Il Conte di Vendramin

Il Conte di Vendramin era noto per la sua inestimabile bellezza e per il suo insulso desiderio di solitudine. Si diceva che un tempo il Conte avesse amato una donna che lo condusse alla rovina e che si fosse ritirato ormai da anni nella sua tenuta.

Un giorno, un bimbo di nome Malcom si inoltrò nella vasta proprietà di Vendramin, pensando di stare esplorando una selva sconosciuta. Al centro del territorio era situato un castello logoro e consumato, che agli occhi del bambino appariva imponente e spaventoso, con i rami degli arbusti che intrecciavano le due torri e i fiori appassiti che si rampicavano sulla porta, quasi a volerne impedire l’accesso.

Aleggiava, intorno alla fortezza, un clima tenebroso. Malcom, essendo stato ben educato, pensò di bussare prima di addentrarsi nel castello. Batté il pugno tre volte nell’unico spazio risparmiato dai fiori rampicanti.

Dopo qualche minuto di attesa, indugiando sulla soglia, Malcom pensò di non essere il benvenuto e credette di doversene andare senza poter raccontare a sua sorella nessuna straordinaria avventura. Improvvisamente i gigli appassiti si ritirarono dall’uscio, facendo scricchiolare la porta che lentamente s’apriva.

Il bimbo, con le labbra appena dischiuse per lo stupore, avanzò nel buio e le candele di un candelabro posto in alto al centro della sala, presero fuoco.

Il battito cardiaco di Malcom accelerò e la sua brama di avventura crebbe tanto da sovrastare il timore. “Quando ero solo un bambino, proprio come te, non avevo molti amici.” -disse una voce solenne dall’alto. Malcom alzò gli occhi per scoprire da chi provenisse ma sulle scale che portavano al piano superiore non vi era nessun signore, tantomeno un illustre Conte.

“La mia fedele compagna era la musica. Riusciva ad alleviare ogni mio dispiacere.” -proseguì la voce. “Qualche tempo più avanti, quando ero appena un giovane, ereditai la proprietà dei Vendramin, alla morte del mio anziano padre… ma perché non vi sedete giovanotto? Se siete giunto fin qui vorrete pur conoscere la disavventura di questo caro vecchio Conte.”

Il bambino obbedì e si sedette su una seggiola in legno anche se non si aspettava di dover raccontare a sua sorella un’impresa con un protagonista diverso da lui. La voce prese un respiro profondo e disse: “Ero un ragazzo solitario che godeva della vita a modo suo. Mi piaceva suonare il piano ma non avevo la pretesa che agli altri piacessero i miei componimenti , dunque non li riproponevo ai teatri, né chiedevo il consiglio dei grandi maestri; semplicemente conservavo in un cassetto il mio spartito per ogni volta che avrei sentito il bisogno di suonarlo.

In quel periodo venne a trovarmi la duchessa Lola di Ivanov per porgermi le sue condoglianze. Una donna caparbia, elegante e poco più grande di me. Si trattenne per la cena e durante il pasto mi rivelò il secondo motivo della sua visita: un matrimonio.

Pensava che se io l’avessi presa in moglie l’avrei salvata dal suo triste declino economico e che, così facendo, avrei onorato una promessa fatta al duca di Ivanov da mio padre.

Io risposi che non ero al corrente dell’accordo stipulato tra i nostri padri e che non era mio compito onorare alcuna promessa che non fosse mia. Lola cercò di convincermi ma la mia decisione fu irrevocabile: Non desidero avere alcuna compagna al mio fianco né per il momento, né per il futuro. In altre parole, non intendo sposarmi, né ora né mai duchessa.

Lola accolse il rifiuto come si accoglie una pugnalata alle spalle e mi avvertì: Il suo insulso desiderio di solitudine le costerà caro, giovane Conte.

“Ma signor Conte, perché mai le sarebbe costato caro non prendere una donna in moglie?”-lo interruppe Malcom. Vendramin non rispose e continuò il suo racconto.

