Non togliermi il tuo amore

Non togliermi il tuo amore,

le tue parole, il tuo sorriso.

Toglimi il vino e il vizio del fumo,

toglimi le scarpe, la maglia, il cuore

ma restami accanto nel dolore.

Portati via le cicatrici,

i tagli e l’aria delle mie narici,

ma non togliermi il tuo sapore,

perché è la fonte del mio vivere.

Prenditi le mie poesie

ma non togliermi il tuo amore,

perché come Amore amava Psiche,

così io amo te. 

Levami tutto e tutto prenditi,

ma non togliermi il tuo amore.

 

Gaetano Aspa

 

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Maschere

Se giungesse
una persona perfetta,
con fare bonario,
e ci tendesse la mano?
Quella stessa persona
s’insinua nel cuore,
con apparenza composta,
e ne fa il suo gioco.
Indossa una maschera
di bella manifattura
per riuscire ad ingannare
e turbare l’animo per sempre.
Dobbiamo avere coraggio,
nonostante le maschere,
per distruggere le apparenze.
La persona vera è quella che
una maschera non ce l’ha
e mostra sempre la verità
fatta di trasparenza e credibilità.

Alda Sgroi

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Vite nascoste

Il fiore era stupendo, si ergeva con tutta la sua magnificenza. Sembrava che non potesse morire mai. Non era come i classici fiori mortali, che alla fine del loro ciclo di vita appassiscono. Questo gli attribuiva un’aura di bellezza collaterale: il tempo scorreva, ma i petali non perdevano il colore rosso intenso. Ma ecco che ad un certo punto Denise iniziò a percepire qualcosa. Una mano si allungava per prendere il fiore e cominciava a staccarne i petali, che cadevano così per terra. Tutti i petali caddero e perirono, ma solo uno rimase attaccato al ricettacolo. La mano scomparve, al suo posto ne apparirono migliaia e Denise non riusciva a riconoscerne l’appartenenza. All’improvviso quel luogo, inizialmente cosi soave e puro, non le apparve più familiare e lei cercò di fuggire. Ma tornò la mano minacciosa, che voleva stritolare il fiore e questa volta Denise non poté più scappare.

Si destò improvvisamente. Attorno contorni poco chiari, ma a poco a poco la stanza assunse i suoi colori. Lo sguardo si posò sull’orologio: le 05:18, praticamente l’alba. Si alzò, si lavò e si vestì. Non prendeva mai caffè, poiché la notte faceva fatica a dormire. Accese la televisione e trovò le repliche di un programma di cucina. Passati dieci minuti si abbandonò di nuovo sullo schienale della poltroncina. Non voleva riaddormentarsi per paura degli incubi, ma il morbido della stoffa la cullava ed era caldo come….

