Motta e la semplicità del presente

Un disco che segna la maturità artistica di Motta. In cui anche le più grandi fragilità vengono trasformate in punti di forza.  – Voto UVM: 5/5

Dopo tre anni dall’ultimo album Vivere o Morire e la partecipazione al Festival di Sanremo con Dov’è l’Italia, Francesco Motta torna sulla scena musicale con un nuovo album pubblicato con la Sugar Music il 30 aprile. Non ha più paura di invecchiare, e si interroga sul suo passato e sulla stranezza dell’uomo che non riesce a rendersi conto che i problemi dei vent’anni sono davvero molto più semplici di quanto si pensi.

Il suo nuovo album, Semplice, anticipato dal singolo E poi finisco per amarti, è completamente nudo, elettrificato, reale e soprattutto vivo. Ti trasmette quell’emozione che a volte solamente un live è capace di dare. Magari dentro una grande stanza illuminata con neon a luci rosse e blu, a metà tra una fabbrica e una chiesa, col rumore delle pennate sulle corde di una Stratocaster. Un viaggio nel mondo, o meglio: nella semplicità del presente. Il cantautore pisano ammette di aver fatto pace col proprio passato, tutt’altro che semplice, per concepire quest’album:

Ho scoperto che non sono Peter Pan

afferma in un’intervista, e lasciandosi alle spalle tutti i tormenti e le paure, ci regala dieci tracce di una nostalgica quotidianità in cui tutti noi possiamo ritrovarci, tra ricordi e calzini, sampietrini e caffè.

La ricerca dell’essenziale

Qualcosa di normale, la quarta traccia è, infatti, una richiesta d’aiuto; cantata con un filo di voce insieme alla sorella Alice (unico feat. dell’album), per provare a conquistare non tanto la normalità, ma il sogno di una normalità. Del resto è un pezzo nato prima di una pandemia, fra le campagne di Sacrofano e che vanta i consigli di De Gregori.

E alla fine non ho più paura di stare a guardare qualcosa di normale

È un disco con gli archi, molto arrangiato e soprattutto diverso dai capitoli precedenti: nudo e fragile. Motta sceglie di giocare con la scaletta:

Il forte dopo il forte resta forte, ma il forte dopo il piano diventa fortissimo

Un disco per nulla minimale, con arrangiamenti ricchi, non barocchi ma corposi. In cui al centro c’è la continua ricerca dell’essenziale: come dice Italo Calvino nelle Lezioni americane, c’è il pensiero di una leggerezza che non è quella di una piuma che cade ma di un uccellino che continua faticosamente a volare.

Motta in un gioco di luci

La stessa nostalgia la ritroviamo in Quello che non so di te, che per l’autore altro non è che un ritorno al passato, soprattutto musicale. Per un attimo vengono abbandonati gli strumenti protagonisti: il violoncello lascia spazio al rock, e il pezzo si sporca di new wave sfiorando le ombre dei Cure.

Anche in Regole del gioco sembrerebbe che Motta stia cercando di tornare nella sua comfort zone, un po’ come se fosse il seguito di Chissà dove sarai (Vivere o Morire). Ma continuando l’ascolto ci accorgiamo di avere davanti un autore più maturo, più attento ai dettagli e che in fin dei conti ci piace. Come dice nella canzone:

Sai che c’è? C’è che alla fine qui va tutto bene

Ma questo non è un viaggio di sola nostalgia. A te, la prima traccia dell’album, è un’aperta dichiarazione d’amore, verso gli altri e verso se stessi. Un brano in cui chitarre acide e melodie oniriche si scontrano, riportando alla mente i Velvet Underground. E mentre Via dalla luce è un notturno che si aggrappa al pianoforte, Semplice tiene echi africani in sottofondo, per concentrarsi sul flusso di coscienza.

Tutti hanno paura…

Avete presente quando provate un paio di jeans e vi sta stretto? Beh, a Motta invece quel barlume di esistenzialismo è sempre caduto alla perfezione, e in quest’album è ancora più evidente.

L’estate d’autunno e Dall’altra parte del tempo (ottava e nona traccia) ci trasportano in un universo parallelo in cui tempo e spazio vanno quasi ad annullarsi completamente, lasciandoci un pizzico di cupa e autentica disperazione.

Il cantautore di “Dov’è l’Italia”. Fonte: ilsussidiario.net

Ma Semplice è anche paura: paura di perdersi, paura del futuro. Quando guardiamo una rosa, scritta a quattro mani col cantautore calabrese Dario Brunori (in arte Brunori Sas), è una vera e propria conversazione non amorosa di sette minuti. Un dialogo tra due persone provenienti da tempi diversi, che mettono la paura al centro delle loro vite. La giusta conclusione che, inaspettatamente, dà vita ad una coda strumentale perfetta.

Parlami della paura di vivere insieme una vita sola

Semplice è un gioco di equilibri precari e per questo affascinanti. Un mondo in cui passato e futuro si intrecciano, dando vita a quella semplicità, quasi essenziale, del presente. Un disco che non si limita a raccontare storie ma che ci parla, dritto al cuore. Anche a detta dell’autore, è da ascoltare per intero perché «Il concetto di album è ancora importante». Solo così si potrà ottenere l’assoluta comprensione del semplice e dell’essenziale. 

Domenico Leonello

Intervista a CIMINI per la tappa al Perditempo Cafè

Una sorpresa speciale per uno dei locali più avanti musicalmente della provincia di Messina.
Stiamo parlando del PerditempoSito presso l’Ex Pescheria di Barcellona, è attivo ormai da qualche anno e propone con cadenza settimanale musica dal vivo con artisti internazionali.

Domenica abbiamo avuto l’immenso piacere di ascoltare il cantautore CIMINI che con Anime Impazzite è tra i 69 finalisti di Sanremo Giovani 2018. Autore calabrese da anni trasferito a Bologna, è riuscito ad inserirsi nella scena musicale indipendente italiana pubblicando due dischi: L’importanza di chiamarsi Michele (2013) e Pereira (2015).

Dopo una pausa, pubblica il singolo virale La legge di Murphy (2017) e presenta a marzo il suo ultimo album Ancora Meglio. Prodotto da Garrincha dischi è un disco diverso da quelli precedenti con sonorità e stili vicini al panorama indie italiano. Si distingue l’originalità di scrittura dei testi, nei quali racconta la quotidianità e le sue emozioni.

 

Ciao CIMINI, come va?
Sto passando un bel periodo che è iniziato un anno fa con La Legge di Murphy, una canzone che mi ha cambiato la vita. Avevo bisogno di affetto e piano piano questo affetto mi viene ricambiato proprio dal pubblico. Fare un disco, fare canzoni e pubblicarle è un mestiere che mi piace. Avere contatto con le persone, capire, far capire ciò che ho da dire è bello. Ciò mi consente di creare empatia e di farmi sentire uno di voi, tra il pubblico.

Dai primi due album a questo è passato un po‘ di tempo, e anche musicalmente sei cambiato, più vicino alla scena indie italiana. Cosa ti ha portato a fare questa scelta?
Non è stata una scelta di vetrina, sicuramente. Ho sempre scritto canzoni per conto mio, ma ci sono vari motivi per questa scelta. Uno è molto tecnico perché mi sono ritrovato ad arrangiare questo  disco con un nuovo gruppo di lavoro: i ragazzi che suonano con me e Carota degli Stato Sociale. Quindi c’è stata una mano diversa. Rispetto a quello che facevo prima, ho deciso di creare uno stacco perché lo considero un ciclo della mia vita chiuso, che non mi appartiene più.

Il tuo nuovo disco si chiama Ancora meglio.
Sì, è un titolo ironico perché quando lo scrivevo allo stesso tempo vedevo un sacco di gruppi e persone che scrivevano delle canzoni, che si proponevano e cercavano di fare meglio degli altri creando una competizione esagerata. Al pubblico non interessa la concorrenza, ma ascoltare delle canzoni in cui ci si può ritrovare

Vivi a Bologna da un po’ di tempo, com’è lì l’ambiente musicale?
Vivo a Bologna da più di dieci anni. Sono andato in questa città con la scusa di studiare e piano piano ho fatto un sacco di amici che con il tempo sono diventati miei fratelli. Crescendo e conoscendo sempre nuove persone mi sono ritrovato anche nell’ambiente musicale ed è bello perché a Bologna questo ambiente è fatto dai ragazzi dello Stato Sociale, da Calcutta con il quale ci troviamo sempre in giro e da altri ragazzi che fanno gli artisti. 

Si conclude così la serata con un’ottima affluenza di pubblico, il quale si è lasciato trasportare “tra le luci provocate da esplosioni, meteoriti e scie di gas” con le note di Sabato Sera.

 

Marina Fulco