“Passarono anni e il fascino della mia giovinezza s’andava dissolvendo. E ogni pomeriggio che sentivo cupo e desolato, mi sedevo al pianoforte con lo spartito sul leggio. Giorno dopo giorno le melodie mi risuonavano alle orecchie più come vibrazioni che come musica. Compresi, dopo qualche mese, che le mie orecchie stavano perdendo la percezione, non solo della musica ma di qualsiasi altro genere di suono.

Durante la vecchiaia mi resi conto che ero rimasto da solo e che nemmeno la musica mi avrebbe più tenuto compagnia. Lola di Ivanov, quando ero solo uno stolto giovanotto, voleva intendere che la solitudine non può che essere un desiderio assai sciocco per uno che nella vecchiaia l’avrebbe vissuta più come una punizione che come un’aspirazione.

E così anche la mia fedele compagna mi abbandonò, l’unica donna di cui mi fossi mai innamorato, l’unica che se avesse assunto le sembianze di un’umana, non avrei rifiutato a sposare.”

Malcom, incantato da una parte e dispiaciuto dall’altra per la disavventura di Vendramin, sentì il peso dell’impotenza poiché qualsiasi parola di conforto avesse pronunciato non sarebbe giunta alle sue orecchie e soprattutto non gli avrebbe restituito la sua amata devota. “Nessuno era più venuto a trovarmi in questi anni, se vi fa piacere, tornate pure. Conosco molte storie da potervi raccontare, sebbene io non possa più udirle.” Da quel giorno i gigli, che avevano ripreso un po’ di colore, lasciavano entrare Malcom ogni volta che si presentava alla porta battendo tre colpi su di essa e stando ben attento a bussare nello spazio non ricoperto dai fiori, naturalmente.

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia.

*Il Conte di Vendramin è il primo di una serie di racconti.

Catena di lana

Viaggia
Coperto dal vento il tuo ricordo,
Ed io non so
Se mi è compagno
Se mi è nemico
Perché mi sorregge
E al contempo mi intrappola,
Mi fa vivere il presente
Ma mi àncora al passato.
Ed io non so
Se ciò che mi avvolge
È una coperta di lana
O una catena d’acciaio.

Francesco Pullella

*Immagine in evidenza: illustrazione di Giovanni Pullella

Frammenti di quotidianità

I miei occhi, nomadi, ingoiano raggi di luna,
andati di traverso per la gola
e si incastrano nella pupilla dell’infinito.

Un uomo, trascinandosi il cielo in spalla,
si nasconde dietro il sole in silenzio,
inventa passi di luna e mi strizza l’anima dal pianto.

Vene rotte mi cadono a terra, brontolano le mani,
strappo le viscere del cielo e me le infilo in tasca,
mi brucia la pelle, sento le stelle battermi nelle vene.

Sbircio dentro: ho lo stomaco pallido e l’universo in subbuglio.

Domenico Leonello

Un Picasso sopra le righe

“Scrivi una pagina di diario di un personaggio storicamente esistito tralasciando ciò che le biografie dicono già.”

Parigi, 8 marzo 1916

Caro diario, giusto?

Credo si faccia così, no? Trovo sciocco dare del tu a un quaderno, come se potesse ascoltarmi. Per questo motivo spero di non offendere i tuoi sentimenti da mero oggetto privo di vita dicendoti che probabilmente, quando non mi servirai più, verrai bruciato. Sarebbe davvero disdicevole se un giorno, dopo la mia dipartita, queste pagine finissero nelle mani di un biografo. Cosa penserebbe il mondo se venisse fuori che passavo le notti solitarie a piagnucolare? Imbarazzante. Non che mi interessi un granché del parere altrui, ma è questione di orgoglio personale: senza offesa, ma sono largamente superiore a queste fragilità d’animo… Di solito… Oggi però ho bisogno che qualcuno mi ascolti e non che mi compatisca inquinando l’aria con parole a vanvera. Non ho necessità neppure di consigli distratti (soprattutto quelli). Ammetto quindi che in certi casi è più proficuo rifugiarsi in un angolo di foglio che con amici che sanno solo metterti nei guai! Come quel fesso di Apollinaire che un paio di anni fa era stato accusato di aver rubato la Gioconda e fece scaltramente il mio nome in tribunale. Io, chiamato in causa, dichiarai di non aver mai visto quella carogna!

