Dagli studenti per gli studenti: conchiglie e coralli spariranno?

Avrete sicuramente tenuto in mano almeno una volta delle conchiglie o visto dei coralli. Sebbene ci sembrino affascinanti, ciò che le costituisce è banalmente carbonato di calcio (CaCO3). Ciò di cui andramo a parlare, è il forte legame che c’è tra questa molecola e il surriscaldamento globale. Sorprendentemente il motivo è da ricondursi all’acqua dei mari e, in generale, a tutti i corpi d’acqua disseminati nel globo.

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Anche i coralli non se la vedono bene

Partiamo da una parentesi sui coralli. Avete presente quelle splendide creature che assumono svariati colori nei fondali marini? Sarebbe un peccato se perdessero il loro colore, giusto? Ebbene, il surriscaldamento globale sta portando al loro completo sbiancamento, negli ultimi 30 anni i biologi hanno verificato una diminuzione del 50% di coralli colorati nella famosissima Grande Barriera Corallina (coste al nord-est dell’Australia). Questo è legato al pH (un parametro utilizzato in tutto il mondo per indicare l’acidità di un liquido) che negli ultimi decenni è sceso drasticamente: questo significa che l’acqua degli oceani sta diventando sempre più acida.

Raffigurazione del passaggio di un corallo in salute, ad uno sbiancato per effetto delle acque inacidite, ad uno morto. Fonte

Perché la colpa è di quel 1,5°C in più?

I sistemi acquatici, in cui abitano conchiglie e coralli, sono tra i più complessi e articolati, le reazioni chimiche che avvengono in ogni istante sono innumerevoli e basterebbe una minima variazione della temperatura per stravolgere gli equilibri chimici che si instaurano al loro interno. Perché, però, una temperatura più alta dovrebbe rendere più acida l’acqua? Per spiegare questo dobbiamo spostarci su un altro parametro fondamentale: la solubilità.

La CO2 e le conchiglie

Ebbene sì, anche qui si parla di anidride carbonica. Sappiamo bene che la sua concentrazione nell’aria è aumentata e questo, combinato all’innalzamento delle temperature, non fa altro che aumentare la sua concentrazione nelle acque, sostituendosi all’ossigeno libero nell’acqua. Questo causa problemi alla respirazione degli animali acquatici e di conseguenza la moria delle creature più sensibili (non sopravvivono se l’ossigeno non è almeno 5 ppm o milligrammo di Ossigeno per chilogrammo di acqua marina); per giunta i corpi esanimi di queste creature si decompongono nei fondali consumando altro ossigeno.

Il materiale organico in decomposizione lo individuiamo come CH2O che consumando ossigeno libera altra CO2.

 

C’è un altro problema, l’ossigeno che torna in acqua dall’atmosfera è un processo lento. Concluso il discorso sulla solubilità della CO2 che influenza quella dell’ossigeno O2 torniamo a parlare di carbonato di calcio.

Reazione chimica che spiega la dissoluzione del carbonato di calcio. Inoltre indica come sia proporzionale la quantità di calcio nell’acqua rispetto a quella di anidride carbonica. Disegnato con Chemdraw.

È tutta questione di equilibri

Se è vero che sta scendendo il pH, allora questa acidità dovrebbe “sciogliere” con un po’ più di forza i corpi solidi, e infatti è così. Tutte le specie chimiche carbonatiche sono rese più solubili, e gli ioni Ca2+ liberi in acqua aumentano. Nel caso di acque a contatto con molti materiali carbonatici (dovuti a sedimenti, conchiglie, minerali, rocce, ecc) avremo pH pari a 9,9

 

Questa reazione dimostra come il pH sia più basico in acque calcaree

Mentre un’acqua che ha assorbito dall’atmosfera una quantità rilevante di anidride carbonica darà un pH più acido che si aggirerà a 8,29.

Reazioni che dimostrano l’acidità dell’anidride carbonica. La reazione più importante è l’ultima, poiché mostra l’instabilità dell’acido carbonico che si dissocia per dare 2 ioni idrogeno.

Notiamo quindi che nel popolo di specie chimiche si va ad aggiungere lo ione carbonato (CO3) dato non solo dai corpi solidi di cui abbiamo già parlato, ma anche dall’anidride carbonica stessa. La CO2 ha vitale importanza nei sistemi acquatici, dopo essersi convertita nello ione CO3, in quanto questo è tra le risorse primarie di cui le alghe fanno uso per crescere.

Esistono anche “equilibri tampone”

In ogni caso, i corpi d’acqua marini non sono sistemi semplici – come abbiamo già detto – e in questi vi sono delle reazioni che contrastano l’acidità generata da agenti esterni a loro stessi. Questa capacità di neutralizzare gli acidi è determinabile da un parametro chiamato alcalinità. Si può determinare da misurazioni analitiche che sommano tutte le specie chimiche che neutralizzano i composti acidi. Stiamo parlando di tutti quei composti dalla debole e forte basicità (potremmo dire che basico è un composto che fa salire il pH di una soluzione), come: gli ioni carbonato CO3, ioni bicarbonato HCO3, ioni idrossido OH; e sottraendo a questi, le concentrazioni di tutti i composti acidi presenti nel corpo d’acqua. È chiaro però che questi sistemi possano funzionare fino ad un certo punto, la capacità “autopurificante” dei mari dipende da una serie di fattori che non sono artificialmente controllabili.

Le prime 3 righe descrivono le reazioni che svolgono le specie chimiche per neutralizzare gli acidi. In basso abbiamo la definizione matematica di alcalinità. Si utilizzano le parentesi quadre per parlare di concentrazioni dei corrispettivi contenuti.

Abbiamo quindi compreso come gli equilibri cambiano per piccole variazioni come la semplice temperatura o la concentrazione di CO2. L’ossigeno disciolto in acqua che diminuisce comporta a materiale organico che richiama altro ossigeno per decomporsi che a sua volta genera altra CO2. Quest’ultimo è dato anche dal contributo atmosferico la cui situazione sappiamo non essere rosea.


Salvatore Donato

 

Bibliografia

lecopost.it

Corriere.it

S. E. Manahan, Chimica dell’Ambiente, Piccin 2000

Nord Stream: gas in mare e danni all’ambiente

Il caso Nord Stream ha avuto un forte impatto a livello mediatico, principalmente a causa delle implicazioni politiche dell’evento. Vi è, però, un altro aspetto importante da analizzare, relativo alle conseguenze ambientali. L’accaduto si inserisce, infatti, in un quadro ben più grande che è quello della già critica situazione climatica attuale.

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Nord Stream: di cosa si tratta

I gasdotti Nord Stream sono condutture che partono dalla Russia attraversando il Mar Baltico per oltre 1200 chilometri per poi giungere in Germania. Possono trasportare fino a 110 miliardi di metri cubi di gas, sufficienti ad alimentare 26 milioni di case.
Tra il 25 e il 26 settembre di quest’anno i sismologi danesi e svedesi hanno registrato due forti esplosioni in mare nei pressi dell’isola di Bornholm. La prima alle 2:03 di notte con magnitudo 1.9, la seconda di 2.3 alle 19:04. Le cause della perdita sono ancora da discutere, nonostante circolino varie speculazioni sull’evento, che si interseca nel complesso panorama politico mondiale.
Nei giorni successivi sono circolate numerose immagini del gas che ribolliva sotto la superficie marina.
In totale sono state ben quattro le perdite rilevate, di cui due hanno interessato il Nord Stream 2 e il Nord Stream 1. Nessuno dei due gasdotti era operativo, ma entrambi contenevano gas pressurizzato. Nel Nord Stream 2, in particolare, scorrevano al momento delle perdite 177 milioni di metri cubi di gas naturale.
Gli strumenti di monitoraggio hanno identificato, già dai primi giorni, enormi nubi di metano in movimento verso la Svezia e la Norvegia.