Le sue labbra e lei si lasciò andare a quella sensazione. Le loro labbra si staccarono dopo una ventina di secondi e lei incrociò di nuovo il suo sguardo. Era bello abbandonarsi a quella sensazione, che la trascinava lontano dalla vita e dai problemi. “Hai incontrato mio padre ieri?” gli chiese. Suo padre era stato arrestato alcune settimane prima e ora il suo fidanzato, che si preoccupava sempre per lei, si era offerto di andare a fargli visita al suo posto. Dal canto suo, Denise non provava il desiderio di vedere un uomo che non sentiva più come genitore. Non dopo ciò che era successo, non dopo quello che aveva fatto. Aveva, però, bisogno di sapere se il suo fidanzato era andato ad incontrarlo. “Sai che certe cose non te le posso raccontare, Denì. Lo faccio per farti sentire al sicuro. Però si, ieri sono dovuto andare, perché era importante” concluse lui. Un triste pensiero attraversò il volto della ragazza e la ricondusse alla realtà. Sua madre era scomparsa, lei l’aveva cercata insistentemente, senza riuscire ad avere sue notizie, ed era giunta alla triste conclusione che probabilmente non c’era più. L’unico che poteva sapere qualcosa era suo padre, che ora si trovava dietro le sbarre. Lei era rimasta con i dubbi e la sola compagnia del suo ragazzo a consolarla. “Andiamo in spiaggia” le propose lui, per smorzare la tensione. Effettivamente era proprio ciò di cui avevano bisogno. La spiaggia era satura dell’odore della salsedine ed entrambi rimasero stesi sulla sabbia per un paio d’ore. Ma qualcosa interruppe quel momento, unica nota positiva di una canzone che pareva annunciare solo tragedie. In lontananza si sentirono le sirene di due volanti. “E ora che cosa succede?” disse Denise. Lui posò lo sguardo prima sul mare, poi su di lei e nuovamente verso il mare. “Quello che ti potevo dire te l’ho detto, ma il resto non te l’ho mai rivelato perché non ne avevo il coraggio” disse. “Che cosa c’é di così grave che non mi hai detto? Perché mi nascondete sempre tutto?” rispose frustrata, mentre le volanti si fermavano sul ciglio della strada antecedente la spiaggia. Scesero dei carabinieri e, senza proferire parola, presero il suo fidanzato, che nemmeno reagì, in custodia. Uno di loro le parlò. “Denise, mi dispiace molto per quello che sta succedendo, ma per motivi di sicurezza devi venire con noi”. Scossa e in lacrime, si lasciò andare sul sedile dell’altra volante, con lo sguardo ancora posato su quelle sirene.

Il rumore della televisione la scosse all’improvviso. Si era di nuovo addormentata, mentre in tv andava in onda un poliziesco. C’era una volante impegnata in un inseguimento e il volume era alto, si sentivano suonare le sirene. Non ricordava esattamente il nome della fiction, ma osservando l’orologio si rese conto che erano le nove del mattino. Aveva dormito un po’ alla fine. Fece le pulizie e verso le undici si sedette con in mano un libro. Un suono, proveniente dalla porta, scosse la quiete del mattino. Potevano essere solo loro. Aprii, salutò il capitano, il quale le chiese se andasse tutto bene, se avesse bisogno di qualcosa. I carabinieri erano sempre a disposizione per qualsiasi esigenza, le ricordò. Lei confermò che era tutto ok, che davvero, aveva già fatto colazione e, salutato il capitano, tornò al suo romanzo. Lesse un altro paio di pagine, poi si dedicò alla lavatrice. Mise il detersivo, avviò il tutto e contemplò i giri della centrifuga…

Che non funzionava. Lea aveva dovuto chiamare un tecnico per ripararla. Mentre preparava la colazione e la figlia Denise era ancora a letto, suonò il campanello. Entrò il tecnico, si salutarono e lui si recò a dare un’occhiata alla lavatrice. Quindi Lea, dopo aver preparato il caffè, lo offrì al tecnico, il quale le chiese di passargli un attrezzo. Lei si chinò a rovistare dentro la borsa, ma non si accorse che il tizio si era voltato e si ergeva alle sue spalle. Le afferrò la gola all’improvviso e iniziò a stringere. Lea fu colta di sorpresa, ma non vacillò. Ci fu una colluttazione, durante la quale lei andò a sbattere la testa contro il muro, facendo volare la tazzina, che andò in frantumi riversando il caffè sul pavimento. Quando sembrava sul punto di perdere i sensi, qualcosa intervenne e fermò il tizio. Era Denise, che, probabilmente svegliata dal rumore, si era accorta che qualcosa non andava ed era intervenuta, lanciandosi addosso all’uomo. Lea si accasciò a terra, mentre l’aggressore fuggì. Una volta rialzatasi, corse a verificare le condizioni della figlia. “Stai bene?” le domandò, visibilmente preoccupata. “Si, mamma, sto bene. Ma tu sanguini!!” esclamò con voce tremante Denise. Dopo aver medicato la fronte, dovette rispondere ai molti interrogativi della figlia. “Chi era quello? Ha cercato di farti del male!! Voleva ucciderti? E perché?”. Lea le spiegò i motivi per i quali erano sempre in fuga, perché lei non poteva avere una vita normale e che per fortuna il tipo non aveva aggredito anche lei. Dopo la spiegazione e la medicazione alla testa, Denise fece colazione masticando toast…