Ma veniamo a noi. Stamattina nel mio atelier due signori ben vestiti si sono fermati a lungo di fronte a una delle mie ultime creazioni: Eva sul suo letto di morte. Quei minuti interminabili hanno creato un’atmosfera tale da portarmi a rivivere la gravosa perdita. Non ero capace di prendere ampio respiro e un chiodo in fiamme penetrava la mia gola a ogni apprezzamento stilistico. Strano. I miei quadri rivelano sempre squarci di vita vera costellata da intimità di donne possedute… Potrebbe sembrare un’arma a doppio taglio… Ma in realtà quando vengono poste sotto attento esame estraneo, provo solo un immenso compiacimento.

Condividere le mie dee e permettere a questo mondo fatto di inetti- incapaci anche solo di guardare donne di questo calibro – di assaggiare le loro curve tramite l’arte, è un atto di generosità. Meglio, carità.

Per me la crème francese: donne dai musetti squisiti e gambe lunghe.

Per loro, squallidi zerbini. Donnacce. Volgari prostituèe.

Puoi forse tu giudicarmi? Ho solo un gran fiuto per tutte le avventure esotiche che si nascondono per le strade di Parigi, apparentemente fredda cittadina europea, ma ardente nelle passioni come me.

In ogni caso uno dei due, decisamente il più insipido, ha tentato a un certo punto di comunicare con me chiedendomi quale fosse il male che affliggeva la fanciulla dipinta e la mia risposta è stata coincisa: L’Enfer. Non credo esista parola più azzeccata per identificare la malattia che ha portato via Eva, la prima tra tutte le donne, mia quasi sposa e la mia dolce sorellina di soli sette anni, Conchita. L’Enfer è la bastarda tubercolosi. Ogni volta che osservo quel quadro io, tra quei lineamenti esangui, intravedo anche quelli di Conchita. Durante gli ultimi giorni della sua misera vita, io avevo tredici anni e mi sono messo in ginocchio facendo un solenne patto con Dio: se davvero voleva prendermi qualcosa, doveva portare via la mia arte e lasciarmi lei. Se l’avesse risparmiata, io non avrei più toccato un pennello.

Per vostra fortuna, l’ha uccisa.

Tengo a quella tela in quanto bravo fratello maggiore, oltre che fedele vedovo.

In ogni caso, cacciati via i due intrusi che non avevano alcuna intenzione, o possibilità, di aprire i portafogli, come non potresti mai immaginare io… sono piombato nell’appartamento di Irene. L’ho presa impetuoso appena mi ha aperto, vedendola maledetta con addosso una blusa bianca e delle civettuole mutandine camì e… Abbiamo fatto l’amore per due ore. Questo non significa che non ami più o non sia in lutto per la mia quasi moglie deceduta. Anzi. Sopperisco la mancanza con abbondanti pasti.

Infatti tengo a precisare: Irene la odio. Irene Lagut, la bestia. Volubile. Frivola. Capricciosa. Scapestrata di dubbia moralità. Buffa, anche, come i pagliacci che scarabocchia su tela. Ho un’idea per un nuovo quadro…

Dopo l’atto, allora ho preso le sue pantofole e le ho gettate dalla finestra per confinarla a letto con me tutto il giorno (simbolicamente sì, perché lei camminerebbe scalza pure sul fango). La sua reazione? Una grossa e grassa risata. Ha riso di me, parecchio, raccontandomi poi con un inverosimile nonchalance dei seni di una signorina conosciuta la sera prima a teatro. Su tutte le furie ho ragionato di ucciderla col revolver. Sai… è sempre con me. Fuori dalla rabbia le ho dato un secco schiaffo e ho sputato per terra, congedandomi.

Durante tutto il tragitto fino a casa ho pensato a come io abbia passato questi ultimi mesi tra le gambe di una donna dissoluta quando vorrei essere tra le braccia della tenera e mansueta Eva mia.

Lei che si prendeva cura di me. La prima donna. I love Eva. Colei che non ha conosciuto né il mio disamore né il mio disprezzo. Io che continuo a dipingerla con colori più vivi che mai nonostante mi abbia lasciato solo e con tanta voglia di amare.

Così io nel lusso di una passeggiata infinita ho riflettuto che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte senza richiamo, senza torpore, ma soprattutto senza senso di spogliarsi in fretta non riposando più addosso a un corpo innamorato che mi aspetta.

E quindi, je t’aime Eva- ovunque tu sia- je t’aime.

Jem’Eva. Io sono Eva.

E caro diario forse tu sei me e non posso evitare di apprezzarti almeno per questa notte.

Un abbraccio.

 

Isabel Pancaldo


Immagine in evidenza: Illustrazione di Isabel Pancaldo e Marco Castiglia

Il Silenzio

Ogni brivido sulla pelle, ogni
goccia di vento che cade senza perdono
e mai scuserò quegli occhi rossi di rabbia,
poche volte l’indifferenza ha regnato,
in mezzo al nulla.
Una volta attraversato il fiume rosso,
più ha cambiato il suo sguardo.

Geme un canto disordinato
e nella confusione del suo desiderio
non agisce più per ragione
ma per spavento,
e il mio lamento, che soffoca il respiro…

Non voglio più capire
e solo sentire le sue parole
sembra inebriare l’anima di nero,
cieco ma sento ancora
ogni tuo verbo di disprezzo,
stringi a te il silenzio che manca.

Lardo Benedetto

 

 

Immagine in evidenza: illustrazione di Benedetto Lardo

Tacito accordo

Arte.
Travolgente,
arriva lenta, resta sopita per un po’,
non urla, non è un vulcano in eruzione.

Arte.
Arriva silenziosa, si infiltra dove trova una porta rimasta socchiusa.
Smonta certezze,
crea domande.
Riempie un vuoto per crearne un altro subito dopo.

Guardando tra le pennellate
si scorge qualcuno che ha vissuto come me,
qualcuno che è stato me prima di me.

Io, immobile, davanti a un Picasso,
che urla in silenzio senza colori
la pece nera della guerra.

Io, immobile, davanti a un Kandinskij,
che scardina l’ordine imposto dal mondo
nel momento stesso in cui è nato.

Io, immobile, davanti a Bernini,
che dona il soffio al marmo,
corpi vivi intrecciati più autentici degli uomini.

Semplici artisti?
Forse qualcosa di più.
Si sentono urla anche se tutti stanno in silenzio.

Diventa un gioco di fiducia,
un tacito accordo,
un patto mai davvero siglato:
accetto di ritrovarmi in te
perchè so che conservi qualcosa per me
tra le veloci pennellate,
tra le pieghe del marmo.

Un delicato urlo,
un gioco di scacchi.
A ogni quadro il suo spettatore,
a ogni spettatore il suo artista.

Pur restando in un museo deserto,
non potrebbe mai esserci solo silenzio.
Mille voci si accavallano,
attendono solo un orecchio attento.

 

Giulia Cavallaro

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Istinto e ragione


Ci pensi mai
a quante avventure
avresti vissuto
se solo non ti fossi fatto
frenare dalla paura?

Quanti luoghi
avresti visitato
se solo
ti fossi lasciato andare.

 

Quanti mari
avresti solcato.
Quanti tramonti
avresti visto.

Quanti sogni
hai lasciato
nel cassetto
per paura?
Quanti ‘’no’’
hai detto?

Quante volte
la razionalità
ha avuto la meglio
sull’istinto?

Segui il tuo cuore,
buttati a capofitto
nella vita.
Perché essa è solo una,
la giovinezza scorre veloce.

Non avere paura.

 

 

 

 

 

 

Chiara Fedele

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Innamorarsi a Messina

Tommaso non trova mai il coraggio di raccontare una storia, specialmente se è l’amore ad affermarsi come tema dominante. Amore che non necessariamente è rivolto ad una persona, ma anche un oggetto, una passione, una città. Non è mai semplice. Tommaso sa bene che a 22 anni non si ha contezza, né si conoscono le leggi teoricamente razionali che regolano i sentimenti. Non si può, ovviamente. Non esiste raziocinio, né logica. Solo gli impulsi a questa età, fuggevole e ardente di passioni e desideri.

Egli vive a Messina da settembre di quest’anno. Ogni tanto quando torna il fine settimana nel suo paese d’origine, bazzica nel suo amato pub per incontrare vecchi amici con cui bere la solita birra e abbandonarsi a confessioni e riflessioni. Era bella la vita, almeno così pensava. Non è stato facile abituarsi a nuovi ritmi, nuove compagnie e maledettissimi impegni di cui non riesce a farne a meno. D’un tratto, qualcosa cambiò.

Il giorno in cui Claudia gli scrisse si trovava alla Passeggiata a mare, luogo da cui si può ammirare lo Stretto sia se fa freddo che caldo, a meno che in questo caso, non ci sia l’ingannevole aria secca e calda dello Scirocco. Quel giorno però, c’era un vento di Grecale e questo potrebbe cambiare il corso della storia. Questa città spesso inganna. Capita di smarrirsi nelle sue vie infinite dove ogni incrocio, ogni palazzo, conserva un pezzo di storia che nessuno più rievoca, per pigrizia o indulgenza. Probabilmente, il messinese è un individuo impaurito della sua stessa persona, quasi come se volesse nascondere la sua appartenenza a un luogo così pieno di bellezza, di storia. Ma vallo a spiegare agli sconosciuti, ai turisti e varia gente che è solo “di passaggio”. Ma Lei no. Lei si è posta subito in modo curioso.

Si conobbero parlando dei R.E.M. e degli Oasis, poi Phil Collins, i Clash, i Police e altri artisti degli anni 80-90 per capire che in fondo, non erano poi così distanti i loro mondi. Non è poi così strano per due ragazzi nati tra il 1999 e il 2000. “La mia generazione è strana” pensò Tommaso, “specialmente se appartiene a una terra come la Sicilia, esotica e maledetta”. D’un tratto, l’identità svelata. Claudia è palermitana.

“Sono innamorata di Messina, quasi la preferisco a Palermo”.

“Com’è possibile” pensò Tommaso, “come si fa a preferire una città apparentemente vuota a una così ricca e suggestiva? Come si fa a preferire i normanni agli arabi, l’oriente all’occidente, gli arancini alle arancine?” Non credeva a ciò che aveva sentito. In fondo qualche pregiudizio, prima di vivere a pieno la città, egli ce l’aveva. Caratteristica endemica della gente di provincia, abituata forse alla calma del paese e al mare vicino al centro.

Dopo essersi scambiati dei messaggi via telefono, decisero di incontrarsi. Tommaso pensò bene di raccontarle la storia della nobile Messina attraverso i miti e le leggende: da Colapesce alla Fata Morgana, Dina e Clarenza, Mata e Grifone, Scilla e Cariddi, i progetti architettonici di Montorsoli e molto altro. Che lei si potesse annoiare era facile, d’altronde chi è quel folle che pensa di fare colpo così? E invece, la fortuna era dalla sua parte. Anzi, dalla loro. Se è vero che in questa città ci si può perdere di vista, è anche vero che ci si può ritrovare per iniziare una nuova vita, intraprendere nuovi percorsi e perché no, innamorarsi, ma non di una qualunque. Lei era speciale, solo che c’è voluto del tempo prima di capirlo davvero.

“Mi sembra di avere una seconda identità” le disse, “anche se, in fin dei conti, ci sono motivi seri per essere sé stessi e per definirsi messinese d’adozione, senza dover rifugiarsi in trame nascoste e quindi andare oltre le apparenze. Messina è la città da cui ho deciso di ripartire, intravedo una possibilità.”

Dopo un bicchiere di vino, andarono nel luogo dove ha preso vita il mito, Capo Peloro.

Il mare delle “fere” di Stefano D’Arrigo, quella sera sembrava che fosse uno specchio dove potevano vedere i loro riflessi. Claudia gli chiese che cosa avesse di speciale, e lui disse:

“Questo è il posto in cui ho capito che tutto ciò non si può cancellare, non puoi immaginarlo leggendo solo pagine di letteratura, devi vederlo con i tuoi stessi occhi, assaporare il gusto di quest’acqua. Come si fa a restare indifferenti? Come si fa a metterlo da parte?”

Osservarono lo Stretto contornato dalle luci provenienti dall’altra terra, la Calabria. Nel mentre, passavano dei pescatori con le loro barche, probabilmente per cercare un po’ di pace in mezzo a un mare che ha sofferto. Questo spazio, negato alla civiltà, sembra che in quel momento stesse dicendo loro di cogliere l’attimo prima che entrasse in gioco l’inganno. Ma quella sera non c’era possibilità, il vento era troppo calmo e fresco per distogliere l’attenzione di Tommaso, che aveva il cuore tremante e la testa piena di pensieri.

Così ballarono sulle note di Purple Rain di Prince, il pezzo preferito di lui. Claudia lo guardò con occhi di perla pregiata mentre, stringendogli le mani al collo, sussurrò all’orecchio: “tutto questo mi piace, è incredibile”. Piovve, ma restarono imperterriti. Le luci dei lampioni si accesero di colpo dopo qualche intermittenza, illuminando il centro della piazzetta. Esistevano solo loro. Il tempo si fermò a quell’attimo, così come i loro cuori probabilmente.

Un passo, poi due, infine la silloge, il bacio. Fu così travolgente che quasi dimenticarono di essere lì, vicino ai duemari¸ davanti al faro che ne illumina il centro nevralgico creando un vortice di correnti che confonde, illude. Tommaso le accarezzò con delicatezza il volto, baciandola più volte. Quando si fermarono, si guardarono con lo sguardo spaventato, tipico di chi non sa cosa aspettarsi dopo.

Claudia aveva gli occhi molto lucidi, sembrava che non provasse nulla. In realtà era felice, ma ancora non lo sapeva. Tommaso rimase in silenzio lungo il tragitto per riportarla a casa. Solo una volta arrivati trovò le parole, voleva dirle che era stato bene e che gli sarebbe piaciuto incontrarla di nuovo. Gli uscì soltanto “buonanotte”. Lei ricambiò. Ci fu un altro bacio, stavolta più passionale.

“Adesso sto bene, Messina non è un ambientazione casuale”, pensò fra sé Tommaso. Abituato a toccate e fuga, questa volta avrebbe voluto passare il resto della notte con lei e aspettare l’alba, magari andando verso Santo Saba dove le case sono tutte basse, rivolte al mare. In quella parte la Calabria si vede poco, ma comunque quell’immensità dona un senso di pace che quasi supera il canone comune.

Arrivato a casa, il senso di vuoto lo inquietò per tutta la notte: “lo Scirocco è giunto e forse dovrei cambiare aria, Lei non esiste, forse era solo una mia proiezione”. Pensò a lei il giorno dopo, e il giorno dopo ancora, finché non si incontrarono un’altra volta.

Maledetta città. Eppure, da quel momento, Tommaso non poté più fare a meno di Claudia e viceversa.

Federico Ferrara

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia 

Il sangue è sangue

Marina fumava un pacchetto di Marlboro rosse al giorno. Quando era nervosa ne girava una fra le dita e poi l’accendeva all’orizzonte di un appartamento al quinto piano da cui si vedeva il tramonto. Osservava dai suoi occhi verdi quelle quattro mura come una prigione, e solo dipingere all’alba con un posacenere accanto le rendeva le giornate meno pesanti.

C’era solo un piccolo problema: Marina era in attesa di una bambina. Il desiderio più grande della sua vita insieme alla realizzazione di una carriera artistica era quello di creare una famiglia tutta sua. Si è sposata a ventisette anni ma da allora, nessuna inseminazione artificiale o medico competente riuscì ad aiutarla. Dissero alla coppia di novelli sposi che non c’era nulla da fare.

Cinque anni dopo, una dottoressa scoprì dalle analisi un alto valore che impediva l’inseminazione naturale: la prolattina. Con l’utilizzo di alcuni farmaci ristabilizzanti, Marina si scoprì felicemente in attesa. La bambina nacque esile e con dei boccoli avorio presi dal padre. Niente occhi verdi. Erano grandi, così scuri da perdercisi dentro.

La chiamarono Alice, come la dottoressa che permise la sua nascita. Si rivelò essere una bambina quieta, amante della lettura, del disegno e della musica.

-“Mamma me lo leggi il libro dei racconti.” -“Leggilo tu a me, sei più brava tu!” -“C’era una volta una principessa che viveva in un palazzo…” – cominciava lei. Quando Marina si addormentava, la bimba chiudeva il libro e si accoccolava sulla sua pancia ad ascoltarne il battito.

Guardando Marina che stirava accendendo una sigaretta e che persino mentre cucinava aveva la smania di fumare, la bimba a soli quattro anni le strappò una promessa.

-“Mamma mi prometti che smetti di fumare?” -“Tu allora devi promettermi di non metterti più il dito in bocca.” Imbronciata Alice annuì. Avevano un tacito accordo.

Non c’era gioco che non facessero insieme. Dalla parrucchiera alla cuoca. Non c’era cartone animato che non avessero visto insieme. Le battute degli Aristogatti potevano dire di conoscerle a memoria. Non c’era libro che non avessero letto o canzone che non avessero ballato. Papà rientrava da lavoro e si metteva a giocare insieme a loro fino all’ora dei sogni.

Dieci anni dopo, Alice era quasi un’adolescente e iniziava a truccarsi. Aprì l’armadietto dei profumi della mamma e tra le varie boccette scorse un pacchetto rosso. Cominciava a ragionare con la sua testa, seppur acerba di idee. Si fiondò in cucina alzando la voce. -“Avevi detto che non avresti più fumato! Lo avevi promesso. Sei una bugiarda. Lo avevi promesso. Io non mi ciuccio più le dita, sono grande ormai.” Rimase arrabbiata fino a dopo scuola quando poi la mamma le fece una delle sue torte all’arancia. – “Ali prima o poi smetterò vedrai.”

Alice si sentiva ormai grande e doveva fare le cose da grandi. -“Dovrai essere una donna indipendente un giorno, perciò devi imparare a fare le faccende di casa tanto quanto a studiare da sola.” Curiosa com’era, non aveva bisogno di essere forzata a fare i compiti. Ma di lavare o cucinare non se ne parlava. Era troppo persa nei suoi giochi e nei suoi desideri. Lavando il servizio di porcellana sovrappensiero ruppe uno dei bicchieri. -“Mi dispiace mamma… lo ricompriamo, oppure te lo riattacco io , dammi tutti i cocci!” -“Ali non è necessario. Avremo una cosa in meno da lavare!” Il suo sorriso smagliante non poteva tradire sconforto perché quella bambina, non le aveva ridato solo la gioia. Le aveva ridato la vita.