Fonte: https://www.google.com

Il problema della manutenzione

Gli incidenti ai gasdotti Nord Stream hanno portato in primo piano il tema della difesa delle infrastrutture critiche.
Quelle sottomarine, infatti, possono essere particolarmente vulnerabili ai danneggiamenti, sia per cause naturali che per attacchi fisici.
Hans Tino Hansen, amministratore delegato di Risk Intelligence, sostiene che per proteggere le infrastrutture sottomarine è necessario creare sistemi capaci di rilevare automaticamente i guasti e i problemi delle apparecchiature. Inoltre, è fondamentale assicurarsi che ci siano strumenti, come i droni subacquei, in grado di raggiungere i siti per ispezionarli nel caso di danni.
Anche l’italiano Paolo Cristofanelli, ricercatore presso il Cnr-Isac concorda, sostenendo che “I processi di estrazione e distribuzione del metano rappresentano una delle sorgenti più rilevanti di emissione e le perdite di questo gas richiedono determinate attenzioni, perché hanno un effetto significativo sul peggioramento dell’effetto serra. Episodi come questo evidenziano l’importanza di poter contare su strumenti di monitoraggio validi”.

Fonte: https://www.google.com

Danno ambientale

Gli scienziati stanno ancora discutendo quali saranno i danni provocati all’ambiente dalle perdite Nord Stream. In particolare,emergono pareri contrastanti riguardo la gravità che l’evento avrà sull’atmosfera e sui cambiamenti climatici .
Joe von Fischer, esperto di biogeochimica dell‘Università del Colorado, spiega come “Quando il metano è rilasciato nella parte inferiore di un bacino molto profondo, viene quasi completamente ossidato dai batteri metanotrofici (che si nutrono, cioè, di metano) presenti nella colonna d’acqua”. Potrebbe, quindi, degradarsi in parte prima di arrivare in atmosfera, lasciando dietro di sé “solo” CO2, molto inquinante, ma meno potente come gas serra.
La quantità può, però, fare la differenza. Secondo Grant Allen, scienziato ambientale dell’Università di Manchester, le perdite potrebbero essere così ingenti e la colonna di gas in acqua così pura e violenta da rendere difficile ai batteri una qualunque azione mitigatrice.

Fonte: https://www.google.com

Le emissioni aumentano

Le stime del Nilu (Norwegian Institute for Air Research) presumono una perdita dai gasdotti Nord Stream variabile tra 40000 a 80000 tonnellate. Se fossero confermate si tratterebbe di circa l’1% di ciò che emette annualmente l’Europa in attività di produzione e uso di combustibili fossili.
Tale dato mette in luce che ogni giorno il nostro continente disperde nell’ambiente circa un terzo di quanto perso dai gasdotti in questo periodo. Si tratta di stime rilevanti che aprono una riflessione più ampia sul tema.
Ogni anno le emissioni aumentano, raggiungendo nuovi record. Nel 2021 vi è stato il picco massimo di 1910.8 ppb, mai avuto prima d’ora.
Secondo le stime della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), il metano oggi è due volte più abbondante in atmosfera rispetto a prima della Rivoluzione Industriale.
A destare preoccupazione, tuttavia, è il ritmo di crescita: tra il 2020 e il 2021, infatti, sono stati registrati aumenti annuali rispettivamente di 15,27 e 16,99 ppb, mai così alti dall’inizio delle misurazioni.
Ciò non riguarda “solo” il riscaldamento globale. Il metano è un potente inquinante atmosferico che incide sulle morti premature, sulle visite ospedaliere legate all’asma e sulle perdite nei raccolti.
A seguito di tali considerazioni viene quasi da chiedersi quale sia il costo della normalità. Le perdite ai gasdotti sono sì ingenti, ma a preoccupare è la situazione generale. Il problema è posto proprio davanti al nostro sguardo con dati che sembrano urlarci quanto la situazione sia drammatica.
Chi ascolta queste grida?

Alessia Sturniolo

Bibliografia

Nuova Dehli: settimana lockdown, ma non per il Covid

È di sabato 13 novembre la decisione del capo del governo di Nuova Delhi, capitale dell’India, di chiudere le scuole per una settimana e i cantieri per quattro giorni, a partire da lunedì 15 novembre.

Gli impiegati degli uffici pubblici svolgeranno le loro ore di lavoro in modalità smart, per cercare di ridurre l’elevata circolazione di automobili e mezzi pubblici. Anche le lezioni proseguiranno a distanza.

La causa di queste chiusure, questo “semi-lockdown“, ebbene, questa volta, non è da imputare al Covid-19, bensì all’inquinamento. Sebbene la situazione risulti molto complicata e il premier Arvind Kejriwal abbia avanzato l’ipotesi di passare a un lockdown totale della città, ciò potrebbe tradursi in una misura concreta, in realtà, solo dopo aver ascoltato il parere del governo federale.

Le città indiane sono ogni anno più inquinate

Ogni anno sono molte le città indiane costrette a combattere contro livelli di inquinamento atmosferico sempre più preoccupanti. Tra queste, Nuova Delhi è sicuramente una delle città in cui la situazione è gravissima. Secondo la SAFAR (una delle principali agenzie di monitoraggio ambientale dell’India), l’indice di qualità dell’aria della capitale è arrivato a “molto scarso”. In particolare, nelle aree urbane della città, la quantità di particolato nell’aria supera di sei volte la soglia di sicurezza. Il particolato indica tutto l’insieme di sostanze, liquide o solide, sospese in aria, la cui dimensione può variare da pochi nanometri fino a 100 µm. E’ proprio il particolato ad essere tra gli inquinanti più frequenti nelle zone urbane.

La decisione di fermare le attività, scolastiche e lavorative, è stata quindi obbligata. Secondo i dati diffusi da Kejriwal, i livelli di inquinamento sono arrivati ad un limite di rischio altissimo, ovvero al livello 437 su una scala di 500, secondo l’indice della qualità dell’aria.

La Porta dell’India nascosta dallo smog (fonte lastampa.it)

La pratica del debbio e le parole dell’attivista Aditya Dubey

Preoccupazione arriva anche dalle immagini dei satelliti della NASA. Da queste si può notare come, gran parte delle pianure dell’India settentrionale, siano coperte da una fitta e densa foschia.

A rendere tutto ancora più complicato è l’abitudine, che si ripete ogni inverno, da parte degli Stati confinanti, di bruciare i residui dei raccolti precedenti. Questa pratica viene chiamata “del debbio”: i contadini procedono a fertilizzare le campagne utilizzando i residui bruciati. I fumi causati da queste combustioni, spinti dal vento, arrivano fino a Nuova Delhi, con conseguente aumento dell’inquinamento atmosferico. A pronunciarsi sulla situazione è stata anche l’attivista Aditya Dubey, che ha presentato, alla Corte Suprema, una richiesta di lockdown totale nella capitale. Dubey si è inoltre rivolta al governo, invitandolo a mettere in atto delle misure per contrastare l’inquinamento sempre più crescente.