Al formaggio. Dopo un piatto di pasta, ogni tanto ne preparava uno. Almeno c’erano Giorgio e Carla a tenerle compagnia. Denise ripensò a quando i toast li preparava sua mamma, la mattina a colazione, ma anche a quei momenti che passava insieme a lei, a quando ridevano insieme ed erano spensierate. Giorgio e Carla erano, oltre che amici, i carabinieri della scorta. Lui, diplomato ragioniere, a 22 anni aveva deciso che la sua carriera era destinata alle forze armate, e lei, invece, aveva iniziato quel percorso già all’età di 18 anni, dopo essersi diplomata al liceo Classico. Oggi, entrambi sulla cinquantina, la proteggono da una decina d’anni. Quando lei era in vena, Giorgio si esibiva in delle imitazioni. Era davvero bravo, in un’altra vita avrebbe potuto fare quello di mestiere. Sarebbe stato fantastico anche per lei, pensare di poter vivere un’altra vita, onesta e libera. Era quello che avrebbe voluto sua madre, lasciarsi alle spalle tutto e ricominciare, magari in…

“Australia!!! Dovremo andare lì!! Ripartire da zero, così che tu possa veramente andare a scuola, uscire con le amiche, avere una vita normale!!”. Lea si lasciò andare sul divanetto di una delle tante case che avevano cambiato da quando lei, nel 2002, aveva deciso di farsi mettere sotto protezione. Ma secondo Lea questa protezione non serviva a molto, perché aveva subìto qualche attacco e spesso era agitata perché aveva paura per lei e sua figlia. Sapere che non potevano incontrare e vedere nessuno, che non potevano nemmeno fare la spesa senza guardarsi le spalle. Tutto questo lei non lo voleva più. Non voleva che sua figlia vivesse una vita di fughe e nascondigli continui. Dal canto suo, Denise non sapeva cosa fare. Non voleva che sua madre soffrisse in quel modo, ma adesso era più consapevole del pericolo che correvano. “Basta, non possiamo andare avanti così. Bisogna trovare una soluzione, dobbiamo uscire da questo paese”. Si recarono allora a Milano, dopo aver rifiutato il programma di protezione. Lea aveva deciso di incontrare suo padre e mettere fine alla fuga e alla relazione una volta per tutte. Si incontrarono così una sera a Milano e suo padre invitò sua madre a cena. “Non preoccuparti, Denise, ci vedremo tra poco” le disse sua madre. Denise però aveva un brutto presentimento. Non sapeva che quella era l’ultima volta che avrebbe visto sua madre. Lei rimase a cenare con la zia e verso le 23 inviò un sms a Lea. C’era però un problema, che Lea non rispondeva, mentre il tempo passava. “Magari si starà godendo la serata, non essere infantile, lasciali in pace per una volta” le disse la zia. Ancora, verso mezzanotte, Denise non ricevette risposta. Allora chiamò. Nessuna risposta. Dov’era sua madre? Era successo qualcosa, Denise ne era certa. Di lì a una decina di minuti sentì il motore di una macchina, scese di sotto e vide suo padre, che la salutò. “Tutto bene la cena? Dov’è mamma?” gli chiese. “Mamma è andata un secondo a comprare le sigarette” rispose lui. A quell’ora era assai improbabile. A quel punto, Denise iniziò a urlare il suo nome ovunque. Niente da fare, la mamma non tornava e lei aveva paura. “Tranquilla, Denise, ora mamma torna. Puoi già salire in macchina, così ti accompagno in albergo”. A lei non rimase altro che salire sull’auto…

Che si fermò sul vialetto di fronte l’abitazione. I due agenti che le avevano tenuto compagnia a pranzo avevano il cambio. Ce n’erano già altri quattro fuori, davanti e sul retro. Lei, dopo averli salutati, li osservò allontanarsi. Rimasta di nuovo sola, mise i piatti nella lavastoviglie e accese la televisione. Solo telegiornali a quell’ora. La richiuse e tornò a immergersi nella lettura. Presto però si assopì e scivolò in una sorta di dormiveglia, perché non ce la faceva proprio ad addormentarsi.

Non aveva dormito quella notte. Come poteva, dal momento che stava andando a testimoniare contro suo padre e altre persone, tra le quali il suo stesso fidanzato, che erano state accusate dell’omicidio di sua madre? Come poteva riprendersi dal fatto che quel ragazzo, di cui si era fidata, era in realtà un aguzzino? Sua madre era stata uccisa, questo lo aveva capito da molto tempo. Aveva anche compreso chi era stato e nonostante sapesse i fatti era rimasta in silenzio, per paura che potessero uccidere anche lei. Fino a quando non aveva incontrato il pubblico ministero, i carabinieri, persone che le avevano dato una speranza per affermare che sua madre non era morta invano, che la giustizia in qualche modo bisognava pur farla trionfare. Ora, che si trovava nell’aula bunker dove si sarebbe tenuto il processo, realizzava appieno ciò che stava accadendo. Da quel momento in poi la sua vita sarebbe cambiata, ma del resto non era mai stata una vita normale. Ricordava i pochi momenti in cui lei e sua madre erano felici, quando l’aveva colta a fumare e ridendo l’aveva rimproverata. Al giudice disse tutto quello che sapeva e alla fine la condanna fu confermata. Non provava più nulla ormai, non gioiva per quella piccola vittoria appena ottenuta. Quanto gli era costata! L’unica cosa che poteva fare era riposare e lasciarsi finalmente alle spalle quell’esistenza. Adesso sua madre sarebbe stata orgogliosa? Lei voleva un futuro migliore per la figlia e aveva lottato tanto per questo. Ora, però, mentre osservava il giudice leggere la sentenza definitiva, la sua mente vagò in quei ricordi, così particolari e tornò all’abbraccio con sua madre, lasciandosi trasportare da quel calore che l’aveva sempre protetta, a modo suo.

Roberto Fortugno

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Periferia

Ticchettava con le dita sul sedile dello Shuttle 100 ascoltando nelle cuffiette uno dei soliti brani lamentosi e depressivi di Galeffi. La luna si riversava nel mare in una forma distorta, muovendosi ora di qua, ora di là, al ritmo della corrente, mentre tutto lo stretto era avvolto dalla lupatina. Le mille luci del centro, i viali addobbati a festa, il vociare irregolare, avevano lasciato spazio alla desolazione della periferia, dove le colline buie incombevano sulla strada che conduceva verso l’estremo lembo meridionale di Messina.

Due fidanzatini, forse nemmeno maggiorenni, chiamarono la fermata scendendo in corrispondenza di una palazzina gialla, lasciando sul bus solo lui, una ragazza dai capelli castani e un uomo di mezz’età, dai tratti orientali, che indossava un berretto rosso della stessa tonalità del giubbino e del pantalone.
Non seppe comprendere il motivo, ma quel tale gli mise paura, con i suoi occhi neri e vispi, il viso butterato, le dita macchiate di nero. Il suo torreggiare alle spalle di quella ragazzina amplificava il suo disagio.
Mancavano ancora diverse fermate alla sua destinazione, tuttavia una misteriosa forza interiore lo spinse a scendere non appena vide la ragazzina farlo, o meglio, non appena si accorse che il tizio col berretto rosso l’aveva seguita.
I tre percorsero un’ampia strada che costeggiava un campo di calcio in terra battuta, tenendosi ognuno ad una decina di metri dall’altro, finché la ragazzina non imboccò una viuzza laterale, scomparendo nel buio.