Qualche anno più tardi il nonno si ammalò e Marina se ne prese cura giorno e notte. -“Perché non ti fai aiutare da tua sorella ? Perché devi occupartene da sola?” -insisté suo marito. -“Mia sorella lavora e io no. Io non ho nessuna carriera da mollare. Io ho solo la mia famiglia.” -“La famiglia non è tutto. C’è la salute, la tua salute Marina.” Non volle sentire ragioni, prese le chiavi di una seicento azzurra e partì di notte verso l’ospedale. -“Perché mamma deve andarci proprio tutte le notti?” -“Perché mamma dice che il sangue è sangue e non si abbandona mai.”

Il nonno si spense una notte di quelle e con sé portò via un frammento della figlia. Alice era ormai un’adolescente in piena, sentiva il peso dei problemi della sua età. I litigi con le amiche, i primi amori e la competizione a scuola su chi fosse la migliore. E poi c’erano i genitori da cui si sentiva sempre incompresa e sempre esclusa dalle questioni degli adulti. Ma lei era ormai una di loro! Aveva diciassette anni e ancora le tenevano nascosto il mondo! -“Questa casa è una gabbia, una prigione. Non mi ascoltate quando parlo, non vi fidate di me quando esco e mi tartassate di limiti di orari.” -“Non parlare così Alice… Magari non ti capisco ma ti sto offrendo tutto l’amore che ho.” -“E’ un amore soffocante lo capisci? Sei troppo attaccata a me e mi chiami di continuo anche quando sono con i miei amici.” -“Perché sei tutta la mia vita non lo sai?” -“La tua vita dovrebbe essere fatta di tante altre cose, non solo di una figlia!” -“E non credi che ci abbia provato? Cosa pensi? Che se avessi avuto i soldi per l’accademia d’arte non avrei tentato l’ammissione? Io volevo che tu avessi le possibilità che io non ho avuto !”-gridò tra le lacrime. -“E allora io voglio scrivere, io dopo il liceo voglio fare l’università di Giornalismo.” -“Farai quello che ti piace Ali, l’importante è che tu abbia un lavoro in mano e possa dire di essere libera.”

Durante l’anno di maturità, solo in una materia non riusciva ad avere voti alti: chimica. Una misera sufficienza guadagnata con tante ore di studio. -“Mamma non riuscirò mai ad avere un nove con la professoressa di chimica. E’ troppo esigente e io sono scarsa. Io non le capisco le formule, le reazioni chimiche. Non è pane per i miei denti.” -“Se continui ad avere questo atteggiamento negativo non riuscirai a mantenere neanche la sufficienza. Devi crederci Alice. Se non ci credi tu chi deve farlo?” -“Tu ci credi in me?” -“Certo che ci credo. Tu puoi fare tutto. Mi hai sentito? Tutto.”

E si misero a studiare le formule chimiche del metanolo, dell’alcol etilico, dell’acido acetico. Espressioni che pian piano divennero familiari. Alice prese il tanto atteso nove. Anzi, il voto massimo della maturità le fece capire che sua madre aveva ragione. Lei poteva fare tutto.

Negli anni dell’università, abitando lontano da casa non si accorse che Marina faceva finta di stare bene al telefono. Mutava la voce rauca in una allegra e le chiamate erano brevi. L’ultimo weekend che Alice tornò a casa volevano guardare un film di Natale insieme ma Marina disse che si sentiva poco bene e andò a letto presto. Non si preoccuparono più di tanto, appariva come un semplice malore al petto. Successe così rapidamente che non le sembrò reale. L’ospedale, i medici, il funerale. L’ultima volta che Alice la vide fu in un reparto che puzzava di alcol. -“Perché sei venuta Ali, devi tornare a lezione. Devi farti la tua strada. Non devi pensare a me. Devi guardare al tuo futuro.” -“Sono venuta per dirti che sei la mamma migliore del mondo e che il sangue è sangue e non si abbandona mai.”

 

Alessandra Cutrupia

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia