A volte

A volte è meglio non pensare,
lasciar andare via i pensieri,
molto meglio ascoltare qualcuno
per andarsene dalla propria testa
ed entrare in un’altra.
A volte è meglio fregarsene,
essere troppo buono significa essere ingenuo,
anche se la bontà è rara e la possiede
solo chi ha troppa anima.
A volte meglio partire per dimenticare,
ma non viaggiare, partire di testa,
essere folle, strano, con l’anima in festa;
ricorda: “senza pensieri vivi di più.”
A volte meglio essere se stessi,
senza filtri né maschere,
con la sincerità dentro gli occhi
e i sogni dentro l’anima.
A volte meglio prendere la vita
con più leggerezza,
senza massi dentro al cuore,
per un cuore più pulito
e una testa meno pesante.
A volte meglio sognare,
cadere per poi rialzarsi
ed essere più forte,
perchè dai fallimenti nascono i sogni
e dai sogni nasce la felicità, che non è mai abbastanza…
A volte….

Miriana Postiglione

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

The Legend of Zelda: un racconto

Il fuoco bruciava davanti ai suoi occhi e il calore che emanava cominciava a conciliargli il sonno.
La foresta in cui si trovava era a nord del castello del regno, al confine con le terre innevate ad ovest. Era arrivato lì dopo aver attraversato tutta piana delle terre centrali: chilometri di prateria e piccoli boschetti di mele. Si era procurato un po’ di carne dai cervi che abitavano lì, ma ora era quasi finita e rimanevano ancora tante terre dove ricercare indizi.

Forse è meglio partire all’alba, i mostri spawnano di notte
(A)BIVACCA?    (A)SI      ALBA?   (A)SI

Si disse che forse sarebbe stato meglio aspettare la notte davanti al fuoco e non affrontare i pericoli notturni. La mattina dopo si alzò e camminò fino alla cima della collina su cui si trovava: gli alberi non crescevano lì ed aveva una visione chiara di quello che aveva davanti. Ad ovest le montagne da cui arrivava il freddo vento d’inverno, ad est il vulcano, da cui avevano smesso di uscire i fumi: una nebbia scura copriva tutta la cima, la stessa che era eruttata da sotto il castello mesi prima.
Doveva rimettersi in cammino, ma gli serviva una pista da seguire. I suoi occhi cominciarono a scandagliare il paesaggio più a fondo.

La mappa mi dice che da qualche parte qui vicino dovrebbe trovarsi una grotta. Ma come cavolo ci arrivo?
Mi servono altri due indizi prima di sapere dove sta la principessa.

Alla sua sinistra verso il basso la foresta si apriva verso una piccola rientranza in una parete rocciosa. Decise di andare a vedere.

Devo calarmi con la paravela, in linea d’aria il percorso è più veloce.
AVANTI                               (X)SALTA             (X)PARAVELA   

Prese la rincorsa e cominciò a correre verso il vuoto. Si lanciò. I suoi piedi persero contatto col terreno e l’aria cominciò a fargli lacrimare gli occhi. Con un rapido gesto aprì il piccolo paracadute che conservava sulla schiena e cominciò a librarsi nell’aria. Il vento gli sbatteva in viso e doveva fare parecchia forza con le braccia per tenere fermo il telo che la faceva planare.
Arrivato nei pressi della parete che aveva notato cominciò a calare verso il suolo, e ad addentarsi tra gli alberi. Notò una piccola apertura coperta da rampicanti.

Lo sapevo! C’era per forza qualcosa qui, ce l’avevano messo sicuro. Guarda che ora solo per intuito riesco a risolvere un enigma. Vediamo un po’ che cosa trovo dentro a questa grotta

Si addentrò verso l’apertura.

NUOVO SITO SCOPERTO: GROTTINO DEL BOSCO REALE

Da dentro giungeva uno strano suono, come un sussurro: avrebbe fatto leggermente accapponare la pelle a chiunque, ma lui estrasse la spada e tagliò via le piante che stavano ad ostacolo.
Entrando il buio lo accerchiò.

Fammi prendere un seme che non si vede nulla qua dentro
(+)MENÙ            SEME     (A)SELEZIONA

Tirò fuori dallo zaino che aveva sulle spalle un seme luminoso, gli diede una forte botta e questo sbocciò in un fiore illuminandosi. Lo alzò in aria per fare luce. La grotta continuava senza fine.

Scusa, ma come fa a continuare così tanto? Dove cavolo arrivo adesso?

Continuando ad esplorare trovò covi di pipistrelli di cui dovette disfarsi e rocce enormi che bloccavano il cammino. Continuò ad andare avanti, il sussurro adesso era diventato una flebile voce.
Più andava avanti e più sentiva vicino l’obiettivo: forse qui non si trovava solo un altro indizio, forse qui era nascosto qualcosa d’importante. Doveva continuare ad andare avanti.

Mamma mia, non finisce più questa grotta. Dove cavolo sono finito. Guarda che c’hanno messo qualcosa di grosso qui, me lo sento.

Spostò un altro masso, con ancora più fatica dopo essere arrivato così in fondo e si trovò davanti una lastra di pietra perfettamente rettangolare con un buco al centro. Sembrava quasi…

Ci sta una serratura qua, è una porta! Fammi pensare, fammi pensare. Finora qui non mi hanno dato niente per aprirla. Non riesco a capire come fare.

La voce si fece ancora più intensa e proveniva da oltre la parete. Appoggiò una mano sulla roccia e la voce si innalzò scuotendo leggermente le mura. Questa volta non fu qualcosa di intellegibile, ma solo il rimbombo di una voce profonda che parlava in una strana lingua.
La spada dell’avventuriero cominciò a vibrare leggermente nell’elsa. La estrasse e la vide illuminarsi di una flebile luce blu.

Ho capito!

La spada rientrava perfettamente nel buco dentro la roccia. La inserì e la lastra sembrò svanire come nebbia facendolo passare attraverso.
Dopo un piccolo corridoio, arrivò in una stanza dal soffitto basso con uno scrigno al suo interno. Appoggiò il fiore luminoso per terra e aprì lo scrigno: una singola collana e un biglietto.
Sulla piccola pergamena un messaggio.

NUOVO OBIETTIVO: RITROVA IL DIARIO DELLA PRINCIPESSA

Lo sapevo che dentro c’era qualcosa d’importante, lo sapevo! Ora toccherà vedere dove staranno le altre pagine, magari ce ne sta uno nei sobborghi del castello…

Prese l’amuleto e se lo mise al collo, sentendo un impulso guida che gli mostrava immagini di altri luoghi del regno. Prese la mappa dallo zaino e la mise per terra sotto la luce del fiore: segnò alcuni luoghi che potessero corrispondere alle immagini e richiuse la pergamena. Riprese tutto addosso e si incamminò di nuovo fuori dalla grotta.

All’aria aperta il vento gli soffiava sul viso ed una brezza frizzante gli diede l’impulso a rimettersi in cammino.

Vediamo dove andare adesso.

Matteo Mangano

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Falene

-Se dovessi essere un animale, che animale saresti ?

– Mio nonno diceva sempre che noi siamo delle falene.

– Falene? Come mai?

– Perché le falene, quando tutto è buio, sono attirate verso l’unica fonte di luce che si fa strada nella notte. Il loro obiettivo è raggiungere quella luce, che sia una lanterna, una torcia, una candela o la luna . E quando questa luce si spegne, loro rimangano nel profondo dell’oscurità, sono disorientate, vanno a sbattere all’impazzata perché non hanno più il loro punto di riferimento, la luce che da un senso alla loro vita. E noi siamo così, siamo falene e facciamo degli altri e delle abitudini la nostra luce. Ma proprio come delle lanterne anche gli altri possono spegnersi e abbandonarci; come anche le abitudini possono cambiare e crollare. Facciamo della nostra fonte di luce una certezza, ma la verità è che non esiste niente di certo e proprio come la falena ci troviamo a brancolare nel buio, nella nostra oscurità, perché fino a quel momento eravamo convinti che quella persona o quella cosa fosse la nostra luce, senza accorgerci che la nostra luce siamo noi. Siamo noi soltanto .

Carla Mascianà

Gli amanti

Secondo me la scrittura ha un bellissimo potenziale. Puoi rendere speciale la vita di chiunque e rendere indimenticabile la più piccola delle cose. Ora devi solo immaginare.

Sotto l’acqua di una cascata, immersa nella natura nel silenzio più assoluto una donna si lava.
L’acqua scorre sulla sua pelle, attraversa tutte le sue curve.
Sebbene sia giugno, l’acqua è fredda e le fa venire la pelle d’oca dappertutto.
La donna sembra pensierosa e l’acqua sembra lavare via ogni pensiero, anche quello più sporco, anche quello più triste.
Un uomo la vede, si nasconde e inizia ad osservarla… lei è rivolta di schiena, sposta i lunghi capelli neri da un lato, gira un po’ il viso dal lato opposto e inizia a sorridere gioiosamente perché l’acqua che scorre le provoca un piccolo solletichio, si sposta e lascia che l’acqua scorra sui seni.
I seni sono piccoli e sodi, l’acqua quasi gelida le fa diventare i capezzoli duri, lei continua a sorridere come se avesse spezzato la tristezza.
L’uomo è ancora là, la osserva… come si fa a non guardare tanta bellezza? La pelle candida della donna lo ha letteralmente abbagliato. Ma non solo: il sorriso, la schiena, la vite sottile, i larghi fianchi dove le gocce d’acqua che scorrevano sembravano tante piccole carezze, fecero venire sete all’uomo. Per qualche strana ragione lei si girò e lo vide, aveva uno sguardo un po’ perplesso mentre lui si era preso di imbarazzo, stava per andare via quando lei lo chiamò.
L’uomo senza neanche riflettere tolse i vestiti ed entrò in acqua. Si avvicinó delicatamente, come se sapesse che un gesto brusco l’avrebbe fatta andare via. Non appena l’uomo le fu vicino, iniziò ad osservarla meglio: gli occhi neri della donna lo avevano incantato. Le giró attorno quasi scrutandola, lei rimase immobile.
Lui si fermò dietro la donna, si prese di coraggio, e molto dolcemente posó le labbra sulla spalla di lei. Lei divenne immobile, il respiro le si era bloccato, e lui che se ne rese conto, l’avvolse tra le braccia. E dalla spalla spostò le labbra al collo ed iniziò a baciarlo, di colpo voltò la donna e la strinse forte a lui. Osservava gli occhi grandi e cercava di scoprire qualcosa, ma quello che vide fu solo un ardente fuoco. Lei si abbandonò a quell’abbraccio e i due si fecero sempre più vicini fino a quando avevano la distanza di un respiro. Iniziarono a baciarsi. Lei mise le sue braccia attorno al collo di lui e lasciò scivolare una mano sulla schiena di lui, mentre l’uomo curioso scopriva il corpo di lei con mani e bocca.
Dalle labbra scende al collo, e dal collo ai seni, e mentre la bacia lascia le mani ad esplorare e scoprire quel corpo.
Lei trema: non aveva mai provato niente del genere mentre lui, lui non aveva mai trovato il sapore dell’acqua così dolce.
Questo è il gioco degli amanti.

Rachele Salvà

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Il Conte di Vendramin

Il Conte di Vendramin era noto per la sua inestimabile bellezza e per il suo insulso desiderio di solitudine. Si diceva che un tempo il Conte avesse amato una donna che lo condusse alla rovina e che si fosse ritirato ormai da anni nella sua tenuta.

Un giorno, un bimbo di nome Malcom si inoltrò nella vasta proprietà di Vendramin, pensando di stare esplorando una selva sconosciuta. Al centro del territorio era situato un castello logoro e consumato, che agli occhi del bambino appariva imponente e spaventoso, con i rami degli arbusti che intrecciavano le due torri e i fiori appassiti che si rampicavano sulla porta, quasi a volerne impedire l’accesso.

Aleggiava, intorno alla fortezza, un clima tenebroso. Malcom, essendo stato ben educato, pensò di bussare prima di addentrarsi nel castello. Batté il pugno tre volte nell’unico spazio risparmiato dai fiori rampicanti.

Dopo qualche minuto di attesa, indugiando sulla soglia, Malcom pensò di non essere il benvenuto e credette di doversene andare senza poter raccontare a sua sorella nessuna straordinaria avventura. Improvvisamente i gigli appassiti si ritirarono dall’uscio, facendo scricchiolare la porta che lentamente s’apriva.

Il bimbo, con le labbra appena dischiuse per lo stupore, avanzò nel buio e le candele di un candelabro posto in alto al centro della sala, presero fuoco.

Il battito cardiaco di Malcom accelerò e la sua brama di avventura crebbe tanto da sovrastare il timore. “Quando ero solo un bambino, proprio come te, non avevo molti amici.” -disse una voce solenne dall’alto. Malcom alzò gli occhi per scoprire da chi provenisse ma sulle scale che portavano al piano superiore non vi era nessun signore, tantomeno un illustre Conte.

“La mia fedele compagna era la musica. Riusciva ad alleviare ogni mio dispiacere.” -proseguì la voce. “Qualche tempo più avanti, quando ero appena un giovane, ereditai la proprietà dei Vendramin, alla morte del mio anziano padre… ma perché non vi sedete giovanotto? Se siete giunto fin qui vorrete pur conoscere la disavventura di questo caro vecchio Conte.”

Il bambino obbedì e si sedette su una seggiola in legno anche se non si aspettava di dover raccontare a sua sorella un’impresa con un protagonista diverso da lui. La voce prese un respiro profondo e disse: “Ero un ragazzo solitario che godeva della vita a modo suo. Mi piaceva suonare il piano ma non avevo la pretesa che agli altri piacessero i miei componimenti , dunque non li riproponevo ai teatri, né chiedevo il consiglio dei grandi maestri; semplicemente conservavo in un cassetto il mio spartito per ogni volta che avrei sentito il bisogno di suonarlo.

In quel periodo venne a trovarmi la duchessa Lola di Ivanov per porgermi le sue condoglianze. Una donna caparbia, elegante e poco più grande di me. Si trattenne per la cena e durante il pasto mi rivelò il secondo motivo della sua visita: un matrimonio.

Pensava che se io l’avessi presa in moglie l’avrei salvata dal suo triste declino economico e che, così facendo, avrei onorato una promessa fatta al duca di Ivanov da mio padre.

Io risposi che non ero al corrente dell’accordo stipulato tra i nostri padri e che non era mio compito onorare alcuna promessa che non fosse mia. Lola cercò di convincermi ma la mia decisione fu irrevocabile: Non desidero avere alcuna compagna al mio fianco né per il momento, né per il futuro. In altre parole, non intendo sposarmi, né ora né mai duchessa.

Lola accolse il rifiuto come si accoglie una pugnalata alle spalle e mi avvertì: Il suo insulso desiderio di solitudine le costerà caro, giovane Conte.

“Ma signor Conte, perché mai le sarebbe costato caro non prendere una donna in moglie?”-lo interruppe Malcom. Vendramin non rispose e continuò il suo racconto.

“Passarono anni e il fascino della mia giovinezza s’andava dissolvendo. E ogni pomeriggio che sentivo cupo e desolato, mi sedevo al pianoforte con lo spartito sul leggio. Giorno dopo giorno le melodie mi risuonavano alle orecchie più come vibrazioni che come musica. Compresi, dopo qualche mese, che le mie orecchie stavano perdendo la percezione, non solo della musica ma di qualsiasi altro genere di suono.

Durante la vecchiaia mi resi conto che ero rimasto da solo e che nemmeno la musica mi avrebbe più tenuto compagnia. Lola di Ivanov, quando ero solo uno stolto giovanotto, voleva intendere che la solitudine non può che essere un desiderio assai sciocco per uno che nella vecchiaia l’avrebbe vissuta più come una punizione che come un’aspirazione.

E così anche la mia fedele compagna mi abbandonò, l’unica donna di cui mi fossi mai innamorato, l’unica che se avesse assunto le sembianze di un’umana, non avrei rifiutato a sposare.”

Malcom, incantato da una parte e dispiaciuto dall’altra per la disavventura di Vendramin, sentì il peso dell’impotenza poiché qualsiasi parola di conforto avesse pronunciato non sarebbe giunta alle sue orecchie e soprattutto non gli avrebbe restituito la sua amata devota. “Nessuno era più venuto a trovarmi in questi anni, se vi fa piacere, tornate pure. Conosco molte storie da potervi raccontare, sebbene io non possa più udirle.” Da quel giorno i gigli, che avevano ripreso un po’ di colore, lasciavano entrare Malcom ogni volta che si presentava alla porta battendo tre colpi su di essa e stando ben attento a bussare nello spazio non ricoperto dai fiori, naturalmente.

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia.

*Il Conte di Vendramin è il primo di una serie di racconti.

Catena di lana

Viaggia
Coperto dal vento il tuo ricordo,
Ed io non so
Se mi è compagno
Se mi è nemico
Perché mi sorregge
E al contempo mi intrappola,
Mi fa vivere il presente
Ma mi àncora al passato.
Ed io non so
Se ciò che mi avvolge
È una coperta di lana
O una catena d’acciaio.

Francesco Pullella

*Immagine in evidenza: illustrazione di Giovanni Pullella

Frammenti di quotidianità

I miei occhi, nomadi, ingoiano raggi di luna,
andati di traverso per la gola
e si incastrano nella pupilla dell’infinito.

Un uomo, trascinandosi il cielo in spalla,
si nasconde dietro il sole in silenzio,
inventa passi di luna e mi strizza l’anima dal pianto.

Vene rotte mi cadono a terra, brontolano le mani,
strappo le viscere del cielo e me le infilo in tasca,
mi brucia la pelle, sento le stelle battermi nelle vene.

Sbircio dentro: ho lo stomaco pallido e l’universo in subbuglio.

Domenico Leonello

Un Picasso sopra le righe

“Scrivi una pagina di diario di un personaggio storicamente esistito tralasciando ciò che le biografie dicono già.”

Parigi, 8 marzo 1916

Caro diario, giusto?

Credo si faccia così, no? Trovo sciocco dare del tu a un quaderno, come se potesse ascoltarmi. Per questo motivo spero di non offendere i tuoi sentimenti da mero oggetto privo di vita dicendoti che probabilmente, quando non mi servirai più, verrai bruciato. Sarebbe davvero disdicevole se un giorno, dopo la mia dipartita, queste pagine finissero nelle mani di un biografo. Cosa penserebbe il mondo se venisse fuori che passavo le notti solitarie a piagnucolare? Imbarazzante. Non che mi interessi un granché del parere altrui, ma è questione di orgoglio personale: senza offesa, ma sono largamente superiore a queste fragilità d’animo… Di solito… Oggi però ho bisogno che qualcuno mi ascolti e non che mi compatisca inquinando l’aria con parole a vanvera. Non ho necessità neppure di consigli distratti (soprattutto quelli). Ammetto quindi che in certi casi è più proficuo rifugiarsi in un angolo di foglio che con amici che sanno solo metterti nei guai! Come quel fesso di Apollinaire che un paio di anni fa era stato accusato di aver rubato la Gioconda e fece scaltramente il mio nome in tribunale. Io, chiamato in causa, dichiarai di non aver mai visto quella carogna!

Ma veniamo a noi. Stamattina nel mio atelier due signori ben vestiti si sono fermati a lungo di fronte a una delle mie ultime creazioni: Eva sul suo letto di morte. Quei minuti interminabili hanno creato un’atmosfera tale da portarmi a rivivere la gravosa perdita. Non ero capace di prendere ampio respiro e un chiodo in fiamme penetrava la mia gola a ogni apprezzamento stilistico. Strano. I miei quadri rivelano sempre squarci di vita vera costellata da intimità di donne possedute… Potrebbe sembrare un’arma a doppio taglio… Ma in realtà quando vengono poste sotto attento esame estraneo, provo solo un immenso compiacimento.

Condividere le mie dee e permettere a questo mondo fatto di inetti- incapaci anche solo di guardare donne di questo calibro – di assaggiare le loro curve tramite l’arte, è un atto di generosità. Meglio, carità.

Per me la crème francese: donne dai musetti squisiti e gambe lunghe.

Per loro, squallidi zerbini. Donnacce. Volgari prostituèe.

Puoi forse tu giudicarmi? Ho solo un gran fiuto per tutte le avventure esotiche che si nascondono per le strade di Parigi, apparentemente fredda cittadina europea, ma ardente nelle passioni come me.

In ogni caso uno dei due, decisamente il più insipido, ha tentato a un certo punto di comunicare con me chiedendomi quale fosse il male che affliggeva la fanciulla dipinta e la mia risposta è stata coincisa: L’Enfer. Non credo esista parola più azzeccata per identificare la malattia che ha portato via Eva, la prima tra tutte le donne, mia quasi sposa e la mia dolce sorellina di soli sette anni, Conchita. L’Enfer è la bastarda tubercolosi. Ogni volta che osservo quel quadro io, tra quei lineamenti esangui, intravedo anche quelli di Conchita. Durante gli ultimi giorni della sua misera vita, io avevo tredici anni e mi sono messo in ginocchio facendo un solenne patto con Dio: se davvero voleva prendermi qualcosa, doveva portare via la mia arte e lasciarmi lei. Se l’avesse risparmiata, io non avrei più toccato un pennello.

Per vostra fortuna, l’ha uccisa.

Tengo a quella tela in quanto bravo fratello maggiore, oltre che fedele vedovo.

In ogni caso, cacciati via i due intrusi che non avevano alcuna intenzione, o possibilità, di aprire i portafogli, come non potresti mai immaginare io… sono piombato nell’appartamento di Irene. L’ho presa impetuoso appena mi ha aperto, vedendola maledetta con addosso una blusa bianca e delle civettuole mutandine camì e… Abbiamo fatto l’amore per due ore. Questo non significa che non ami più o non sia in lutto per la mia quasi moglie deceduta. Anzi. Sopperisco la mancanza con abbondanti pasti.

Infatti tengo a precisare: Irene la odio. Irene Lagut, la bestia. Volubile. Frivola. Capricciosa. Scapestrata di dubbia moralità. Buffa, anche, come i pagliacci che scarabocchia su tela. Ho un’idea per un nuovo quadro…

Dopo l’atto, allora ho preso le sue pantofole e le ho gettate dalla finestra per confinarla a letto con me tutto il giorno (simbolicamente sì, perché lei camminerebbe scalza pure sul fango). La sua reazione? Una grossa e grassa risata. Ha riso di me, parecchio, raccontandomi poi con un inverosimile nonchalance dei seni di una signorina conosciuta la sera prima a teatro. Su tutte le furie ho ragionato di ucciderla col revolver. Sai… è sempre con me. Fuori dalla rabbia le ho dato un secco schiaffo e ho sputato per terra, congedandomi.

Durante tutto il tragitto fino a casa ho pensato a come io abbia passato questi ultimi mesi tra le gambe di una donna dissoluta quando vorrei essere tra le braccia della tenera e mansueta Eva mia.

Lei che si prendeva cura di me. La prima donna. I love Eva. Colei che non ha conosciuto né il mio disamore né il mio disprezzo. Io che continuo a dipingerla con colori più vivi che mai nonostante mi abbia lasciato solo e con tanta voglia di amare.

Così io nel lusso di una passeggiata infinita ho riflettuto che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte senza richiamo, senza torpore, ma soprattutto senza senso di spogliarsi in fretta non riposando più addosso a un corpo innamorato che mi aspetta.

E quindi, je t’aime Eva- ovunque tu sia- je t’aime.

Jem’Eva. Io sono Eva.

E caro diario forse tu sei me e non posso evitare di apprezzarti almeno per questa notte.

Un abbraccio.

 

Isabel Pancaldo


Immagine in evidenza: Illustrazione di Isabel Pancaldo e Marco Castiglia

Il Silenzio

Ogni brivido sulla pelle, ogni
goccia di vento che cade senza perdono
e mai scuserò quegli occhi rossi di rabbia,
poche volte l’indifferenza ha regnato,
in mezzo al nulla.
Una volta attraversato il fiume rosso,
più ha cambiato il suo sguardo.

Geme un canto disordinato
e nella confusione del suo desiderio
non agisce più per ragione
ma per spavento,
e il mio lamento, che soffoca il respiro…

Non voglio più capire
e solo sentire le sue parole
sembra inebriare l’anima di nero,
cieco ma sento ancora
ogni tuo verbo di disprezzo,
stringi a te il silenzio che manca.

Lardo Benedetto

 

 

Immagine in evidenza: illustrazione di Benedetto Lardo

Tacito accordo

Arte.
Travolgente,
arriva lenta, resta sopita per un po’,
non urla, non è un vulcano in eruzione.

Arte.
Arriva silenziosa, si infiltra dove trova una porta rimasta socchiusa.
Smonta certezze,
crea domande.
Riempie un vuoto per crearne un altro subito dopo.

Guardando tra le pennellate
si scorge qualcuno che ha vissuto come me,
qualcuno che è stato me prima di me.

Io, immobile, davanti a un Picasso,
che urla in silenzio senza colori
la pece nera della guerra.

Io, immobile, davanti a un Kandinskij,
che scardina l’ordine imposto dal mondo
nel momento stesso in cui è nato.

Io, immobile, davanti a Bernini,
che dona il soffio al marmo,
corpi vivi intrecciati più autentici degli uomini.

Semplici artisti?
Forse qualcosa di più.
Si sentono urla anche se tutti stanno in silenzio.

Diventa un gioco di fiducia,
un tacito accordo,
un patto mai davvero siglato:
accetto di ritrovarmi in te
perchè so che conservi qualcosa per me
tra le veloci pennellate,
tra le pieghe del marmo.

Un delicato urlo,
un gioco di scacchi.
A ogni quadro il suo spettatore,
a ogni spettatore il suo artista.

Pur restando in un museo deserto,
non potrebbe mai esserci solo silenzio.
Mille voci si accavallano,
attendono solo un orecchio attento.

 

Giulia Cavallaro

 

 

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia