Se cadono le montagne: un reportage a fumetti di Zerocalcare

 

Zerocalcare torna con il suo stile unico a raccontarci del suo viaggio nel nord dell’Iraq con incredibile sensibilità – Voto UVM:  5/5

 

Sulla copertina della recentissima uscita del settimanale Internazionale troviamo un disegno di Michele Rech in arte Zerocalcare, un assaggio del reportage a fumetti di 34 pagine, Etichette, che la rivista custodisce al suo interno. Ad accompagnare l’illustrazione in copertina c’è una frase: «Se cadono le montagne» e il sottotitolo Un reportage dal nord dell’Iraq, tra i curdi che vivono nel campo di Makhmour.

Il reportage è facilmente reperibile in edicola o con qualche click online sul sito del settimanale Internazionale; sempre online, sui social, si trova il racconto di  Zero circa la scelta di Alberto Madrigal per occuparsi della colorazione dell’illustrazione  in copertina e delle mezzetinte acquerellate all’interno del fumetto .

Zerocalcare, Con il cuore a Kobane; Internazionale. Fonte: ilbibliomane.wordpress.com

Se cadono le montagne?

Zerocalcare non è nuovo alla vicenda curda. Ci racconta infatti del suo viaggio tra il deserto e le montagne del Kurdistan qualche anno dopo l’uscita di Kobane Calling, un reportage a fumetti del viaggio di Michele in Turchia, Iraq e Siria in supporto ai combattenti curdi, un itinerario per comprendere le storie di un popolo in guerra per il proprio diritto ad esistere.

Ed è nell’introduzione del 2020 a Kobane Calling che ci scrive di un detto curdo che recita:

I curdi hanno un solo amico, le montagne.

In effetti nell’immaginario comune le montagne veicolano un significato di protezione e sicurezza. Il freddo e distaccato fascino del monte Fuji ne La grande onda di Kanagawa, qualcosa che è impossibile cada. E allora sembra che in gioco ci sia qualcosa di vitale, così la frase che leggiamo sulla copertina di Internazionale risuona in modo più decisivo e solenne, questa volta come una domanda: e se cadono le montagne?

La grande onda di Kanagawa, famosissima xilografia di Hokusai. Fonte: dueminutidiarte.com

Risposte                                    

La risposta la troviamo all’interno del fumetto: Se cadono le montagne cade tutto. Lapidaria, inscritta su uno sfondo malinconico, si vede una ragazza che siede su una roccia e regge un’arma mentre osserva i compagni che armi in spalla marciano tra le montagne.

Seguendo i dialoghi e le persone che Zerocalcare incontra nel viaggio verso il campo profughi di Makhmour, ci accorgiamo infatti che le montagne dei curdi non sono le montagne delle mappe o del nostro immaginario. Le montagne appiattite delle cartine. Sono le montagne del Pkk, dove si trovano i guerrieri curdi, considerati terroristi dai Turchi, le montagne del confederalismo democratico, le montagne da cui può arrivare l’aiuto.

Ci accorgiamo sfogliando che qualcosa non va nel nostro immaginario, che forse ci sono in gioco dinamiche più complesse a cui forse non abbiamo prestato ascolto. Dinamiche che è difficile districare e comprendere senza affidarsi ad etichette che altri hanno scelto per noi. E leggiamo ancora tra i disegni: “Le storie di guerra sono anche questo, portano con sé cose che non ci piace sentire, che ci fanno fare i conti con la realtà e la coscienza e con quello che siamo disposti ad accettare. Sono più complesse delle favole.”

 

“Se cadono le montagne”, Zerocalcare. Fonte: dalla rivista Internazionale.

Conclusioni

La complessità caratterizza le storie che Zero ci racconta con qualche battuta per alleggerire il carico emotivo.

Se cadono le montagne è una riflessione sulla complessità delle storie, 34 pagine ben riuscite che ci invitano all’ascolto e a superare i confini del – per dirla come farebbe Zero –  “così ho sentito di’ “, contro ogni riduzionismo o semplificazione. Un invito a disegni ad immaginare più da vicino i volti e i contesti, come quello dei campi profughi. Un aiuto a toccare con mano la realtà di chi abita quei luoghi e un modo per provare a prestare ascolto a voci che narrano storie diverse da quelle che siamo abituati a sentire, fuor da “etichette”.

Martina Violante

Dramma in Israele: valanga umana durante una celebrazione religiosa, almeno 44 morti e centinaia di feriti. Problemi nell’organizzazione.

Nella notte tra giovedì e venerdì centinaia di persone sono rimaste coinvolte in un tragico incidente avvenuto in Israele durante le celebrazioni del Lag B’Omer, una festività religiosa ebraica. Almeno 44 i morti e circa 150 i feriti di una “valanga umana” che si è creata durante il pellegrinaggio al Monte Meron, presso la tomba del Rabbi Shimon bar Yoḥai, a cui hanno partecipato – si stima – più di 100,000 persone nella violazione delle norme anti-covid imposte dal governo israeliano.

Nonostante più del 56% della popolazione israeliana abbia ricevuto il vaccino, il rischio di contagio nel Paese rimane ancora possibile – soprattutto con riguardo alle ultime varianti per cui si consiglia la «massima allerta».

Quanto alle dinamiche, inizialmente si pensava ad un crollo di una tribuna allestita nel luogo in cui si teneva un concerto in onore della celebrazione, ma successivamente l’ipotesi è stata smentita. Le probabilità suggeriscono che sia stata la scivolosità della pavimentazione (causata da acqua ed altri liquidi rovesciati per terra) ad innescare l’incidente. Nonostante ciò, le forze dell’ordine stanno ancora indagando sulla ricostruzione dei fatti.

Il Lag B’Omer

La festività è stata istituita il 33° giorno dell’Omar (un’usanza con cui si contano i giorni che decorrono tra la Pasqua ebraica e la Pentecoste) in occasione dell’anniversario della morte del Rabbi Shimon bar Yoḥai (conosciuto come autore dello Zohar, il libro profetico ebraico). Durante questo giorno si ricordano i 24,000 allievi del Rabbi Akiva morti – secondo una versione – a causa di una misteriosa malattia oppure – secondo un’altra versione – durante la grande ribellione contro l’occupazione romana.

Trattasi solitamente di un momento di grande gioia e celebrazione, in quanto vengono sollevate le proibizioni dell’Omer e la popolazione ne approfitta per organizzare feste, matrimoni e falò in pubblica piazza. Come già accennato, migliaia di pellegrini si recano inoltre sul Monte Meron presso la tomba del Rabbi.

I problemi riguardanti l’organizzazione

Dal suo lettino d’ospedale, una delle vittime dell’incidente ha commentato l’avvenimento:

Le persone non respiravano, ricordo di aver sentito tantissima gente gridare: “Non riesco a respirare“.

Alcuni testimoni raccontano di essersi sentiti in un campo di battaglia, mentre alla televisione ricorrono immagini di decine di corpi ricoperti dai teli delle ambulanze.

(fonte: nytimes.com)

Un trauma incredibile per la comunità ebraica che solo nelle ultime settimane era riuscita a vedere uno spiraglio di libertà dall’emergenza pandemica. Tuttavia, un incidente del genere non è nuovo al Paese: già nel 1911 molte persone avevano perso la vita in circostanze simili. Adesso, però, si cercano i responsabili. La polizia è già al lavoro per la ricostruzione della vicenda – spiega Eli Levy, portavoce della polizia -, ma è ancora troppo presto per attribuire delle colpe o parlare di negligenza.

In realtà, già prima del disastro in molti avevano avvertito una forte preoccupazione. Di giovedì due persone sono state arrestate per aver ostacolato la polizia nel mantenere l’ordine ed il rispetto delle restrizioni, ma si tratta di sforzi inutili: la vastità della folla ha impedito qualsiasi intervento delle forze armate.

Ancor prima dell’inizio della celebrazione, il Ministro della Salute israeliano aveva espresso la propria perplessità circa l’evento che avrebbe accolto più di 500,000 pellegrini, definendolo una disgrazia che avrebbe potuto condurre ad uno scoppio del contagio da COVID-19, ma la realtà dei fatti è stata ancor più veloce ed atroce.

Aspre critiche erano già state rivolte nei confronti dell’organizzazione, che aveva istituito solo una stretta uscita da cui far affluire la folla. La disgrazia, sfortunatamente, era già stata annunciata da molte testimonianze.

Le parole degli esponenti politici

Sulla vicenda si sono già espressi moltissimi esponenti politici da tutto il mondo.

Sul fronte internazionale anche il Consigliere per la Sicurezza Nazionale statunitense, Jake Sullivan, ha espresso le proprie condoglianze per la comunità israeliana, così come l’Ambasciatore UE in Israele Emanuele Giaufret.
(fonte: twitter.com)

Profondamente afflitto dalla terribile notizia dei feriti e dei morti alla celebrazione del Lag Ba’Omer sul Monte Meron. Le mie più sincere condoglianze vanno alle famiglie delle vittime ed auguro una pronta guarigione a tutti coloro che sono rimasti feriti.

 

Valeria Bonaccorso

L’ISIS rivendica l’attentato di Baghdad. Tutto ciò che c’è da sapere sulla situazione in Iraq

(fonte: ansa.it)

Giunge a pochissime ore dall’attentato di Baghdad la rivendicazione da parte dell’IS (Stato Islamico).

Il doppio attentato suicida avvenuto ieri in piazza Tayaran, affollatissima sede di un mercato di vestiti usati, ha mietuto almeno 35 vittime lasciandone ferite un centinaio. Diverse sono in condizioni gravi, ha dichiarato il ministro della Salute iracheno Hassan Mohammed Al-Tamimi, prospettando la possibilità che il conteggio aumenti.

Sin dai primi momenti le modalità dell’attentato, avvenuto tramite esplosioni provocate da due kamikaze, hanno fatto pensare che si trattasse di cellule appartenenti al gruppo terroristico dell’ISIS, ma adesso non vi è più alcun dubbio dopo la conferma ottenuta tramite l’app di messaggistica Telegram.

La BBC ha constatato che si tratterebbe del più grande attentato terroristico avvenuto a Baghdad dal 2017, anno della sconfitta militare subita dallo Stato Islamico.

Nel frattempo, l’account Twitter della Farnesina ha dichiarato che l’Italia è

Indignata dalla notizia dell’attentato che ha colpito #Baghdad, porge le sue condoglianze ai familiari delle vittime e augura una pronta guarigione ai feriti. Condanniamo fermamente la violenza contro i civili e sosteniamo il popolo di #Iraq per costruire un futuro pacifico e sicuro.

https://twitter.com/thestevennabil/status/1352184239966486533?s=20

@thestevennabil Il momento del secondo attacco suicida a Baghdad #Iraq

 

Un passo indietro sullo scenario geo-poilitico

Baghdad è la capitale dell’Iraq, uno dei territori che dal 2014 s’impegnano nella lotta contro lo Stato Islamico.

L’Iraq è stato governato per circa 25 anni dal dittatore (così ritenuto) Saddam Hussein, alla caduta del quale – avvenuta ad opera della coalizione anglo-americana durante la seconda guerra del Golfo – è stata istituita una repubblica parlamentare federale.

Dal 2014 al 2017  l’ISIS governa la parte occidentale del suo territorio, fino alla liberazione dalle truppe jihadiste.

Dal 7 maggio 2020 il paese si trova sotto la guida del Primo Ministro Mustafa Al-Kadhimi, fortemente critico del regime di Saddam Hussein ed appoggiato dagli Stati Uniti, che ha dichiarato di voler promuovere la coordinazione e la stabilità politica dello stato.

(fonte: ansa.it)

Gli ultimi anni di Baghdad

Nonostante la dichiarata sconfitta militare del gruppo terroristico, gli attentati a Baghdad continuano.

Già nel 2018 il mercato di Tayaran era stato colpito da un kamikaze, un attacco che era costato la vita a 31 persone.

Il 29 dicembre 2019 l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump opera un raid sulle milizie sciite di Iraq e Siria, le medesime che pochi giorni prima avevano effettuato un attacco alla base aerea irachena K-1 nella provincia di Kirkuk che aveva tolto la vita ad un mercenario statunitense.

A tali eventi, la popolazione irachena risponde assaltando l’ambasciata americana di Baghdad nella giornata del 31 dicembre 2019.

Il 3 gennaio 2020 il presidente USA ordina l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani tramite un attacco con drone statunitense sull’aeroporto di Baghdad.

Il 4 gennaio 2020 si tiene a Baghdad una processione funebre con una forte presenza delle milizie sciite irachene, che manifestavano al motto di «morte all’America, morte a Israele!».

Tra i vari eventi e le successive tensioni militari, attenuatesi poi con l’esplosione della pandemia da COVID-19, il 7 maggio 2020 avvengono le elezioni per il nuovo Primo Ministro iracheno e la scelta ricade su al-Kadhimi, al termine di sei estenuanti mesi di ricerca per un candidato disponibile.

Nella giornata del 20 gennaio 2021, il neo-presidente Joe Biden ha firmato uno dei suoi primi atti esecutivi sollevando il cosiddetto Muslim Ban, l’ordine esecutivo emesso dall’ex presidente Trump nel 2017 che impediva ai cittadini di paesi come la Somalia, Sudan, Iran, Siria, Yemen, Libia e lo stesso Iraq l’ingresso negli Stati Uniti.

 

Valeria Bonaccorso 

Cosa c’è da sapere sull’attacco a Washington e sui motivi dell’assalto al Congresso dei sostenitori di Trump

(fonte: rollingstone.com, inquirer.net)

Tra la sera del 6 e la notte del 7 gennaio (orario italiano), mentre l’Italia si preparava a terminare il periodo di vacanze natalizie, dall’altra parte del mondo – e precisamente negli Stati Uniti – migliaia di persone hanno fatto irruzione a Capitol Hill, sede del Congresso, per interrompere la seduta del Senato che dovrebbe confermare l’elezione di Joe Biden.

Si tratta di un evento che ha scosso gli animi di tutto il mondo, tenendo milioni di persone attaccate ai giornali di cronaca: un vero tentativo di colpo di stato mosso dai sostenitori di destra, repubblicani, che non hanno ancora accettato la sconfitta del presidente uscente Donald Trump.

Diversi sono gli esponenti mediatici – compreso il New York Times – che accusano quest’ultimo di aver infiammato, per lunghi mesi, l’animo degli assaltatori.

Ma cosa è successo? E soprattutto, perché?

Un passo indietro

Novembre 2020. Arrivano i primi risultati delle elezioni presidenziali che vedono un ribaltamento della situazione, con Trump che passa in svantaggio rispetto a Biden in vari stati. Col senno di poi arrivano i primi tweet allarmanti del Presidente: essi accusano i democratici di frode elettorale e vengono prontamente censurati dal creatore di Twitter.

Dopo giorni di estenuante attesa, si ottiene un vincitore. È Joe Biden, il quale passa da un margine sottile di distacco ad una vittoria schiacciante. Ma tale realtà non verrà mai accettata dal presidente uscente, che dichiarerà in più occasioni di non voler concedere al neo-eletto la vittoria. I nervi sembrano tendersi incredibilmente all’interno degli States, con divisioni che appaiono inconciliabili.

Al 6 gennaio è fissata la votazione del Senato che necessita di confermare i 270 elettori di Biden per concedergli la Casa Bianca. S’inizia a nutrire il sospetto che le elezioni possano venire sabotate, ma nessuno sembra apprestare ulteriori misure di sicurezza.

Nel frattempo, le elezioni senatoriali in Georgia consegnano ai dem altri due seggi: si tratta di Jon Ossoff e Raphael Warnock. Così, il bilancio dei senatori raggiunge un perfetto 50-50 tra democratici e repubblicani. In tali condizioni, la legge americana prevede che voti anche il vicepresidente degli Stati Uniti (in tal caso, la neo-eletta Kamala Harris).

Si verifica la conquista da parte dei democratici dei tre punti politici essenziali: Casa Bianca, Senato, Camera (con elezioni che si sono verificate contestualmente a quelle presidenziali).

La simpatia per i suprematisti bianchi

Tutto questo cumulo di eventi ha condotto a quello che molti stanno definendo come “la naturale evoluzione della supremazia bianca“.

Il binomio Trump-Supremazia bianca ha sempre avuto senso dal punto di vista degli oppositori, ma a partire dagli eventi di giugno che hanno visto la sanguinolenta repressione del movimento Black Lives Matter molte più persone si sono convinte della correlazione esistente tra i due soggetti. Specie dopo l’esplicito appoggio di Trump ai Proud Boys, gruppo dichiaratamente suprematista.

(fonte: euractiv.com)

 

Uno sguardo su Capitol Hill

I rivoltosi che questa notte hanno fatto irruzione al Congresso sono riusciti a travolgere le esigue forze di polizia stanziate, costringendo chiunque si trovasse all’interno a barricarsi nei locali per sfuggire alla furia repubblicana. Una donna ha perso la vita durante uno scontro con le forze armate per via di una grave ferita da arma da fuoco.

Dopo essere riusciti a penetrare nella sede, il vicepresidente Mike Pence ha da solo disposto che intervenisse la Guardia Nazionale (la stessa che contribuì a sedare gli eventi di giugno) dopo un iniziale rifiuto di dispiegare tale forza.

La situazione si è attenuata attorno alle due di notte (ora italiana) con l’evacuazione dei civili e la ripresa della seduta di conferma elettorale. Al momento, sono stati certificati 306 voti al collegio elettorale di Joe Biden e la sua vittoria alle elezioni presidenziali. L’insediamento avverrà il 20 gennaio 2021.

(le guardie difendono l’entrata barricata dell’aula del Congresso, fonte: mercurynews.com)

La reazione del web e le critiche alle forze armate

Hanno commentato la vicenda in diretta milioni di utenti che hanno espresso il proprio ripudio nei confronti di un tale gesto, da Joe Biden allo stesso Mike Pence.

La violenza e la distruzione che stanno avendo luogo al Congresso Devono Fermarsi e devono fermarsi Ora. Chiunque sia coinvolto deve rispettare le forze dell’ordine ed abbandonare il palazzo immediatamente.

Una delle critiche più aspre mosse nei confronti delle forze di polizia consisterebbe nel trattamento di favore ricevuto dai rivoltosi di gennaio rispetto a quelli di giugno, poiché non neri o comunque non a favore del movimento Black Lives Matter. La docilità delle forze armate nei confronti di tali soggetti ha insospettito gran parte dei seguaci della vicenda.

A ciò si aggiunga un video incriminante di due individui intenti a riprodurre, sulle scale del Congresso, l’orribile scena dell’omicidio di George Floyd avvenuta a giugno.

La reazione di Trump, benché non espressamente di approvazione, sarebbe stata invece molto più di supporto:

Si tratta di un livello di comprensione insolito per il presidente uscente, il quale a giugno non perse attimo per denunciare i manifestanti a favore del BLM come dei vandali e terroristi. Il social ha prontamente censurato i successivi messaggi ed ha anche espressamente disposto la sospensione dell’account del presidente uscente nel caso in cui non li cancelli tempestivamente.

Ma le rogne di Trump non terminano qui: nei giorni scorsi è stato infatti emesso un altro mandato di arresto da parte dell’Iran, ancora profondamente scosso per l’uccisione del generale Soleimani.

Infine, tra le tendenze mondiali spicca l’hashtag #25thAmendmentNow, un invito ad applicare il venticinquesimo emendamento della Costituzione statunitense che prevede la procedura d’impeachment.

Una prospettiva europea

A condannare un evento del genere si sono devoluti pure esponenti politici europei come il presidente Pedro Sánchez. Anche l’Italia ha reagito a tale evento, rinvenendo immediatamente una somiglianza di tali gesti con la Marcia su Roma compiuta dai fascisti il secolo scorso.

Intanto, le parole dei nostri politici non si sono fatte attendere. Tra i molti che sono intervenuti ricordiamo Nicola Zingaretti, Matteo Renzi ed il premier Giuseppe Conte.

 

Valeria Bonaccorso

La Cina stringe su Hong Kong, quattro deputati dell’opposizione destituiti

Duro colpo per la democrazia di Hong Kong: nella settimana del 9 novembre quattro deputati democratici dell’opposizione sono stati destituiti con l’accusa di aver praticato un “ostruzionismo” che avrebbe messo a rischio la sicurezza nazionale.

(fonte: ilpost.it)

La motivazione

La colpa dei quattro membri dei parlamento sarebbe di aver richiesto che i governi esteri sanzionassero gli atteggiamenti repressivi delle forze armate di Hong Kong e di Pechino.

L’accusa del “non patriottismo” degli oppositori è stata vista dalla popolazione di Hong Kong (già incredibilmente provata) come una scusa del Comitato Centrale Comunista per sbarazzarsi degli elementi ‘scomodi’ e ‘filo-indipendentisti’ del sistema; un sistema che già da anni risente delle spinte centralizzanti ed autoritarie del governo cinese.

Tuttavia, il tentativo di sfaldare la posizione dei democratici sembra non essere andato a buon fine: a seguito dell’accaduto, i restanti 15 deputati dell’opposizione hanno rassegnato le dimissioni al Legislative Council, l’organo legislativo di Hong Kong composto da 70 seggi di cui ben 29 (un buon numero, se si considera che la metà dei seggi è sempre riservata ad esponenti filo-cinesi) erano stati conquistati dai democratici nelle elezioni del 2016.

Di questi, circa 8 sono stati espulsi già negli scorsi anni per i medesimi motivi.

Da quanto risulta, la governatrice Carrie Lam (fortemente vicina al governo cinese) non prospetta delle elezioni suppletive ed afferma che il LegCo possa perfettamente funzionare anche senza un’opposizione – che, solitamente, nei sistemi democratici rappresenta l’ago della bilancia necessario all’equilibrio dei poteri in campo.

Il provvedimento è stato adottato per via di una risoluzione del C.C.C. che consente di destituire i membri del parlamento ritenuti un pericolo per la sicurezza nazionale senza bisogno di passare da un tribunale.

L’episodio è stato commentato dagli oppositori in protesta:

E’ il giorno più triste, Hong Kong da oggi mostra al mondo che non esiste più il principio Una Cina, Due Sistemi

(Corriere della Sera)

Ma in cosa consiste il principio “Una Cina, Due Sistemi”? Per comprenderlo, è giusto ripercorrere la storia di Hong Kong dai suoi inizi.

(i quattro deputati destituiti – fonte: corriere.it)

Un Paese, Due Sistemi

La regione autonoma è composta dall’isola principale (chiamata appunto Hong Kong), dalla penisola di Kowloon, dai cosiddetti Nuovi Territori e da più di 200 altre isole, di cui la più grande è Lantau. Colonia britannica fino al 1997, passò poi sotto il controllo della Cina pur mantenendo, inizialmente, un forte margine di autonomia in campo economico, amministrativo e giurisdizionale.

Tale autonomia fu sancita dal principio Una Cina, Due Sistemi contenuto nella Dichiarazione congiunta sino-britannica firmata nel 1984: da un lato viene ribadita l’unità nazionale della Cina, dall’altro viene riconosciuta l’autonomia di Hong Kong.

In particolare, la Dichiarazione prevedeva il passaggio di tutti i territori di Hong Kong sotto il potere della Cina a partire dal primo luglio 1997 e l’impegno di quest’ultima a mantenere invariato il sistema economico e politico della città per almeno 50 anni, fino al 2047, per garantire un passaggio tranquillo al sistema comunista cinese.

Tuttavia, la regione autonoma si presenta diversa rispetto alla Cina continentale sotto molti aspetti; questo, assieme agli interventi molesti ed anticipati del regime, ha reso molto difficile l’integrazione dei quasi 7 milioni di abitanti di Hong Kong col resto della popolazione cinese, facendo prospettare più una “colonizzazione” che un’integrazione.

Col passare del tempo, la Cina è riuscita ad infiltrarsi nel sistema economico, politico e giudiziario della regione tramite una serie di atti volti a violarne l’autonomia. Le reazioni non sono mancate.

La protesta degli ombrelli

Nell’estate del 2014 venne approvata una riforma elettorale che prevedeva, a partire dal 2017, la pre-approvazione del Comitato elettorale (un collegio di 1200 persone pesantemente controllato dal governo cinese) di un massimo di tre candidati per il ruolo del Capo dell’esecutivo, che una volta eletto dalla popolazione sarebbe stato formalmente approvato dal governo centrale.

Tale riforma costituiva una forte limitazione della libertà politica ed il malcontento si trasformò presto in reazioni dapprima pacifiche, peraltro comunque represse dalle forze armate tramite l’uso di spray al peperoncino e cannoni ad acqua – da qui l’uso degli emblematici ombrelli, utilizzati come scudi per difendersi dagli attacchi dei poliziotti e che ancora connotano le lotte della popolazione.

Tra i manifestanti, emerse subito la gioventù studentesca rappresentata da Joshua Wong. Ad oggi, allo studente è vietata la possibilità di candidarsi alle elezioni poiché ritenuto pericolo nazionale.

A partire da questa protesta (che terminò con 955 persone arrestate), gli scontri s’intensificarono sempre più fino a giungere alle sedi governative.

Le ultime proteste

A giugno 2019, Hong Kong si è resa protagonista di nuovi scontri civili scoppiati a seguito di una proposta di emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvata dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni gravi reati.

Migliaia di persone sono scese in piazza per impedire l’approvazione dell’emendamento che, se strumentalizzato, potrebbe permettere alla Cina di utilizzarlo contro i suoi oppositori.

Infine, da maggio 2020, in piena pandemia di coronavirus, i manifestanti si sono ritrovati in un centro commerciare per richiedere le dimissioni della governatrice Carrie Lam. Anche in questo caso gli scontri sono terminati in una forte repressione degli agenti di polizia, che hanno arrestato più di 200 persone con l’accusa di assembramento.

(fonte: scmp.com)

Pare che gli ultimi avvenimenti non lascino ad Hong Kong spiraglio di democrazia e la fine del sogno capitalista sembra sempre più vicina: ciò non smentisce, però, la tenacia della popolazione a preservare la propria libertà di autodeterminazione.

 

Valeria Bonaccorso 

Turchia in fiamme: la lettera degli studenti che denuncia gli attacchi terroristici

(fonte: hurriyetdailynews.com)

 

Più di 400 ettari di verde sono stati devastati negli incendi scoppiati tra il 9 e il 10 ottobre nella provincia di Hatay (Turchia): nel silenzio delle autorità, la gente è convinta che si tratti di attacchi terroristici.

Già nel mese di settembre la medesima regione era stata colpita da un incendio che aveva raso al suolo 150 ettari di terreno nelle zone di confine con la Siria, tra le città di Antiochia e Samandağ.

La lettera dei residenti di Hatay

Giorno 10 ottobre, i cittadini stremati hanno deciso di lanciare un appello tramite una lettera con cui Eren Buğra Biler, portavoce della popolazione di Hatay, ci ha informato delle condizioni in cui riversa la sua regione.

Innanzitutto, questo incendio non è un disastro naturale o una qualche disgrazia divina. Tutto sta avvenendo di proposito.

Così recita l’articolo, subito dopo una premessa che vuole scongiurare alcun tipo di propaganda politica di parte.

“Il primo incendio è scoppiato ad İssume e tutti credevano che fosse dovuto ad un guasto del trasformatore elettrico, poi si è espanso fino ad una foresta ove ha distrutto più di 300 ettari di terreno. Proprio quando il fuoco è stato posto sotto controllo e tutti credevano di poter tirare un sospiro di sollievo, un nuovo incendio è scoppiato a 100 metri di distanza causando la distruzione di altri 100 ettari.”

Secondo Biler, sarebbe attribuibile al vento (che quel giorno viaggiava a 75 km/h) la causa dell’espansione delle fiamme, che in poco tempo hanno raggiunto i centri abitati di Nardüzü, Karahüseyinli e Karaağaç.

(I centri abitati interessati dagli incendi, provincia di Hatay – fonte: citypopulation.de)

 

“Sembra tutto abbastanza naturale per un incendio, non è vero? Successivamente un nuovo incendio è divampato a 3 km dal primo, a Çankaya, ma fortunatamente è stato subito domato. Ancora un altro è scoppiato a 2 km dai primi due e, mentre il primo si diffondeva ancora, ne sono divampati l’uno dopo l’altro.

E così, quando otto zone diverse hanno preso fuoco, la gente ha capito che non si trattava affatto di un disastro naturale. Mentre il governo e il consiglio cittadino non davano alcun tipo d’informazione, non c’erano più dubbi che si trattasse di un attacco terroristico.”

I dati e le dichiarazioni delle autorità

Più di trecento persone, cinquanta camion dei pompieri e due elicotteri sono stati impiegati per domare le fiamme e trecento civili sono stati evacuati dai centri residenziali coinvolti nel disastro.

Il sindaco del distretto, İbrahim Gül, ha in seguito dichiarato all’Anadolu Agency (un’agenzia di stampa di proprietà del governo turco) che si sospetta si tratti di incendio doloso. Quattro sono i sospetti fermati.

Il Daily Sabah, quotidiano pro-governo turco, ha dichiarato che ‘Figli del Fuoco’, un gruppo legato al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, avrebbe di recente rivendicato gli attacchi.

Il messaggio di speranza

Mentre le autorità locali sono impegnate a ricercare i responsabili del danno, l’autore della lettera invita il maggior numero di persone possibili ad unirsi e non perdere la speranza:

“Migliaia di alberi, centinaia di animali sono andati perduti. Non è il momento di sprecare energie ad odiare questi terroristi, è il momento di supportare moralmente i residenti di Hatay. Dobbiamo unirci, dobbiamo riguadagnare la nostra forza, non possiamo rinunciare, gli uni hanno bisogno delle parole degli altri. Dobbiamo essere un’anima e un corpo per superare questo disastro!”

Il Ministro dell’Agricoltura, Bekir Pakdemirli, ha affermato che nessuno degli ettari bruciati verrà destinato ad utilità diverse dalla precedente. Cinque milioni di alberelli verranno piantati nelle zone interessate dagli incendi ed un evento di piantagione di massa, il ‘Breathe Into Future’, è stato programmato per l’11 novembre 2020.

 

(fonte: twitter.com)

 

Come aiutare?

L’autore della lettera ha lasciato l’indirizzo di due pagine Instagram da cui è possibile trovare nuovi aggiornamenti sulla situazione di Hatay: Iskenderuntube ed Hataytube.

In vista dell’evento dell’11 novembre, è stata lanciata la piattaforma ufficiale del Geleceğe Nefes (Breathe Into Future) a cui è possibile aderire affinché un alberello venga piantato nella zona della mappa che più si desidera. Al momento, la partecipazione nella regione di Hatay è del 90%, con più di 1.400.000 alberelli piantati.

Si tratta di un’iniziativa accessibile a tutti che mira a piantare circa 83 milioni di alberi in tutta la Turchia.

 

Valeria Bonaccorso

 

 

Le 25 canzoni da ascoltare durante le feste. La compilation di UniVersoMe

 

Sta per calare il sipario anche quest’anno.
Abbiamo pensato, per aiutare tutti a superare queste feste, tra una fetta di pandoro e una di panettone,  di selezionare 25 canzoni italiane e internazionali di Natale tra le più belle di sempre.

Così da accompagnare la digestione e farci entrare un po’ di più nello spirito natalizio.

O almeno questo è l’auspicio.

Scopriamole a partire dall’ultima, andando a ritroso in un viaggio tra suoni, generi, temi e stili diversi. Ce n’è davvero per tutti i gusti. Pronti? Via!

 

 

  1. Natale allo zenzero – Elio e le storie tese: 

Nella raccolta a tema, pubblicata in album nel Natale 2016, Elio e le storie tese mettono sul piatto gli elementi necessari per scrivere una canzone di Natale. L’ingrediente fondamentale non è il presepe o Gesù bambino, bensì lo zenzero.

 

  1. Last Christmas – Wham!: 

Il brano inizialmente doveva essere intitolato Last Easter ed uscire a Pasqua, ma i Wham!, il cui leader era George Michael, decisero invece di sfornarlo appena in tempo per il Natale del 1984. E ad oggi non può mancare in nessuna compilation.

 

  1. Le luci di natale – 883: 

Una delle canzoni a cui siamo più affezionati. I ricordi di infanzia accessi dalle luci colorate di Natale evocate nel ritornello da Max Pezzali.

 

  1. Xdono (Perdono) – Tiziano Ferro: 

Sono passati 16 anni da quando le radio trasmettevano a profusione la hit di Tiziano, tra le canzoni pop italiane forse più azzeccate dell’ultimo quarto di secolo. Un testo che guarda all’anno appena trascorso; richiamo ai nostri migliori anni che non abbiamo voluto omettere.

 

  1. Christmas Bop – Marc Bolan & T. Rex: https://www.youtube.com/watch?v=YXPTiAuWEew

L’estate è andata e la neve è caduta. Il padrino per eccellenza del glam Marc Bolan non vide mai uscire questo brano che venne pubblicato, solo dopo la sua morte, nel 1982. Ma i “T.Rexmas” invitano tuttora gli ascoltatori a non trascurare il fatto che a natale non si può non ballare.

 

  1. Don’t believe in Christmas – The Sonics:

Il rock scardina certezze. Lo sanno bene i Sonics che nel 1965 vengono drammaticamente a patti con la realtà: Santa Claus non è sceso dal camino, anche se sono rimasti svegli fino a tarda notte ad aspettarlo. Da quel momento in poi Roslie&Co smetteranno di credere al Natale.

 

  1. Sante Nicola – Vinicio Capossela: 

Ve ne avevamo parlato in occasione del concerto a Messina. Nel 2008 venne pubblicato Da Solo, disco in cui Vinicio inserì questa fiaba natalizia su Santo Nicola, personaggio che porta in dono l’eloquenza, cioè la capacità di comunicare e scaldarci il cuore aprendoci agli altri.

 

  1. Merry Something – Devo: 

Poche ciance: un minuto e mezzo bastano per fare gli auguri a tutti a nome dei Devo. “Whether you’re christian, muslim or jew. Happy Holidays!”

 

  1. Blue Christmas – Low: 

Anche gli indie Low nel 1999 hanno fatto uscire, sulla scorta delle grandi compilation del rock, un disco dedicato al riarrangiamento di alcuni brani storici della tradizione natalizia, accompagnati da pezzi originali della band. Blue Christmas è una canzone statunitense scritta nel 1948 da Billy Hayes.

 

  1. Frosty The Snowman – Cocteau Twins: 

Gli alfieri del dreampop non si sono astenuti dal dichiarare un loro tributo alla festività del Natale. Il brano Frosty the Snowman, altro standard del periodo, viene riplasmato attraverso le estensioni vocali di Elizabeth Fraser: la 35 esima migliore canzone delle feste di tutti i tempi per la webzine Pitchfork.

 

  1. All I want for Christmas – The Yeah Yeah Yeahs: 

Una deliziosa canzone su cosa desiderare di più al mondo quando è natale. Per gli Yeah Yeah Yeahs, che nell’occasione sfoggiano una mise natalizia con coniglietti e altri animaletti addobbati per le feste, c’è solo il proprio/a fidanzato/a.

 

  1. Quale Allegria – Lucio Dalla: 

Natale, come sappiamo bene, non è solo allegria e compagnia di parenti e amici. A consumarsi c’è spesso anche la piaga della solitudine che Lucio Dalla, in questo bellissimo brano contenuto in Come è profondo il mare, mette in primo piano attraverso la figura di Andrea, ucciso 15 volte per 15 anni la sera di Natale.

 

  1. Put the lights on the tree – Sufjan Stevens: 

Box interamente dedicato al Natale quello del cantautore americano Sufjan Stevens. Pubblicato nel 2006, Song for Christmas, è un trionfo di armonizzazioni e suoni per le feste composto da 42 pezzi. Da ascoltare d’un fiato almeno una volta entro il giorno della befana.

 

  1. Are you coming over for Christmas? – Belle & Sebastian: 

Programmi fissati per il 25 dicembre? I Belle and Sebastian hanno le idee (abbastanza) chiare. Passarlo tra tetti di ardesia fredda che brillano alla luce delle stelle.

 

  1. Merry Christmas (I don’t want to fight tonight) – Ramones: https://www.youtube.com/watch?v=tN2NNwZ1op8

A Natale sono tutti più buoni. Persino i Ramones. Basta litigare. Peace, love e rock’n roll.

 

    10. Canzone per Natale – Morgan: 

Da Canzoni dell’appartamento, album solista di Marco Castoldi del 2003, un’emozionante brano sull’alienazione personale e il risvolto consumistico delle feste. Per sognare di festeggiare.

 

  1. Leggenda di Natale – Fabrizio de Andrè: 

Il periodo invernale, nella silloge di storie degli sconfitti cantata da De Andrè, è la stagione in cui si consuma un crimine da parte di un babbo natale senza scrupoli nei confronti di una bambina innocente. Capolavoro tratto dall’album Tutti morimmo a stento e ispirato a Brassens.

 

  1. December, 1963 (oh what a night) – The Four seasons: https://www.youtube.com/watch?v=nDxhugRKZ8g

Canzone della nostalgia per le amorose imprese giovanili di un fantomatico dicembre del 1963 (uscito nell’album Who Loves You in piena disco music) del gruppo italo-americano di Frankie Valli, recentemente omaggiato nel film Jersey Boys da Clint Eastwood e noto al grande pubblico giovanile per il brano Beggin’.

 

  1. Natale – Francesco De Gregori: 

    C’è la luna sui tetti, c’è la notte per strada, le ragazze ritornano in tram. Intimo manifesto metropolitano dell’allegra tristezza cantato dal cantautore romano e contenuto nel disco omonimo del 1978.

 

  1. Marshmallow world – Darlene Love (Phil Spector):  

Ancora nel 1963 Phil Spector, noto produttore discografico (lavorò coi Beatles e portò alla ribalta numerose band negli anni ’60, tra cui the Ronettes), fece uscire la compilation di vari autori intitolata A Christmas Gift for you. Una pietra miliare per tutti i dischi natalizi, dal quale abbiamo selezionato Marshmallow world.

 

  1. Il Natale è il 24 – Piero Ciampi: 

Per quinto il tassello abbiamo riservato un posto d’onore a Piero Ciampi. Cantautore di Livorno, ebbe un cammino burrascoso lontano dai riflettori ma cosparso dalla produzione di gemme che hanno ridefinito il concetto stesso di musica d’autore. Come questa, dove c’è Gianna che ha un cuore molto strano.

 

  1. Wonderful christmastime – Paul McCartney: 

Saliamo di un gradino e troviamo Paul McCartney. Pubblicato nel 1980 McCartney II è il quattordicesimo disco solista dell’ex Beatle. L’album fa incetta di sintetizzatori e suoni, sulla scia della coeva elettronica, che il nostro trasferisce magistralmente anche in un brano sul Natale presente nella ristampa del 2011.

 

  1. Silent Night – Can: 

    Il terzo posto del podio spetta ai Can, storica band tedesca che insieme ai Kraftwerk ha posto le basi del krautrock. Ci siamo divertiti scegliendo un’insolita Silent Night, rigorosamente in chiave elettronica.

  1. E’ nato, si dice – Pierangelo Bertoli: 

    Eccoci qui. Alla fine abbiamo eletto la canzone di Pierangelo Bertoli come brano italiano per eccellenza di ogni ricorrenza natalizia. E’ nato, si dice contiene un testo di una lucidità enorme che ridicolizza le ottuse esteriorità e i fronzoli delle feste con grande divertimento e ironia.

 

     1. Little Saint Nick – Beach Boys:


Dalle onde della surf music alla compilation sotto l’albero. I Beach Boys trasposero, con anticipo sulle sinfonie che poi trovarono perfetto compimento in Pet Souds (1966), i cori le armonie e riverberi della loro produzione in un disco di cover di Natale; uno dei più importanti della storia del rock. The Christmas album vide la pubblicazione nel 1964, e questa che abbiamo scelto è la traccia di apertura.

 

Eulalia Cambria

 

 

NMUN 2017

Si è conclusa la simulazione dell’assemblea generale dell’ONU.

Il NMUN (National Model United Nations) è un progetto indirizzato a studenti universitari di tutto il mondo il cui scopo è quello di consentire loro di confrontarsi su tematiche attuali di diritto internazionale, rispettando le regole di procedura che disciplinano le riunioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

La finalità di questo progetto è quello di promuove il rispetto reciproco e il lavoro di squadra. Affinché gli studenti possano immergersi nella complessità di far coincidere i divergenti e spesso contrastanti interessi degli Stati, sviluppando le capacità di mediazione e dibattito essenziali per la risoluzione di ogni controversia internazionale.

La delegazione dell’Università di Messina quest’anno rappresentava la Repubblica di Nauru , stato insulare dell’Oceania, indipendente dal 1968.

I complimenti vanno a tutta la delegazione. Gli studenti Giuseppe Parisi e Simone Greco si sono distinti e sono stati premiati per il loro position paper. Eccoli qui felici e sorridenti: 

 

Ad maiora e alla prossima simulazione!

Arianna De Arcangelis