Più di un milione di vittime all’anno

A Glasgow, durante la COP26 tenutasi dal 31 ottobre al 12 novembre, lo Stato indiano ha annunciato di voler arrivare all’obiettivo zero emissioni nel 2070, dopo Cina, Usa e Europa. La volontà dell’India, però, è in netto contrasto con quella che è la realtà in cui il Paese si trova e con quello che dovrebbe essere il comportamento giusto da adottare. Solo a Nuova Delhi, ogni anno, le vittime dell’inquinamento sono più di un milione. Tra le cause principali troviamo malattie respiratorieinfarti, diabete, complicazioni polmonari e malattie infantili. Proprio in merito all’aumento delle malattie, il Times of India ha rilevato un numero sempre maggiore di persone nei pronto soccorso degli ospedali. Il dottor Suranjit Chatterjee, dell’ospedale Apollo, ha dichiarato:

“Stiamo ricevendo 12-14 pazienti ogni giorno in emergenza, soprattutto di notte, quando i sintomi causano disturbi del sonno e panico”.

Come se tutto ciò non bastasse, ogni anno si forma uno strato di schiuma, altamente tossica, sul fiume Yumana, affluente del Gange. All’interno della schiuma sono contenute alte quantità di ammoniaca e fosfati, due sostanze che possono causare problemi cutanei e respiratori. La crisi nella metropoli indiana potrebbe durare fino al 18 novembre, almeno secondo il Centro per il controllo dell’inquinamento.

La schiuma tossica sul fiume Yamuna (fonte teleambiente.it)

 

Beatrice Galati

Energia sostenibile e Nucleare: cosa deve preoccuparci davvero?

Crediti immagine: Huffpost

Due giorni fa ricorreva il 35° anniversario dell’incidente nucleare avvenuto a Chernobyl.
Nonostante siano passati diversi anni da quest’incidente, la sua risonanza mediatica è ancora enorme.
I dati ufficiali dell’ONU tuttavia riportano un numero di vittime accertate compreso tra le 49 e le 65.

Allora, perché abbiamo questa paura atavica del Nucleare? Perché non lo si conosce abbastanza e l’ignoto, si sa, genera paura.

Ma il nucleare è davvero pericoloso?

Per parlare della pericolosità del nucleare, l’unico modo per affrontare senza pregiudizi la questione è parlare di probabilità e di rischio relativo.

Facendo un esempio, se consideriamo l’aereo, sicuramente è il mezzo più pericoloso in caso di incidente, in quanto raramente ci sono superstiti. Tuttavia, la probabilità che si verifichi un incidente aereo è circa 10 volte inferiore ad un incidente a piedi o in treno, 30 volte inferiore ad un incidente in macchina ed addirittura 300 volte inferiore ad alla probabilità di un incidente in moto.
Traslando l’esempio al mondo energetico, in tutta la storia delle centrali elettriche nucleari si sono verificati solamente due incidenti: quello di Chernobyl e quello di Fukushima. In essi hanno perso la vita rispettivamente circa 54 persone a Chernobyl ed 1 morto e 16 feriti nell’incidente Giapponese.
Di incidenti petroliferi, invece, con enormi disastri ambientali, purtroppo ne abbiamo notizia quasi ogni anno.

In seguito all’incidente di Chernobyl, evento unico nel suo genere, c’è stato un aumento del numero di tumori alla tiroide nelle popolazioni colpite. In termini relativi, si prevede che questo aumento rimanga inferiore allo 0,05% (worst case scenario) dei casi di tumore totali nelle aree coinvolte.

Cosa significa “in termini relativi”? Significa che l’incremento dello 0,05% non è calcolato rispetto alla popolazione totale, ma rispetto all’incidenza della malattia.
Se ad esempio si considera una popolazione di un milione di persone e statisticamente ci si aspetta che il 20% di esse si ammali di tumore nel corso della vita, un aumento relativo dello 0,05% significa che i malati “extra” non saranno 500 (lo 0,05% di un milione), ma solo 100 (lo 0,05% del 20% di un milione).

Nonostante la drammaticità di perdite di vite umane, si tratta quindi di eventi eccezionali, causati nel primo caso da una drammatica sequenza di errori umani, inesperienza ed arretratezza tecnologica; nel secondo caso da un terremoto con Magnitudo 9, circa 5000 volte più energico del terremoto che distrusse L’Aquila.
I morti legati con certezza alle centrali nucleari quindi, secondo le stime ufficiali, si attestano circa ad una sessantina.

Quanti morti causano ogni anno i combustibili fossili?

L’inquinamento dell’aria, causato dai combustibili fossili,  è la quarta causa di morte a livello mondiale.

Parliamo di 5 milioni di morti ogni anno, 9 milioni se inseriamo nell’equazione anche l’inquinamento dei mari e dei fiumi e il riscaldamento globale.
Eppure lo consideriamo più accettabile del nucleare: in nessuna parte del mondo i combustibili fossili, che sono la causa primaria dell’inquinamento atmosferico, vengono combattuti con la stessa ferocia con cui viene combattuta l’energia nucleare.
E ciò ha dell’assurdo, perché proprio l’energia nucleare previene l’immissione in atmosfera di miliardi di tonnellate di gas inquinanti, dunque diminuisce il fattore di rischio dovuto all’inquinamento atmosferico.

Ma non esistono alternative ai combustibili fossili ed al nucleare?

Non bastano le fonti di energia rinnovabile?

Purtroppo no.
Dall’inizio della storia dell’uomo, infatti, non abbiamo fatto altro che aumentare sempre più il consumo energetico, senza mai subire una battuta d’arresto o tornare indietro.

Non è un caso che il boom tecnologico sia iniziato quando abbiamo avuto a disposizione una maggiore quantità di energia. Infatti, se per millenni l’uomo ha sfruttato cavalli o navi a vela per gli spostamenti, con l’invenzione della macchina a vapore e successivamente del motore a scoppio, siamo passati in soli due secoli alla conquista del cielo e perfino dello spazio.

Va da sé che più l’umanità evolverà tecnologicamente, più avrà bisogno di energia.

Le rinnovabili da sole possono far fronte ad una tale richiesta?
Nel 2019 la richiesta energetica italiana è stata pari a 319.622 GWh.
Un pannello solare in silicio policristallino fornisce una potenza di 0.2 kiloWatt (kW) per metro quadro.
Una pala eolica può normalmente erogare una potenza massima di 6000 kW (o, se preferite, 6 MW).
Un reattore nucleare può invece arrivare a 1.6 GW di potenza nominale, il che significa che, per ottenere la stessa potenza nominale di un singolo reattore nucleare, servono circa 250 pale eoliche, o 8 chilometri quadrati di pannelli solari.

Bisogna poi considerare il Capacity Factor, vale a dire il rapporto tra produzione di energia elettrica effettiva “x” fornita da un impianto di potenza durante un periodo di tempo e la fornitura teorica di energia “y” che avrebbe potuto offrire se avesse operato alla piena potenza nominale in modo continuativo nel tempo.

Tenendo in considerazione pure il CF, la quantità di pannelli solari e pale eoliche richieste per un paese come l’Italia ammonta ad un numero elevatissimo: bisognerebbe disboscare per costruire pannelli solari e pale eoliche.

Un reattore nucleare, invece, riesce ad operare ad una potenza stabile nel tempo anche per anni, cosa conveniente se si considerano l’inverno (dove le giornate sono più corte o uggiose) con meno luce solare e i giorni con poco vento.

Per quale motivo dovremmo usare anche il nucleare?

Perché le rinnovabili, purtroppo, da sole non bastano a ridurre il consumo di combustibili fossili. Attualmente, infatti, in Italia l’energia che non ricaviamo dalle rinnovabili la importiamo dalla Francia (che usa il nucleare) o la otteniamo bruciando Gas o Carbone.

La concentrazione in atmosfera di anidride carbonica (CO2) ha superato la soglia delle 415 parti per milioni (ppm) il 15 maggio 2019. È una concentrazione superiore del 48% a quella dell’epoca preindustriale, quando la concentrazione di CO2 in atmosfera era attestata sulle 280 ppm.

Questo aumento enorme dei gas serra, che oltre la CO2 annoverano anche il Metano (CH4) ed altri, porterà ad un aumento di 2 gradi centigradi o più entro il 2050, il che porterà a conseguenze catastrofiche. Sarà difficile l’approvvigionamento di acqua potabile per sempre più persone, si scioglieranno ulteriormente i ghiacciai, moriranno sempre più animali marini.

Si tratta di eventi a cascata che porteranno ad una distruzione dell’ecosistema e della vita per come la consociamo oggi.

Il nucleare può ridurre queste emissioni: basterebbero infatti solo 5 centrali in Italia per essere completamente indipendenti dai combustibili fossili, includendo il contributo delle rinnovabili.

Inoltre, sempre grazie a questa energia, si potrebbe procedere ad una “cattura” della CO2 atmosferica, tentando di invertire l’inesorabile aumento delle temperature terrestri.

Conclusioni

Tutto questo porta ad una conclusione, che per molti sarà contro-intuitiva, ma che nondimeno è vera e statisticamente verificabile: non solo i rischi dell’energia nucleare sono prossimi allo zero (un aumento dello 0,05% della mortalità da tumore moltiplicato per la probabilità infinitesima di un incidente catastrofico), ma se li confrontiamo con i benefici (ovvero il calo del rischio di mortalità dovuto alle emissioni di gas inquinanti e la diminuzione dei gas serra), otteniamo che il nucleare è benefico per il pianeta.
E infatti, secondo uno studio di Scientific American del 2013, l’energia nucleare, dal 1971 ad oggi, ha salvato quasi due milioni di vite.

Riguardo la gestione delle scorie radioattive, argomento che spaventa molti, data la corruzione nella nostra società, fortunatamente la gestione degli impianti nucleari è regolamentata da severissime leggi e controlli internazionali.
Questo bypasserebbe una eventuale inefficienza italiana nella gestione dei rifiuti radioattivi.

Salvare il pianeta dalla distruzione a cui lo stiamo portando è nostro dovere.
Serve dunque meno paura e più spirito critico.
Per vincere la paura è necessaria la conoscenza, per cui cerchiamo sempre di informarci ed essere critici (soprattutto verso i nostri stessi pregiudizi), per rendere il pianeta un luogo in cui sia ancora bello e possibile vivere.

Roberto Palazzolo

I torrenti di Messina: da elementi costitutivi della città a discariche a cielo aperto

Poco più di un mese fa lo Stretto di Messina è stato oggetto di un servizio del Tg1. Sarebbe stato bello vedere un reportage sulla bellezza del nostro tratto di mare, o magari sui suoi mostri ed eroi leggendari, oppure sulla pesca del pescespada. Purtroppo niente di tutto ciò. La notiza riguardava un triste primato, per il quale lo Stretto di Messina è la più grande discarica sottomarina al mondo.

La ricerca è stata condotta dall’Università di Barcellona, in collaborazione con il Joint Research Centre (JCR) della Commissione Europea e altri enti, soprattutto italiani. Attraverso dei robot sottomarini è stato scoperto un enorme deposito di rifiuti -tra cui persino un’automobile-, con una densità superiore al milione di oggetti per chilometro quadrato. La presenza soprattutto di metalli e plastiche è pericolosissimo per la tenuta del sistema ecologico dello Stretto.

L’inquinamento sui fondali dello Stretto di Messina – Fonte: ansa.it

I rifiuti provengono principalmente dai torrenti

Ma da dove proviene tutta questa mole di rifiuti? Sicuramente molti oggetti sono stati gettati direttamente in mare, ma la maggior parte proviene dalle discariche abusive presenti nei numerosi torrenti della città. Infatti, con le grandi piogge, i corsi d’acqua, normalmente secchi, si riempiono e trascinano tutti i detriti, trasportandoli direttamente a mare.

Il problema dell’inquinamento dei torrenti è uno dei principali della nostra città e da anni si susseguono tentativi da parte delle istituzioni per arginarlo. Per verificare i risultati degli interventi svolti siamo andati alla foce di quattro dei numerosi torrenti cittadini. Prima di riportare la nostra esperienza, però, vogliamo viaggiare nel tempo per raccontare, a grande linee, la storia del rapporto tra la città di Messina e i suoi torrenti.

I torrenti nella storia della città di Messina

I torrenti sono stati elementi costitutitivi della città di Messina sin dai primi insedimaneti preistorici; infatti il primo villaggio, vasto e diffuso, sorgeva tra gli attuali torrenti Gazzi e Annunziata. Nel corso dei secoli l’insediamento urbano si è trasformato, ma con il costante ruolo di confine svolto dalle principali fiumare (o ciumare, in dialetto).

I torrenti, inoltre, erano corsi d’acqua fondamentali per la cittadinanza. Il principale era sicuramente il Camaro, raffigurato nella Fontana di Orione insieme ai prestigiosi fiumi Ebro, Tevere e Nilo. Essendo il più vicino al porto, si tentò di deviare il suo corso in diversi rami, tra cui quello corrispondente alla via Santa Marta, un tempo chiamata “a ciumaredda“.

Un altro corso d’acqua d’importanza storica è il torrente Portalegni, chiamato così perché era utilizzato per portare la legna dalle colline a valle. L’antico corso del Portalegni attraversava Piazza Duomo e sfociava nel Porto – nello spazio antistante la Chiesa dei Catalani-; per evitarne l’insabiamento si è provveduto a deviare il corso dove attualmente sorge la via Tommaso Cannizzaro.

Il torrente Boccetta, ancora scoperto – Fonte: normanno.com

I torrenti nella Messina di oggi

Al giorno d’oggi la maggior parte dei torrenti del centro città è stata coperta, sepolta sotto il manto stradale; i più importanti sono diventati assi viari degli svincoli autostradali.

Il problema principale relativo ai torrenti non è tanto legato alle tonnellate di veicoli che li perocorrono, ma al loro utilizzo come discariche abusive da parte di cittadini incivili.

Per arginare questa triste piaga poco più di un anno fa il sindaco Cateno De Luca ha annunciato lo stanziamento di 7,5 milioni per i lavori di messa in sicurezza – fondamentali per una città a grande rischio idrogeologico come la nostra – e di puliza dei 72 torrenti presenti nel nostro comune.

Gli interventi sono iniziati il 26 agosto con la pulizia della foce del torrente Annunziata, a cura della Protezione Civile comunale. L’8 settembre si è conclusa l’opera di messa in sicurezza e di igienizzazione del torrente Giostra. Attualmente i lavori stanno proseguendo, spinte anche da messaggi di denuncia, come quella del consigliere Libero Gioveni sulla “bomba ecologica” del torrente San Filippo.

Il sindaco Cateno De Luca durante i lavori di riqualificazione del torrente Giostra – Fonte: normanno.com

Pochi giorni fa siamo andati a verificare lo stato di salute dei torrenti di Giostra e dell’Annunziata e le condizioni delle foci del torrente San Filippo e del limitrofo torrente Zafferia. La differenza è netta. Nelle prime due fiumare la sporcizia non manca – segno che non bastano gli interventi istituzionali per arginare l’inciviltà di alcuni soggetti – ma non è paragonabile a ciò che abbiamo riscontrato nei due torrenti della zona sud, delle vere e proprie discariche a cielo aperto.

Torrente Giostra

San Filippo

Torrente Zafferia

Un punto di non ritorno

Siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Da cittadini siamo rimasti impietriti di fronte allo scempio che abbiamo riscontrato, anche perché l’inquinamento è a pochi passi dalle abitazioni, a pochi passi da dove si stanno svolgendo le vaccinazioni contro il Covid-19, a pochi passi da tutti noi.

Gli interventi per salvare il nostro territorio e il nostro mare devono essere permanenti, ma questo non basta. Il vaccino più potente contro l’inquinamento è la creazione di cultura cittadina, forgiata dalla memoria di un passato glorioso e permeata da una solidarietà collettiva.

Non c’è più tempo da perdere.

Foto di Carlotta Faraci

Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

ilfattoquotidiano.it

normanno.com/cultura/cera-una-volta-messina-viaggio-nel-passato-tra-i-torrenti-della-citta-dello-stretto

normanno.com/attualita/pulizia-torrenti-messina

normanno.com/attualita/messina-al-via-la-pulizia-dei-torrenti-interventi-previsti-assessorato-alla-protezione-civile

normanno.com/attualita/messina-il-torrente-san-filippo-invaso-dai-rifiuti-cronache-da-una-bomba-ecologica

normanno.com/attualita/lavori-in-corso-sui-torrenti-di-messina-ma-ce-chi-continua-a-gettarvi-rifiuti

youtube.com

 

 

Plastica e natura: un binomio imperfetto

Plastica e natura: tutto ha inizio nel 1861, quando lo studioso inglese Alexander Parkes brevettò il primo materiale semi-sintetico, la xylonite, a partire da ricerche sul nitrato di cellulosa. Da quel momento in poi si sono susseguite una serie di scoperte che hanno rivoluzionato la vita dell’uomo. Chi penserebbe mai oggi di eliminare la plastica? Sarebbe impensabile separarci dalla comodità e dalla resistenza che ci garantisce un imballaggio o un sacchetto di questo materiale. Eppure siamo arrivati ad un punto di non ritorno: l’inquinamento da plastica costituisce un grave problema ambientale e per la salute di tutte le specie animali del pianeta.

  1. La sorpresa delle plastiche nella placenta umana
  2. Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari
  3. Effetti sulle specie marine
  4. L’acqua potabile è sicura?
  5. Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La sorpresa delle plastiche nella placenta umana

È di qualche mese fa la notizia che sono state riscontrate tracce di microplastiche (particelle polimeriche solide di dimensioni inferiori ad 1 mm) nella placenta umana. A rivelare la triste notizia è uno studio osservazionale condotto all’ospedale FateBeneFratelli di Roma, che si è svolto schematicamente in queste 5 fasi:

  1. Strutturazione di un protocollo “plastic free” per evitare qualsiasi contaminazione da materie plastiche durante il parto o l’analisi della placenta.
  2. Reclutamento delle pazienti in base a criteri ferrei: non dovevano ad esempio presentare patologie infiammatorie croniche, fumare o bere alcol, assumere farmaci che alterano l’assorbimento intestinale. Le donne reclutate sono state alla fine 6 e hanno dato il consenso per donare le loro placente.
  3. Passiamo alle fasi di laboratorio: sezione di ogni campione in faccia fetale, materna e porzione delle membrane coriali, conservate a -20°C.
  4. Digestione di ogni campione e filtrazione, seguita dall’analisi in microscopia ottica del filtrato con individuazione delle microplastiche.
  5. Analisi mediante microspettrografia delle microplastiche localizzate per stabilirne la tipologia.

I risultati mostrano il riscontro di 12 frammenti di microplastiche in 4 delle 6 placente analizzate, ma lo studio è veramente molto limitato per poter pensare a delle conseguenze sulla salute dei nascituri.

Alcuni numeri sull’inquinamento dei mari

Se sicuramente i dati precedenti destano solo preoccupazione, il rapporto nocivo tra plastica e natura viene messo in evidenza dalle immagini degli oceani. Le conseguenze sugli organismi marini, sul loro ecosistema e la loro catena alimentare sono evidenti.

Stando ai dati del WWF il Mar Mediterraneo, pur rappresentando solo l’1% delle acque mondiali, contiene il 7% della microplastica marina. Sui fondali del mare nostrum sono stati rilevati livelli di microplastiche elevatissimi: circa 1,9 milioni di frammenti in un metro quadro.

Ma non finisce qui: sapevate dell’esistenza del Pacific Trash Vortex? Noto anche come Great Pacific Garbage Patch, si tratta di un’area vastissima dell’oceano Pacifico formata da rifiuti plastici galleggianti. Le dimensioni stimate vanno da 700.000 km2 a 10 milioni di km2, potendo rappresentare circa il 6% della superficie del pacifico.

Pacific Trash Vortex: la convivenza forzata di plastica e natura

Effetti sulle specie marine

Date le loro dimensioni ridotte, le microplastiche vengono facilmente ingerite dai pesci, dai molluschi e dagli altri abitanti dei nostri mari e ciò può comportare un danno a vari livelli.

Partiamo dal piccolo: a livello sub-cellulare causano una riduzione dell’attività enzimatica e dell’espressione genica, aumentando lo stress ossidativo: ciò si ripercuoterà a livello cellulare con uno stato di infiammazione ed un aumento dell’attività apoptotica. Infine, favoriscono lo sviluppo di neoplasie, riducono la fertilità e modificano i normali comportamenti all’interno dell’ecosistema marino.

Il danno da microplastiche, inoltre, non è solo diretto da ingestione, bensì anche indiretto legato alla degradazione delle stesse e conseguente liberazione di sostanze inquinanti nell’acqua marina.

L’acqua potabile è sicura?

Diversi studi hanno evidenziato la presenza di microplastiche anche nell’acqua che beviamo normalmente. Facile spiegarlo visto che nella maggior parte dei casi la conserviamo proprio in bottigliette di plastica, anche se si sta diffondendo la buona pratica dell’utilizzo di borracce “plastic free”. Elementi che favoriscono il rilascio di microplastiche sono rappresentanti dagli stress meccanici sulla bottiglia (anche il semplice atto di “girare il tappo” per aprire/chiudere) e dal suo frequente riutilizzo, pratica quindi fortemente sconsigliata.

Una review pubblicata a maggio 2019 sulla rivista Water Research ha analizzato tutti gli studi disponibili sulla presenza di microplastiche in acqua potabile e nelle acque dolci. Così facendo, si sono stabiliti i tipi di polimeri presenti e le loro forme. I polimeri più frequenti, come potete vedere dal grafico, sono: polietilene (PE), polipropilene (PP) e polistirene (PS).

In ogni caso, per dimostrare effetti negativi sulla salute umana servirebbero ulteriori approfondimenti.

Come combattere quindi l’inquinamento da plastica?

La risposta alla domanda sarebbe molto ampia e difficile da argomentare in questa sede, però bisogna innanzitutto sapere che ognuno nelle piccole azioni quotidiane può fare qualcosa di buono per l’ambiente, ricordandoci sempre che dell’ecosistema “Pianeta Terra” facciamo parte anche noi.

Pensiamo a quei casi in cui l’uso della plastica potrebbe essere evitato, anche quando potrebbe sembrare banale. Ad esempio cosa ci costa portare una busta da casa per la spesa piuttosto che comprare i sacchetti al supermercato? Evitiamo l’uso di posate, piatti e bicchieri di plastica e cerchiamo di seguire una corretta raccolta differenziata. Plastica e natura non devono diventare un binomio indissolubile e, se lo capiremo, la natura ci ringrazierà.

Antonio Mandolfo

 

Per approfondire:

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S1382668918303934?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0048969720321781?via%3Dihub

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0269749116313306?via%3Dihub

https://www.mscbs.gob.es/biblioPublic/publicaciones/recursos_propios/resp/revista_cdrom/VOL93/C_ESPECIALES/RS93C_201908064.pdf

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0043135419301794?via%3Dihub

https://journals.sagepub.com/doi/10.3184/003685018X15294876706211?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori%3Arid%3Acrossref.org&rfr_dat=cr_pub++0pubmed&

https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0043135419308565?via%3Dihub

Dentro il “buco” nell’ozono: cos’è e perché deve preoccuparci

Alla scoperta del “buco” nell’ozono: com’è fatto, cosa ha determinato la sua formazione e perché si trova in Antartide.  Continua a leggere “Dentro il “buco” nell’ozono: cos’è e perché deve preoccuparci”

Fast Fashion: il vero costo della nostra maglia comprata a 3 euro

Il male è banale, lo diceva Hannah Arendt. Ed è più che mai vero, se consideriamo quali catastrofiche conseguenze possano avere le nostre “insignificanti” azioni quotidiane. Una delle tante storie dell’incontro tra la banalità dei comportamenti umani e la categoria del male è quella della fast fashion.

Che cos’è la fast fashion?

Il termine “fast fashion”, letteralmente “moda veloce”, indica il cambiamento che ha investito il settore dell’abbigliamento negli ultimi vent’anni dettando nuove regole di produzione: una produzione rapida che renda disponibili capi di abbigliamento diversi ogni settimana e, soprattutto, a basso costo.

Rappresentanti di questo imponente meccanismo di distribuzione della moda low cost sono rinomate catene presenti in tutto il mondo, come H&M, Primark, Zara. Dei paradisi terrestri che sembrano poter esaudire tutti i sogni dei ragazzi del XXI secolo: essere alla moda come Chiara Ferragni ma con quattro spiccioli; soddisfare la mania di sostituzione del vecchio col nuovo acquistando ogni settimana vestiti diversi; sentirsi rassicurati perché “tanto costa 3 euro, se non mi piace più, lo butto”. Oggi in nessun settore così come in quello dell’abbigliamento la logica del consumismo gioca così bene le sue carte.

Fonte: courses.washington.edu

La fast fashion sembra proporre una moda inclusiva e democratica. Probabilmente, questa è la ragione per cui si è radicata a tal punto nella società di oggi. Grazie ai bassi costi, ogni individuo può accedervi esprimendosi, attraverso i vestiti, al meglio e decidendo di volta in volta chi essere: un giorno un po’ hippie, un giorno un po’ punk, un giorno bon ton.

Purtroppo, la fregatura è dietro l’angolo.

Il prezzo pagato dai lavoratori

Basta guardare al prezzo per rendersene conto. Da cosa deriva il prezzo di un prodotto? Dalla manodopera e dalle materie prime impiegate, dai costi di trasporto, dal margine di profitto richiesto dal negoziante. Considerati tutti questi fattori, come può una maglia costare 3 euro? Qualcuno tra gli elementi coinvolti nel processo di produzione deve necessariamente essere trascurato: lo sono, innanzitutto, i lavoratori.

Non si tratta naturalmente dei lavoratori europei o americani che, sebbene nel mercato nero vengano ampiamente sfruttati, sono, per lo meno legalmente, tutelati dalla legge. Un operaio europeo costa troppo se i parametri da rispettare sono prezzi bassi per i consumatori e, soprattutto, un esorbitante guadagno per gli imprenditori.

Che fare? Molto semplice: basta spostare il processo di produzione in luoghi in cui il concetto di “diritto del lavoratore” non è conosciuto neanche lontanamente. Il guadagno è di certo assicurato. Come? Grazie ad un lavoro giornaliero di 12\16 ore, ad una paga di un euro al giorno, alla noncuranza verso le pessime condizioni igienico-sanitarie e verso la fatiscenza della struttura delle fabbriche. Possiamo dirlo a gran voce: si tratta di sfruttamento umano o, se vogliamo, di una vera e propria schiavitù. Ecco qual è il vero costo della famosa maglia a 3 euro.

Uno dei luoghi maggiormente coinvolti in tale meccanismo è il Bangladesh, dove quasi 5 milioni di abitanti lavorano nel settore dell’abbigliamento.

Il crollo del Rana Plaza e l’Accord on Fire and Building Safety

Il crollo del Rana Plaza – Fonte: www.corpgov.net

Proprio a Dacca, la capitale del Bangladesh, il 24 aprile del 2013, ha avuto luogo il più grande incidente dell’industria del tessile. Il crollo del Rana Plaza, un edificio che ospitava delle fabbriche di abbigliamento legate a marchi europei, per esempio Benetton, ha causato la morte a 1134 persone e gravi ferite a 2500 persone. E no, non si tratta di fatalità, di cose che possono succedere. Infatti, i proprietari sapevano bene che l’edificio non fosse a norma. Nonostante ciò, hanno continuato a far lavorare gli operai, minacciando di licenziarli qualora non svolgessero la loro mansione.

Il tentativo di correre ai ripari è stato tempestivo. Infatti, ecco pronto nel luglio del 2013 l’Accord on Fire and Building Safety, un contratto vincolante tra 70 marche e rivenditori del settore dell’abbigliamento, sindacati internazionali e locali e ONG con l’obiettivo di assicurare miglioramenti delle condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento in Bangladesh.

L’inchiesta delle Iene

Questo accordo è stato negli anni rispettato? A rispondere a questa domanda è stata, nel 2017, un’inchiesta delle Iene. L’indagine ha rivelato che in Bangladesh, anche dopo il crollo del Rana Plaza, esistevano ancora strutture non in sicurezza, messe in pericolo dalle vibrazioni delle macchine da cucire, con dentro 1500 persone, senza rispetto delle norme antincendio. Fabbriche alle quali, nonostante l’accordo del 2013, si appoggiava un noto brand italiano, non nominato dalle Iene.

I giornalisti del programma di Mediaset hanno ceduto la parola ad un sindacalista bengalese che ha rivelato quanto guadagna un operaio del luogo: dai 35 ai 50 euro al mese per 12/16 ore lavorative al giorno. Ha raccontato inoltre della Horizon, una ditta che lavorerebbe anche per un marchio italiano, in cui sono rimaste disabili molte persone a causa di incidenti sul lavoro.

Tra l’altro, l’inchiesta ha portato alla luce un grave avvenimento tenuto fino ad allora sotto silenzio, per lo meno in Italia: l’esplosione, nel 4 luglio del 2017, a causa di un cortocircuito, della Multifab, un’altra ditta del settore tessile.

Perché le cose non sono cambiate?

L’accordo purtroppo non avrebbe mai potuto demolire il cuore stesso del problema: la logica del profitto che opera a vantaggio di pochi e a svantaggio di molti. Se gli imprenditori bengalesi vogliono continuare ad avere rapporti commerciali con le aziende europee, devono necessariamente stare al loro gioco: pagare pochissimo la manodopera per assicurare loro prezzi bassi e, dunque, un enorme guadagno.

Benjamin Powell – Fonte: www.youtube.com

Benjamin Powell, professore di economia alla Texas University, in un’intervista rilasciata per il documentario “The true cost” ha analizzato la questione ponendosi una domanda: “Può lo sfruttamento in Bangladesh essere un fattore positivo?”. Dal suo punto di vista, i bengalesi accettano dei salari bassi perché non hanno alternative, o meglio, le alternative sarebbero peggiori. Lo sfruttamento, in quest’ottica, sarebbe il male minore. Questo ragionamento si muove all’interno di un morbo da cui è affetto il mondo intero da secoli: la “necessaria” supremazia dell’Occidente. Basta andare al di là di questo parametro di riferimento per scoprire che le alternative allo sfruttamento esistono: introdurre leggi, garantire diritti, assicurare vivibilità.

Il prezzo pagato dall’ambiente

Come se non bastasse, la fast fashion ha delle disastrose conseguenze anche sull’ambiente.

L’industria tessile è seconda a livello mondiale per tasso di inquinamento ambientale. Infatti, molte sono le materie prime coinvolte nel processo di produzione, come l’acqua, la terra per far crescere le fibre, prodotti chimici per la tintura dei tessuti.

A questo si aggiunge l’uso, introdotto dalla fast fashion, di tessuti più economici ma altamente nocivi, ad esempio il poliestere, che contribuisce all’inquinamento generato dalla plastica: con un bucato di poliestere vengono sprigionate nell’ambiente 700000 fibre di microplastica.

L’impatto delle fibre sull’ambiente – Fonte: www.altrogiornale.org

Gravi danni sono causati anche dall’ossessivo e illusorio bisogno, generato dalla fast fashion, di indumenti sempre nuovi, al quale risponde una massiccia produzione di vestiti che ha come conseguenza una maggiore estrazione di risorse naturali a cui si aggiunge l’emissione di gas a effetto serra durante l’estrazione della materia prima, la fabbricazione, il trasporto e lo smaltimento del prodotto. La quantità di vestiti comprati da una famiglia media ogni anno sprigiona la stessa quantità di emissioni che si producono quando si guida una macchina per 6000 miglia e, per fabbricarli, è necessaria acqua sufficiente a riempire 1000 vasche da bagno.

Inoltre, a causa dei rapidi cambiamenti di tendenza, della cattiva qualità dei tessuti che si usurano in breve tempo e della mania di acquistare indumenti di cui non abbiamo bisogno, è aumentato notevolmente il numero di vestiti che ogni anno riempiono le discariche.

 Esistono alternative alla fast fashion?

Di fronte ad un problema che chiama in causa meccanismi a tal punto sedimentati da agire come leggi naturali, come il capitalismo, il consumismo e il materialismo, pensare a delle alternative sembra difficile. In realtà c’è chi l’ha fatto. Per citarne una, l’azienda tessile Manteco di Prato che si è specializzata nella produzione di lana e tessuti sostenibili e rigenerati per i più prestigiosi marchi della moda internazionale, tanto da vincere nel 2018 il premio Radical Green. Un grande passo in avanti per limitare, quanto meno, le conseguenze del problema potrebbe semplicemente essere comprare presso piccoli commercianti o diminuire gli acquisti, soprattutto quelli superflui. Ma fondamentale, prima di ogni cosa, è riconoscere il centro della questione: anche nelle più banali azioni quotidiane, come acquistare un vestito, siamo responsabili di ciò che accade nel mondo che ci circonda.

Chiara Vita 

 

Disastro ecologico in Russia: moria di pesci nel Kamchatka e gravi danni ai visitatori

Nel corso degli ultimi anni le questioni concernenti la tutela ambientale sono diventate sempre più centrali all’interno del dibattito pubblico. Le prese di posizione di numerosi stati a favore dell’utilizzo di fonti di energia rinnovabili, i massicci investimenti nello sviluppo di tecnologie sostenibili e l’emergere di figure che hanno fatto della sensibilizzazione sul tema la loro missione (vedi Greta Thunberg) hanno reso il tema della salvaguardia del nostro pianeta e il contrasto all’inquinamento ambientale non un mero argomento di dibattito politico bensì una necessità comune. Quello della tutela ambientale è divenuto di conseguenza metro di giudizio con cui si percepisce lo sviluppo e la civiltà di una nazione.

Di recente alcune vicende ambientali riguardanti la Russia sono state sotto la lente dell’opinione pubblica internazionale. Nella nazione guidata da Vladimir Putin solo nel 2020 vi è stata una delle più grandi fuoriuscite di gasolio nella storia dell’Artico russo. A ciò si aggiunge inoltre il preoccupante aumento delle temperature dell’Artico con alcuni picchi da record e i numerosi incendi verificatisi in Siberia, fenomeni direttamente collegati ai cambiamenti climatici e causati soprattutto dallo sfruttamento dei combustibili fossili.

 

Gli effetti dell’inquinamento sulle acque, fonte: Wired

Ora, ancora una volta, i riflettori sono puntati sul gigante euroasiatico. Nella Kamchatka, una penisola grande quasi quanto l’Italia ma abitata da appena 300 mila persone e situata nell’estremo est della Russia, un disastro ambientale sta mettendo a rischio la vita marina della regione. Negli scorsi giorni migliaia di pesci e altri animali marini sono stati trovati morti per una forma di inquinamento, ancora di origine ignota, che sta interessando la spiaggia di Khalaktyrsky e altre baie vicine e che si sta muovendo verso i vulcani di Kamchatka, un sito Unesco patrimonio dell’umanità. Gli effetti dell’inquinamento non sono stati registrati solamente sulla flora e fauna locale ma anche sui visitatori del posto. Già da tre settimane i surfisti che si recavano preso le spiagge di Khalatyr e la Baia Avacha denunciavano la comparsa di strani sintomi anche senza il contatto con l’acqua. Bruciore agli occhi, mal di gola e vomito provocati dall’avvelenamento causato dall’insolito odore del mare sono solo quelli più lievi, alcuni surfisti hanno infatti subito lesioni alla cornea. L’amministrazione regionale ha confermato che già a fine settembre c’erano state segnalazioni che dicevano che alcune spiagge della Kamchatka presentavano colorazioni anomale oltre che la presenza di una spessa schiuma lattiginosa sulla superficie che causava anche un forte odore sgradevole.

Due attivisti di Greenpeace mentre raccolgono campioni, fonte: Quotidiano.net

La denuncia del disastro ecologico è avvenuta da parte di Greenpeace Russia che ha rinvenuto in acqua livelli di prodotti petroliferi quattro volte superiori la norma e la morte del 95% degli organismi marini. Nonostante la richiesta di un’inchiesta le autorità sostengono che non risultano essersi verificati incidenti industriali o altri eventi anomali nell’area interessata ed addirittura il ministro dell’Ecologia russo Dmitrij Kobylkine parla di possibili “cause naturali” che hanno provocato cambiamenti nel contenuto e nei livelli di ossigeno nell’acqua. Gli esperti dal canto loro ipotizzano invece che la causa del disastro possa essere individuata nella fuoriuscita di eptile, un carburante per missili estremamente tossico, avvenuta da una delle tante installazioni militari presenti nella regione. È a causa di queste strutture che la Kamchatka, già per le sue conformazioni naturali di difficile accesso, è stata chiusa al pubblico fino alla caduta dell’URSS prima di diventare una meta amata dai turisti per la sua flora e fauna selvatica suggestiva.

Filippo Giletto

Perché la diffusione di Covid-19 è correlata all’inquinamento?

Il rispetto dell’ambiente è un principio che viene insegnato ai bambini dai primi anni di scuola per sensibilizzarli al più grande problema della nostra umanità: l’inquinamento. Da sempre l’uomo ha modificato la natura per adattarla ai suoi bisogni, ma, dal settecento con la prima rivoluzione industriale, questi processi si sono intensificati. Sono così emerse nuove patologie che prima erano poco note. Basti pensare alle neoplasie polmonari, alla maggiore suscettibilità alle infezioni respiratorie, ma anche ad allergie, pneumoconiosi, intossicazioni alimentari da metalli e tante altre.

Quali sono le fonti principali del danno ecologico?

Ciò che ci preoccupa maggiormente è l’inquinamento atmosferico, le cui cause principali sono il traffico veicolare e le emissioni industriali. Fra gli inquinanti più rappresentati nell’aria abbiamo il monossido di carbonio, i nitriti, il benzene, gli idrocarburi policiclici aromatici ed altri. Tutte sostanze riconosciute come cancerogeni certi o probabili dalla IARC (International Agency Research on Cancer). L’inquinante più temibile è però rappresentato dal particolato, formato da particelle aereo-disperse che trasportano componenti organiche e non e le veicolano nelle vie aeree. Distinguiamo essenzialmente, a seconda della dimensione, PM10 con diametro inferiore a 10 micron e PM2,5 con diametro inferiore a 2,5 micron, ma ne esistono anche di più piccole (PM1, PM0,1). Più sono piccole maggiore è la loro capacità di infiltrarsi nelle vie respiratorie e causare un danno.

Cosa sta succedendo in questo periodo?

Negli ultimi giorni hanno fatto scalpore le immagini da satellite prima della Cina ed ora del nostro paese. Queste dimostrano come, già nei primi tempi di “lockdown” per l’emergenza Coronavirus l’inquinamento sopra le nostre teste sia fortemente diminuito. Nell’immagine sopra si può osservare il confronto della situazione in Italia a metà gennaio (sinistra) con quella dei nostri giorni (dati rilevati dal satellite Sentinel-5P dell’Agenzia Spaziale Europea, ESA). Purtroppo ciò non è l’unico legame che l’inquinamento ha con l’attuale epidemia di COVID-19. Un’analisi congiunta delle Università di Bologna e Bari ha correlato i livelli elevati di PM10 ad un aumento della diffusione dell’infezione. Secondo quanto riportato, il particolato fungerebbe da carrier per il virus. Ecco perché nella pianura padana, dove le attività industriali e lo smog sono cospicui, il virus si sarebbe diffuso così velocemente. Un’espansione, almeno all’inizio parzialmente limitata al nord Italia, per la geografia del territorio che appare chiuso dalle Alpi ai confini.

Un vecchio studio cinese ci aveva avvisato

Andando indietro nel tempo, al novembre 2003, si può trovare uno studio ecologico cinese che aveva rapportato la qualità dell’aria all’epidemia di SARS. Le città che pagarono un maggior prezzo in termini di mortalità furono quelle in cui l’indice di inquinamento atmosferico (API) era più elevato. Anche per loro la spiegazione principale era legata al maggior trasporto del virus PM10-mediato. Ovviamente c’è anche una plausibilità biologica: l’esposizione ad una dose maggiore di inquinanti atmosferici compromette la funzionalità polmonare (come fa il fumo di sigaretta del resto) così da poter causare dei quadri clinici di polmonite più gravi. Inoltre l’inquinamento ostacola l’attività di un particolare tipo di cellule, ovvero i macrofagi alveolari, che rappresentano l’ultima barriera di protezione del nostro sistema respiratorio dai patogeni che penetrano fino a livello alveolare.

L’analisi ecologica cinese fu condotta in 5 regioni con almeno 100 casi di SARS: Guangdong, Shanxi, Hebei, Beijing e Tianjin. Queste furono distinte in base all’API tra i mesi di aprile e maggio 2003 in regioni a basso, moderato ed alto indice di inquinamento e si è valutata la mortalità per SARS nei tre gruppi nello stesso periodo. I risultati, sintetizzati nel grafico cartesiano sopra, furono i seguenti:

  • Su 1546 pazienti analizzati residenti in regioni a basso API, 63 sono morti per SARS con una percentuale di fatalità del 4,08%;
  • Tra 3590 pazienti provenienti dalle regioni ad indice moderato, ne sono decedute 269 (mortalità del 7,49%);
  • 17 morti su 191 pazienti nelle zone ad alto API, con l’8,90% di mortalità.

Da ciò possiamo dedurre una buona correlazione tra la qualità dell’aria ed il diffondersi di epidemie virali. Anche per questo la tutela dell’ambiente in cui viviamo deve essere quindi un argomento primario. Tutti i paesi sviluppati del mondo devono porre attenzione senza appoggiarsi alla politica dello slogan e favorendo l’avvento delle rinnovabili come unica fonte energetica. Gli obiettivi 20-20-20 prevedevano: riduzione del 20% delle emissioni di CO2, riduzione del 20% della richiesta di energia ed aumento del 20% delle fonti rinnovabili entro il 2020. Il 2020 è arrivato e dobbiamo fare un passo in più. Il pianeta si ribella e noi ora ne siamo vittime, ma bisogna ricordare che ne siamo stati anche i carnefici.

Antonio Mandolfo

Bibliografia

https://www.ilsole24ore.com/art/l-inquinamento-particolato-ha-agevolato-diffusione-coronavirus-ADCbb0D

https://www.focus.it/scienza/salute/coronavirus-covid-19-smog-inquinamento-lombardia

https://ehjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/1476-069X-2-15