garantire il rispetto dei diritti umani»

Il ruolo delle donne nelle proteste

Parte dei movimenti di opposizione al regime iraniano ha accusato le autorità del paese per gli avvelenamenti, collegandoli al ruolo di riferimento che le giovani iraniane ricoprono nel movimento di rivolta nato con la morte di Mahsa Amini. Ad oggi, sui social circolano foto e video in cui le iraniane si tagliano i capelli e bruciano il velo islamico in segno di protesta.

Fonte: Agenzia Nova

Intanto, nelle ultime ore è stata rilasciata una cittadina 24enne spagnola, Ana Baneira, detenuta dallo scorso novembre. Le circostanze dell’arresto non sono mai state precisate, ma la durata della sua detenzione ha coinciso con il culmine delle proteste in Iran.

Gaia Cautela

Iran: dopo le incessanti proteste viene abolita la polizia morale

Era il 16 settembre quando la ventiduenne iraniana Mahsa Amini veniva picchiata a morte dalla polizia morale. Quell’evento ha generato un’enorme quantità di proteste, partite dall’Iran e arrivate a coinvolgere tutto il mondo. Ad oggi, dopo circa 2 mesi dall’accaduto, si comincia ad intravedere un filo di luce in fondo al tunnel.

Da pochi giorni infatti si sta diffondendo la notizia secondo cui il programma Gahst-e Ershad, la cosiddetta “polizia morale”, è stato interrotto.

Cos’è la “polizia morale” iraniana

Quando si parla di polizia morale non si intende un vero e proprio organismo di autorità distaccato dalle forze dell’ordine regolari. Si tratta tecnicamente di un programma gestito dalla polizia locale, nato nel 2005 con il compito di far osservare determinate regole riguardanti soprattutto gli abiti indossati dai cittadini. Prima che il Ministero degli Interni iraniano desse il via al programma Gahst-e Ershad il controllo del dress code era affidato prevalentemente ai Komite, corpo poliziesco nato in seguito alla rivoluzione iraniana del 1979.

Immagine di un controllo da parte della polizia morale. Fonte: insideover.ilgiornale.it

Da quando le proteste divampano tra le strade e le piazze delle principali città della nazione risulta sempre più raro poter osservare agenti della polizia morale in azione. Infatti ad oggi sono quasi esclusivamente le forze di sicurezza ad essere presenti in numero elevato nelle zone di rivolta, con lo scopo principale di reprimere e allontanare coloro che manifestano, molto spesso anche per mezzo della violenza.

La domanda che in molti si porrebbero a questo punto è: basta la scarsa presenza “sul campo” per desumere che la polizia morale è stata abolita?

Nel caso non bastasse ciò, negli ultimi giorni sono trapelate diverse dichiarazioni in merito da parte del procuratore generale iraniano Mohammad Jafar Montazeri. Le sue parole:

«La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l’ha creata».

A strozzare il grido di gioia derivante dal presunto annuncio ci ha pensato la tv di stato iraniana in lingua araba Al Alam che, durante le trasmissioni successive alla fuga di notizie riguardanti lo smantellamento del Gahst-e Ershad, ha divulgato un comunicato che recita:

«Nessun funzionario della Repubblica Islamica ha detto che la polizia religiosa è stata chiusa».

Dunque il dubbio permane.

Lo sciopero di 3 giorni

Non accennano a placarsi però nemmeno i moti di protesta. L’ultima iniziativa popolare consiste in uno sciopero quasi totale delle attività, promosso in prima battuta dagli studenti delle più importanti università dell’Iran e poi sposato anche dai sindacati dei lavoratori.

Alcuni studenti hanno anche scritto una lettera d’invito alla mobilitazione popolare. Questo il comunicato che è stato fatto circolare:

«Sono più di due mesi che ogni giorno un essere umano viene assassinato a pochi metri da noi, nella nostra città, nel nostro Paese, dal Kurdistan a Zahedan. Ogni giorno ci troviamo di fronte a una marea di nuovi prigionieri politici. Protestiamo contro questa brutale repressione».

Va detto però che a causa della mancanza di un coordinamento adeguato risulta difficile che lo sciopero sortisca gli effetti desiderati. La partecipazione alla protesta è inoltre ostacolata dalla comprensibile paura di molte persone legata a ciò che potrebbe accadere nel caso venissero arrestate.

I negozi rimasti chiusi. Fonte: avvenire.it

La “repressione brutale” non si placa

Il governo iraniano continua a non essere intimorito dai vari moti e iniziative di rivolta. Anzi la sensazione che si ha è che più la protesta risulta ambiziosa e rumorosa più la reazione delle autorità è dura e aggressiva.

«Il corpo paramilitare dei basij, la polizia e le forze di sicurezza non esiteranno a fronteggiare duramente i rivoltosi, i criminali armati e i terroristi che sono stati assoldati dai nemici. Dopo la sconfitta della nuova sedizione, creata dai nemici, il sistema sacro della Repubblica islamica continuerà con forza a realizzare la sua causa e sconfiggerà il fronte unito dei nemici»

Questo il comunicato delle Guardie della rivoluzione iraniana. Parecchio pesanti anche le dichiarazioni del capo della magistratura iraniana Gholamhossein Ejei:

«I rivoltosi, condannati a morte per “Guerra contro Dio” o “Corruzione sulla Terra” saranno impiccati presto».

Queste parole generano brividi e non fanno altro che far crescere la preoccupazione per la situazione dei cittadini iraniani. La speranza è che tutte le proteste e rivolte riescano a scuotere le alte cariche dello stato perché non è accettabile che nel 2022 esistano ancora dei posti nel mondo in cui alcuni valori imprescindibili dell’essere umano, come la dignità e la libertà personale, vengono calpestati in maniera così spietata.

Francesco Pullella

 

 

Al via i mondiali di calcio in Qatar. Tutte le controversie intorno alla competizione

Da pochi giorni hanno avuto inizio i mondiali di calcio 2022, in Qatar. Ancor prima del primo fischio di inizio e della cerimonia di apertura, non poche sono state le polemiche intorno alla competizione di più alto livello dello sport più praticato al mondo. Ogni grande evento è sempre circondato da chiacchiere, che presto cadono nell’oblio, ma in questo caso non si tratta solo di chiacchiericcio.

Cerimonia di apertura dei mondiali di calcio 2022 (fonte: tuttomercatoweb.com)

La spettacolare cerimonia di apertura

Per quasi un mese, dal 20 novembre al 18 dicembre 2022, il Qatar ospiterà la FIFA World Cup, la prima mai disputata in Medio Oriente e la prima a svolgersi in periodo autunnale, non estivo come sempre. Cinque città e otto stadi in cui 32 nazionali di calcio, tra cui manca quella degli azzurri, si sfideranno per il titolo.

La cerimonia di apertura è avvenuta nella giornata di sabato scorso. Mezz’ora di spettacolo, con la direzione dall’italiano Marco Balich.

Prima star dell’evento è stato Morgan Freeman, il famosissimo attore di Hollywood, che ha recitato, sulla scena allestita al centro dello stadio Al Khor, a 50 km da Doha – a forma di tenda beduina, per omaggiare la tradizione del Paese – un dialogo sull’importanza di alcuni valori, insieme a un’altra celebrità, il giovane qatarino Ghanim al-Muftha, ammirato per come affronta la rara sindrome di cui è affetto.

(fonte: ansa.it)

Una scenografia bellissima, colorata dal passaggio di tutte le mascotte dei precedenti mondiali e dai ballerini, oltre che dagli spettacoli pirotecnici. Balich ha voluto rappresentare, con canti e coreografie la linea invisibile e ininterrotta che unisce tutti gli essere umani di tutto il globo e, per quanto riguarda il racconto del Qatar, quella che collega il suo passato e le sue tradizioni con il presente. Protagonisti di uno dei momenti anche gli sbandieratori di Faenza che hanno fatto librare nell’aria le 32 bandiere delle nazionali partecipanti.

La mascotte qatarina per la competizione appena iniziata (fonte: tuttomercatoweb.com)

Uno spettacolo, a detta di alcuni, che voleva dire al mondo che il Qatar è pronto a ospitare anche le Olimpiadi. Il Paese ha tentato più volte di candidarsi, ma il più grande ostacolo è il clima troppo caldo in estate, stagione in cui tradizionalmente si svolgono i giochi. L’eccezione, per ora, è stata fatta solo dalla Fifa.

Di certo, non mancano le possibilità, al Paese, di creare le strutture idonee e anche in poco tempo: abbiamo visto come gli stadi per la competizione calcistica, capolavori di ingegneria e design, siano stati costruiti in pochissimo tempo.

Proprio questa è stata la prima controversia a far sollevare l’opinione pubblica internazionale.

 

Il discorso dell’emiro all’insegna di nobili valori

Migliaia di lavoratori sono stati artefici dei magnifici impianti che in questi giorni incantano gli occhi degli spettatori e i telespettatori. Questi però hanno dovuto lavorare nelle peggiori condizioni: orari di lavoro massacranti sotto il sole qatarino. Non pochi hanno subito gravi danni alla salute, ad esempio alla vista, alcuni hanno anche perso la vita.

Per questo motivo, il discorso dell’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, dalla tribuna d’onore, durante la cerimonia di apertura, è stato accompagnato dai dissensi e i commenti negativi.

«Diamo a tutti, qui dal Qatar, il benvenuto alla Coppa del Mondo. Abbiamo lavorato duramente con tanta gente per allestire un torneo di successo. Abbiamo profuso tutti i nostri sforzi per il bene dell’umanità. Finalmente è arrivato il giorno dell’inaugurazione, il giorno che tutti qui aspettavamo. A partire da oggi e per i prossimi 28 giorni seguiremo, e con noi tutto il mondo, la grande festa del calcio, in un ambiente caratterizzato da umana e civile comunicazione.».

Queste le prime parole dell’emiro, alle quali ne sono seguite altre, che hanno fatto riferimento, come quelle dei due attori protagonisti della scena, a tematiche positive, come quella dell’inclusione e della condivisione.

«È bello che i popoli mettano da parte ciò che divide e celebrino le loro diversità e al tempo stesso ciò che li unisce. Auguro a tutte le squadre di giocare un calcio magnifico, di grande sportività, di vivere un tempo pieno di gioia e di emozioni. Che siano giorni che possano ispirare bontà e speranza. Benvenuti e buona fortuna a tutti».

 

Parole distanti dalla realtà. Il dissenso dell’opinione pubblica

Purtroppo, la realtà del contesto si distacca dal clima di serenità e gioia raffigurate. Anche il momento dell’inno del Qatar cantato dal cantante sudcoreano Jungkook, della famosissima band BTS, e il qatarino Fahad Al Kubaisi, insieme è stato celebrazione di positività.

Tutto ha fatto pensare all’inizio di una grande festa, ma sotto la patina scintillante e colorata ci sono molte controversie, oltre lo scandalo della realizzazione degli stadi.

Quel “eliminiamo le barriere” a cui l’emiro ha fatto riferimento nel suo discorso ufficiale, trova subito un ostacolo nel divieto di bandiere arcobaleno imposto. In Qatar, infatti, l’omosessualità è ancora oggi punita dalla legge con l’arresto.

Però, la comunità Lgbtq e il supporto ad essa sono più forti. Trovato l’ostacolo, trovata la soluzione: l’associazione francese Stop Homophobie e l’azienda statunitense Pantone hanno realizzato una bandiera che rappresenta la comunità, aggirando la legge del Paese arabo. Si tratta dell’iniziativa “Colors of Love” per la quale è stata ideata una rainbow alternativa, bianca, ma con tutti i codici identificativi universali del sistema Pantone per ogni colore della bandiera abituale.

Le reazioni negative sono esplose in tutto il mondo. Dalla cantante Dua Lipa la quale ha sottolineato di non aver voluto accettare l’invito a a intraprendere le trattative per una sua esibizione durante lo spettacolo di apertura, all’emittente britannica Bbc, che ha scelto di non trasmettere la cerimonia di apertura: è la prima volta nella storia. Il gesto ha avuto come finalità quello di mettere sotto accusa un Paese che non rispetta e protegge i dei valori universalmente fondamentali di uguaglianza tra uomini e donne, di rispetto per la comunità Lgbt e dei diritti dei lavoratori, come suddetto, e, soprattutto, della libertà di espressione.

 

La prima partita della nazionale iraniana: la protesta silenziosa

L’ultima grande polemica che ha investito questa coppa del mondo, ma che parte, in questo caso, dall’esterno, è quella che riguarda la nazionale iraniana.

Il fischio di inizio di Inghilterra-Iran, peraltro durata ben 117 minuti – con forse il recupero più lungo mai avuto durante un mondiale di calcio – è stato preceduto da tre minuti probabilmente ancor più intensi.

Gli inglesi si sono inginocchiati per dire, ancora una volta, no al razzismo, e gli iraniani sono rimasti in silenzio durante l’esecuzione del proprio inno tramite gli altoparlanti.

La nazionale iraniana non canta il proprio inno in segno di protesta (fonte: corriere.it)

I giocatori si sono disposti in riga abbracciati, ma con le bocche serrate per gridare, con la voce forse più potente, quella del silenzio, il proprio segno di vicinanza a tutti i connazionali e di dissenso contro il regime politico iraniano.

Come sappiamo, il Paese sta vivendo un momento storico di forte tensione sociale. Le ribellioni alla repressione da parte del regime non si placano. Il popolo iraniano continua a combattere, in parte per strada, nelle piazze, nelle università, in parte da un’altra parte nel mondo, da un campo di calcio spianato sopra altre ingiustizie.

 

 

Rita Bonaccurso

 

 

 

Morire per una ciocca di capelli. L’Iran in rivolta per la tragedia di Mahsa Amini

Tre settimane fa, è successo qualcosa che ha sconvolto il mondo: il 16 settembre, la ventiduenne iraniana Mahsa Amini è stata picchiata a morte dalla polizia morale”, perché dal velo le sfuggiva una ciocca di capelli. La giovane è morta in ospedale tre giorni dopo e da allora, a partire dalle province con forte presenza di curdi, è dilagata nel Paese una rivolta.

Proteste a Teheran e nel resto dell’Iran per la tragedia di Mahsa (fonte: zazoom.it)

 

Arrestata per una ciocca di capelli fuori dall’hijab

La questione ha velocemente trovato eco in tutti gli angoli del mondo, soprattutto perché le donne iraniane hanno dato avvio alla più grande ribellione mai vista negli ultimi cinquant’anni.

Dal 1979, l’hijab, il velo, copre la testa delle donne già dall’età di nove anni. Fu detta “rivoluzione iraniana” e voluta dal regime degli ayatollah. “Rivoluzione” è un termine carico di storia, forse una delle parole più piene di significato in tutte le lingue: fa subito pensare alla ricerca e l’ottenimento di una libertà, in ogni caso più grande di ciò che precede. Nel caso delle donne iraniane e arabe tutte, questo termine ha avuto tutt’altra valenza, per mezzo secolo ha assunto il significato del suo contrario, quello di involuzione.

Mahsa era in vacanza a Teheran con la famiglia, originaria di una provincia del nord dell’Iran, quando è stata fermata proprio a causa del suo velo, che gli è costato la vita, solo perché non indossato rigorosamente a copertura di tutti i capelli.

Il generale Hossein Rahimi, il capo della polizia di Teheran, ha respinto le accuse di maltrattamento e ha dichiarato che la giovane è stata vittima diuno sfortunato incidente“, che sia morta di infarto e non per le percosse ricevute. Così la un altro colpo è stato inferto.

Al padre di Masha, Amjad Amini, è stato negato l’accesso alle informazioni riguardo il caso della morte di sua figlia:

“Nessuno mi dice cosa le hanno fatto e non mi fanno vedere i dati sulla sua morte”.

È intervenuto nella vicenda il presidente stesso dell’Iran, Ebrahim Raisi. Aveva promesso che sulla vicenda sarebbero state fatte indagini e pure con una certa celerità, ma ancora non vi sono novità, resta tutto nella vaghezza, seppur sembrano non esservi dubbi per le persone. Per il mondo intero è tutto chiaro: Mahsa è stata uccisa per una ciocca di capelli.

La morte della ventiduenne Mahsa fa scoppiare proteste che potrebbero cambiare per sempre il volto dell’Iran (fonte: lacrocequotidiano.it)

Le proteste dopo la morte di Mahsa e la risonanza in tutto il mondo

Nella sua inspiegabile tragedia Mahsa è divenuta il simbolo di una nuova lotta importantissima per un progresso sociale. Le piazze hanno iniziato ad infiammarsi, seguite soprattutto dalle università. Molte donne stanno scendendo in strada e, in segno di protesta contro il regime, si tagliano i capelli o bruciano hijab. Molti uomini le affiancano.

Attraverso i social media soprattutto arrivano testimonianze di ciò che sta accadendo: chi protesta viene investito dalla repressione delle forze dell’ordine iraniane, che si armano di gas lacrimogeni e violenza. Gli arresti sono in continua crescita e, purtroppo, alcune fonti segnalano la morte di varie persone.

Le donne che si ribellano rischiano la vita, ma continuare a lasciare da parte la libertà individuale non è un prezzo che vogliono ancora pagare.

Internet aiuta a raccontare, affinché sempre più persone possano sapere – così come le stesse iraniane supplicano di fare – e perché ciò che finora è stato normalità, possa esser descritto per quello che realmente è: una violazione dell’inalienabile libertà personale. Anche persone note stanno veicolando la propria popolarità perché un cambiamento reale possa avvenire. In Iran,

In Italia, l’attrice Claudia Gerini, nella giornata di ieri, si è filmata mentre si tagliava una ciocca di capelli, poi messa in una busta indirizzata all’ambasciata iraniana in Italia, a Roma: un gesto forte e chiaro, che molte altre attrici, anche non italiane, stanno compiendo per sottolineare l’importanza di far qualcosa e per farsi sentire più vicine alle donne iraniane.

L’obiettivo è quello di smuovere le coscienze della classe politica iraniana, di coloro che mantengono vivo un regime poco rispettoso dei diritti delle persone.

 

Un’italiana arrestata a Teheran

Alcune fonti segnalano dati terribili: molte persone sarebbero morte per la repressione delle proteste e ancora di più sono state arrestate.

Inoltre, è giunta la notizia dell’arresto di una ragazza italiana, in viaggio in Iran, la romana Alessia Piperno. Non si avevano notizie dallo scorso 28 settembre, data dell’arresto. Lei una viaggiatrice per lavoro, ormai da sette anni, con un amore grande per il mondo e le diverse culture. La trentenne travel blogger potrebbe trovarsi nel carcere di Evin, noto per essere il luogo riservato agli oppositori politici della repubblica islamica iraniana.

Alessia Piperno, travel blogger italiana arrestata in Iran (fonte: zazoom.it)

Alessia è riuscita, dopo giorni di silenzio, è riuscita ad avere una telefonata con la famiglia. Ha raccontato di essere stata fermata dalla polizia a Teheran, ma i motivi dell’arresto rimangono ancora sconosciuti.

Amnesty International ha ricordato quelli sono i capi d’accusa che il governo iraniano solitamente imputa ai prigionieri politici, per volere degli ayatollah, gli stessi che nel ’79 introdussero proprio l’obbligo dell’hijab:

“L’Iran ha detto di aver fermato nove stranieri che avrebbero preso parte alle manifestazioni. Se questa fosse l’accusa anche per Alessia sarebbe del tutto ingiustificata – le parole di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italian – ma i possibili capi d’accusa rischiano di passare dalla ‘minaccia contro la sicurezza nazionale’ alla ‘propaganda’ fino allo ‘spionaggio’.”.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio è a lavoro per cercare di risolvere la complicatissima situazione. Ha già avuto un colloquio telefonico con il suo omonimo iraniano, Hossein Amir-Abdollahian. Attraverso una nota ne sono stati resi noti i punti affrontati. Sembrerebbe, però, che il nome della giovane italiana non sarebbe stato fatto inizialmente. Il ministro Iraniano avrebbe parlato solo della situazione generale, dei disordini registrati dopo la morte di Mahsa Amini. Sarebbe stato, secondo fonti attendibili, il ministro Di Maio a sollevare la questione dell’arresto di Alessia.

In ogni caso, la Farnesina, per la liberazione della nostra connazionale, come reso pubblico tramite una nota, sta facendo leva su “legami secolari” che uniscono il nostro Paese all’Iran. Il lavoro per la diplomazia è molto difficile. La vicenda è delicatissima, una problematica potrebbe avere conseguenze gravissime.

Intanto le donne iraniane continuano a combattere per la propria libertà e anche quella di tutti noi indirettamente, poiché la libertà è un concetto universale o almeno dovrebbe esserlo. Forse, finalmente, stanno per esser spezzate alcune delle catene imposte dall’uomo conservatore che spesso confonde la tutela della libertà individuale con il mancato rispetto della moralità.

 

Rita Bonaccurso

Gli Usa dell’era Biden bombardano le milizie filoiraniane in Siria: i motivi delle tensioni tra i due Paesi

Attacco Usa in Siria. Fonte: Il Riformista

Giovedì 25 febbraio gli USA hanno compiuto un attacco aereo – il primo dall’insediamento del presidente Joe Biden – contro alcune milizie appoggiate dall’Iran nella zona orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Si è trattato di una risposta all’attacco del 15 febbraio scorso contro la base statunitense di Erbil, nel Kurdistan Iracheno. Di qualche giorno fa, invece, la notizia del rifiuto dell’Iran di partecipare a un colloquio informale per la negoziazione di un accordo sul nucleare con gli Stati Uniti.

Il Pentagono statunitense risponde alle provocazioni iraniane

La prima azione militare dell’amministrazione Biden è stata ordinata come avvertimento a Teheran (capitale dell’Iran): dopo le consultazioni del presidente col capo del Pentagono Austin e con gli alleati, sono state sganciate ben sette bombe da 500 pound di esplosivo – cioè circa 227 chili – nella zona di confine tra Al Qaem e Abu Kamal. Un chiaro segnale di non tolleranza di ulteriori provocazioni iraniane, dopo quelle dello scorso 15 febbraio, delle quali sono stati responsabili i militanti legati alla Repubblica islamica.

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Fonte: The New York Times

Con questa azione il capo della Casa Bianca ha voluto inoltre dimostrare di non essere debole nei confronti dell’Iran e né tanto meno pronto a fare qualsiasi concessione pur di ripristinare l’accordo nucleare, come sostenuto dagli oppositori interni repubblicani. In ogni caso, il Pentagono ha risposto con forza solo dove gli faceva più comodo, ovvero in territorio siriano, proprio per non mettere in difficoltà il governo iracheno con cui spera in una collaborazione per il contenimento delle infiltrazioni iraniane.

“La decisione di colpire in Siria invece che in Iraq avrebbe probabilmente evitato di causare problemi al governo iracheno, un partner chiave nei continui sforzi contro l’ISIS”, ha detto un alto funzionario del Pentagono di nome Michael P. Mulroy in una e-mail. “È stato astuto colpire in Siria ed evitare il contraccolpo in Iraq”.

Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha detto che nell’attacco statunitense sono stati bombardati alcuni edifici appartenenti alle milizie filoiraniane, tra cui Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al-Shuhada, che venivano usate per far arrivare le armi da un Paese all’altro (Siria e Iraq). Senza specificarne il numero, è stato aggiunto poi che durante l’attacco sono stati uccisi diversi miliziani: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che da anni monitora la guerra in Siria, ha parlato di 17 miliziani morti.

L’attacco iraniano del 15 febbraio

La mappa dell’attacco iraniano alle basi in Iraq. Fonte: la Repubblica

La risposta militare statunitense è arrivata in seguito agli attacchi missilistici in Iraq verso una base aerea ospitante alcune truppe statunitensi vicino all’aeroporto di Erbil, il lunedì sera del 15 febbraio 2021. Durante l’attacco è stato ucciso un contractor, vale a dire un soldato professionista chiamato a lavorare a pagamento in zone di guerra, e sono state ferite altre 9 persone.

L’offensiva è stata rivendicata dal gruppo Awlya al Dam (che significa ‘’i guardiani del sangue’’), una milizia emersa di recente che, a detta di molti, sarebbe appoggiata dai principali gruppi sostenuti a loro volta dall’Iran e ostili agli USA, tra cui Kataib Hezbollah.

La BBC ha escluso che il contractor ucciso fosse di nazionalità americana, scansando così il rischio di ripetere quanto accaduto poco più di un anno fa: allora il governo statunitense aveva risposto al lancio di alcuni razzi, provocanti l’uccisione di un contractor americano, bombardando cinque siti in Iraq e in Siria controllati dalla milizia irachena Kataib Hezbollah e uccidendo più di 20 persone.

L’Iran si rifiuta di negoziare

La scorsa domenica, il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Saeed Khatibzadeh ha fatto sapere che l’Iran non ha alcuna intenzione di riprendere i negoziati con gli Stati Uniti sul dossier nucleare. L’incontro – organizzato alcuni giorni fa dall’Unione Europea – è stato a sua detta rifiutato per gli stessi motivi per cui non c’era stato un meeting con l’ex presidente Donald Trump, ossia per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti sull’economia iraniana. Anche se il recente attacco aereo statunitense ha cambiato le carte in tavola, il rifiuto dell’Iran non è stato affatto scontato, dal momento che negli ultimi giorni sembrava esserci la possibilità di ripresa delle trattative.

Cos’è l’accordo sul nucleare?

L’accordo sul nucleare iraniano venne firmato a Vienna il 14 luglio 2015, dopo lunghi negoziati tra l’Iran e i membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU con il potere di veto (Regno Unito, Francia, Stati Uniti, Russia e Cina) più la Germania, vale a dire i paesi del cosiddetto “5+1”.

I ministri degli Esteri dell’Iran e del P5+1, annunciano l’accordo a Vienna, 14 luglio 2015. Fonte: Wikipedia

L’obiettivo era quello di sorvegliare le attività della Repubblica islamica dell’Iran in campo atomico, coinvolgendo nel patto le grandi potenze mondiali. Ciononostante, nel maggio 2018, l’allora presidente americano Donald Trump annunciò l’uscita degli Stati Uniti dal patto: fu in quell’occasione che vennero reintrodotte pesanti sanzioni economiche nei confronti di Teheran. L’Iran, in risposta a tale decisione, cominciò a ridurre gradualmente i suoi obblighi previsti dall’accordo, arrivando infine ad annunciare l’intenzione di un arricchimento di uranio che segnò la fine del patto. La decisione arrivò dopo la crisi scatenata dalla morte del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso il 3 gennaio 2020 in un raid aereo statunitense all’aeroporto di Baghdad.

Negli ultimi anni i paesi europei coinvolti nel patto tentarono in tutti i modi di salvare l’intesa, per esempio mediante l’introduzione di meccanismi per aggirare gli effetti delle sanzioni americane sulle aziende europee. I risultati però non furono quelli sperati ed è per questo motivo che, dopo anni di chiusure e tensioni, sarebbe stato importante che le due parti fossero ritornate a negoziare.

Gaia Cautela

Uccisione Soleimani: l’Iran emette un mandato d’arresto per Trump e alcuni americani

È stato annunciato ieri, dal procuratore capo di Teheran, il mandato d’arresto internazionale per “omicidio e terrorismo” nei confronti del presidente americano Trump e di un’altra trentina di persone, tra militari e civili.
La motivazione è l’uccisione dell’influente generale iraniano Qassem Soleimani, lo scorso gennaio.

Il generale era una figura di spicco, capo infatti delle milizie al-Quds dei Guardiani della Rivoluzione, la forza d’élite dell’esercito della Repubblica islamica.

Ma cosa è accaduto lo scorso gennaio?

Il 3 gennaio 2020 un attacco drone statunitense ha ucciso il generale sull’aeroporto internazionale di Baghdad, in Iraq.
Tuttavia, per comprendere questa azione è necessario che si ricordi anche il contesto precedente.

In Iraq, tempo prima, era stato ucciso un contractor americano (che è un soldato professionista con contratto per svolgere attività militari) a causa del lancio di alcuni razzi.

Il presidente Trump, in risposta, aveva richiesto quindi un raid contro la milizia irachena coinvolta nell’attacco, e fortemente legata all’Iran.

Al raid americano gli iracheni, probabilmente spinti dall’Iran, reagiscono assaltando l’ambasciata USA a Baghdad creando diverse proteste violente. È il 31 dicembre 2019.

Assalto ambasciata USA a Baghdad, ilsussidiario.net

La risposta americana alle immagini delle violenze dei manifestanti alle strutture dell’ambasciata è repentina: il 3 gennaio 2020, Trump ordina l’attacco aereo che ucciderà il generale Soleimani.

L’Iran aveva promesso di vendicarsi e adesso è stato emesso il mandato d’arresto.
Teheran, la capitale dell’Iran, ha chiesto l’emissione di una “red notice” all’Interpol.
Questo sistema prevede che venga inviata una richiesta alle forze di polizia mondiali di localizzare e mettere in fermo una persona.
Tuttavia, già ieri, è stato dichiarata la volontà di non prendere in considerazione una richiesta del genere.
L’organizzazione infatti non può compiere atti di natura politica, o che influenzino le relazioni politiche tra le nazioni.

Anche se ufficialmente il mandato d’arresto non verrà formalizzato, l’Iran ha voluto compiere un’azione di grande impatto che risuona in tutti i media internazionali.

Un’altra vendetta l’Iran l’aveva compiuta all’inizio di questo giugno.
Il 9 giugno infatti è stata dichiarata la condanna a morte di Mahmoud Mousavi Majd. L’uomo, un cittadino iraniano, è stato dichiarato colpevole di spionaggio.
L’accusa è quella di aver lavorato per conto della Cia e del Mossad, agenzie di intelligence rispettivamente americana e israeliana.
Tra le informazioni fornite ci sarebbe anche la localizzazione del generale Soleimani. Il portavoce della magistratura iraniana, Gholamhossein Esmaili, ne aveva annunciato l’imminente impiccagione.

Sul mandato d’arresto gli esperti suggeriscono si tratti di una mossa propagandistica, tipica della narrazione iraniana sulla volontà di non voler essere da meno nelle dimostrazioni di forza con gli Stati Uniti.

Anche per questo motivo i media statunitensi e il presidente Trump al momento non stanno riservando particolari attenzioni all’emissione di questo mandato d’arresto.
Tuttavia non sono esclusi nuovi sviluppi, perchè il confornto Iran-USA di certo non finisce qui.

Angela Cucinotta