Fu a quel punto che il tale dai tratti orientali allungò il passo progressivamente, fino a mettersi a correre, lanciato all’inseguimento della ragazzina.
Non appena lo vide, non poté che fare lo stesso, anche se sapeva che si stava mettendo nei guai.
Ma cos’altro poteva fare? Ignorare quel timore che gli pesava sulla coscienza, magari scoprendo il giorno successivo che quella giovane era sparita o peggio? Non avrebbe potuto convivere con quel senso di colpa.
Imboccata la viuzza, una stretta lingua di pietre e sabbia che si incuneava nei vicoli di uno dei quartieri più poveri e malfamati della città, si rese conto che l’uomo con il berretto rosso era ormai ad un passo dalla ragazzina dai capelli castani.
A quel punto non poté più stare in disparte. Urlò alla ragazzina, la quale si voltò di scatto come anche il tizio orientale, che con fare rapido estrasse un coltellino dalla tasca sguainando la lama, che colpito dal bagliore lunare generò un caleidoscopio di riflessi.
Aveva mostrato coraggio, un coraggio fuori dal comune, ma adesso era lui ad essere inseguito. Ora l’uomo orientale puntava la sua lama verso di lui, mentre la ragazzina era come svanita nel nulla.
Corse a perdifiato verso la statale rischiando più e più volte di scivolare, ma riuscendo alla fine a seminare il malvivente.

Era ormai in salvo, quel suo stupido atto di eroismo aveva avuto successo. La ragazzina era salva, quel losco figuro non avrebbe avuto soddisfazione quella notte, tutto grazie a lui.
Ma c’era qualcosa di diverso rispetto al tragitto fatto all’andata. C’era un pulmino bianco parcheggiato in corrispondenza dello sbocco verso la strada principale.
Quando vi giunse qualcuno mise in moto, il pulmino emise due fasci di luce illuminando la notte, e d’un tratto il passaggio era stato bloccato. Due tizi scesero dal veicolo, mentre l’uomo col berretto rosso l’aveva ormai raggiunto, ma con sua somma sorpresa non era solo: c’era la ragazzina con lui, a cui l’uomo orientale allungò una banconota da cinque euro stropicciata e sporca di grasso.
I due che erano scesi dal pulmino lo aggredirono, gli legarono le mani dietro la schiena mentre quello col berretto rosso gli tappò la bocca impedendogli di chiedere aiuto.
Si dimenò, scalciò con forza, graffiò i suoi aguzzini, ma alla fine venne sopraffatto. Mentre le porte del pulmino gli si chiudevano di fronte, vide la ragazzina che sorrideva sadicamente valutando la fattura della banconota.

“Da quanto tempo vivi qui?” gli chiese il tizio col berretto rosso dopo aver chiuso le porte.
“Da sempre” rispose lui.
“E non hai imparato che qui sopravvive solo chi si fa gli affari suoi?”

Il suono di una campana lo fece ridestare, qualcuno aveva chiamato la fermata. Una ragazzina dai capelli castani era scesa dal bus allontanandosi a passo svelto, mentre un tizio col berretto rosso si stava preparando per farlo alla successiva.
Tolse le cuffie, spense il telefono e riprese fiato una, due, tre volte, finché il batticuore non si placò, finché non realizzò che era al sicuro, e che anche quella sera sarebbe tornato a casa, in quella periferia così placida eppure così piena di insidie.

Giuseppe Libro Muscarà

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

La città sull’acqua

Era la città sul mare,

non aveva un nome

se non quello della nave

 

Era di strade galleggianti fatta

si ballava, si beveva e si mangiava

ondeggiando sulla marea più alta

 

Era la città sull’acqua,

non esisteva nulla intorno

nemmeno un’isola di terra astratta

 

Era piccola in confronto a qualunque ammiraglia

tredici piani all’interno tra la prua e la poppa,

gonfiava le sue vele immaginarie all’aria

e danzava sull’oceano di tappa in tappa

 

Una sinfonia sciabordante di schiuma

lascia una scia che si vede dall’alto

mille e una notte trascorrei dondolando

su una città che di sale profuma

 

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Scavo limbico

Leggerti è stato difficile

Una mente violata come una capsula del tempo 

Sepolta in giardino.

Ma non ti diseppellirò più

perché il passato merita il silenzio 

anche se le chete grida dei tuoi ricordi 

Si fanno sentire.

                  

               Carla Mascianà

Il Natale

Candida neve,
frettolosi passanti
corrono per strada.
Le luci delle vetrine,
quasi soffuse,
illuminano poco
la vecchia via.
Al centro s’innalza
un albero abbellito
con colori festosi.
Profumo di vischio,
di biscotti caldi
e di aria natalizia.
Il vagito di un bimbo,
il sorriso di un anziano,
il canto delle genti.
La cometa sfugge
all’occhio nudo
di chi non sa amare.
Atmosfera tanto attesa,
il Natale è alle porte.
Nel mondo
c’è chi soffre,
c’è chi lotta
e chi non si arrende,
ma il Natale cerca
di far ritrovare
i cuori della gente.
E potrà certo arrivare
solo una volta l’anno,
ma la magia
di questa festa
vive nel ricordo
di chi sa gioire.

Alda Sgroi

*Immagine in evidenza: illustrazione di ©Marco Castiglia*

Dramma d’amore

Io se sbaglio,                                        sbaglio con la mia testa
come al solito mio
il cuore mi calpesta
senza ragione cado in un oblio
la mia paura diventa un meccanismo di difesa
perché grande è stata la sofferenza
di questo addio

Io Assillandoti sto sbagliando,
ma il mio cuore grida il tuo nome
come un grido assordante
si trasforma in un dolore indelebile
averti perso diventa un presente diverso
ed il futuro mi spaventa
e penso come faccio adesso?
questa vita è imprevedibile
non sono una persona perfetta come Dio
errare è umano
per questo ascolto il mio io

Eravamo due sconosciuti
Conosciuti per caso
In un compleanno di mezza estate
Ora siamo due sconosciuti
Che non si parlano
In mezzo alla gente

Ora come ora vorrei tanti cambiamenti,
ma quanto è difficile andare avanti,
dimenticare qualcuno che prima era il tuo posto nel Mondo
e ora solo uno sconosciuto a cui non importa nulla di te,
come se quei tre anni non fossero esistiti mai.
Come se esistessero solo gli errori e le scuse fossero cancellate.

Miriana Postiglione

*Immagine in evidenza: Illustrazione di Marco Castiglia

Scolopendra

Dicembre
e illuminavi
i viali di
stinti ricordi
ognuno
del secondo precedente

Ho provato
a incollarli
con il biadesivo
a inalare
il liquido di sviluppo
a cercarti
nei più cremisi angoli
della camera oscura
Volevo leggere le pellicole
come foglie di tè
per far finta di conoscerti
per nome

Il passato
è una catena arrugginita
ancorata
alla mia carotide
e il tuo
è un tiro alla fune
unilaterale

Chiara Tringali

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Il passaggio

Si alzò dal letto svogliato quella giornata. Quei giorni gli sembravano passare senza che neanche se ne accorgesse, tra rotture e amici lontani che non senti mai.
L’aroma del caffè lo aiutò un po’ a riattivarsi, quel poco che gli bastava per andare avanti. Portò la tazzina alle labbra. Lasciò andare un sospiro. Guardò fuori dalla finestra e vide uno stormo di uccelli danzare nel cielo in cerchio.
«Accese la tv mentre incominciava a vestirsi per la giornata. Il telegiornale oggi era monotematico.
Da due anni a questa parte siamo stati abituati a strani eventi che hanno coinvolto ogni persona al mondo. Sono dopo tutto questo tempo ancora un mistero per qualunque scienziato sul pianeta. Abbiamo continuato a vivere le nostre vite in maniera normale e le autorità ci hanno assicurato che le analisi di questi eventi ciclici. Ciononostante molti pensano che questi eventi abbiano un significato maggiore: le autorità religiose riuniscono i fedeli in preghiera, mentre sette stanno nascendo ovunque convinte che tutto questo sia un messaggio da chissà dove che annuncia la fine del mondo o l’inizio di uno nuovo».

Prese le chiavi e uscì di casa. Chiuse il vecchio portone dietro di sé spingendolo con forza. Non ricordava dove aveva lasciato la macchina la sera prima. Si strinse nel cappotto per evitare il freddo umido e si mise a camminare. Arrivato alla macchina aprì di corsa lo sportello e si ficcò dentro sfregandosi le mani.
Mise in moto e andò via. La strada era vuota ma si notava una certa agitazione e le volanti della polizia erano più presenti del solito. Qualcuno urlava per strada e persone vestite in maniera stravagante andavano in giro in gruppo.

La giornata fu abbastanza complicata. C’era forte nervosismo tra i suoi colleghi e si percepiva una forte aura di tensione. Tornò a casa più stanco del solito, passando per vie sempre più piene di paura e urla.
Il cielo era sempre più pieno di stormi che coprivano il cielo. Il sole stava cominciando a calare oltre l’orizzonte.
L’aria sembrava più pesante.

Andò in cucina per vedere con cosa cenare, ma aperto il frigo vuoto gli passò la voglia di cucinare e si buttò a letto. Da lì vedeva la finestra e il cielo rosso, con le nuvole sfumate dal tramonto e mosse via dal vento.
Si alzò per respirare un po’ d’aria fresca, e si mise ad osservare i tetti delle case: da alcuni partivano delle colonne di fumo, su altri si raggruppavano persone con lo sguardo rivolto in su.
Su una delle case vide una persona da sola, con lo sguardo rivolto all’orizzonte. Lo osservò per un po’, immobile nonostante il vento e il freddo.
Il sole toccò la linea del mare. Lo vide alzare il braccio destro verso l’alto e cambiare in viso: occhi spalancati, bocca aperta.

L’aria sembrò fermarsi immediatamente, tutto sembrava immobile. Poi di colpo venne il boato.
Un suono lancinante, sia armonia che caos. Il sole sembrava diventare sempre più rosso e muoversi verso l’alto, mentre quella melodia continuava a salire d’intensità.
Le nuvole cominciarono a muoversi verso il sole durante la sua risalita, e mentre questo raggiungeva lo zenith, quelle si andavano a mettere in cerchio tutto attorno.
Una grande sfera rossa osservava tutto l’alto, e le nuvole che lo circondavano in cerchio cominciarono ad allontanarsi. Ora le stelle brillavano in cielo con al centro un sole rosso che ricopriva quasi completamente la volta. La melodia di prima era adesso diventata il suono assordante della stella che bruciava.

Alcuni dei puntini in cielo sembrò che cominciassero a calare: delle piccole stelle incandescenti, di una pallida luce bianca, cominciarono a calare verso la superficie. Si arrestarono alte nel cielo ma adesso abbastanza vicine che il loro suono armonico raggiungeva la terra. Il suono si intensificò e la loro superficie cominciò a creparsi.
Da quelle sfere uscirono delle ali dello stesso colore abbagliante. I gusci caddero verso il suolo, senza mai arrivare però al suolo. Dei serpenti alati stavano adesso nei punti dove erano prima quelle stelle cadute. Stavano immobili, con le ali spiegate ma con il corpo in posizione fetale.

Restarono così per qualche secondo, poi cominciarono a riunirsi in cerchio esattamente al centro del gigantesco sole rosso. Il rumore che emettevano cambiò e divenne una vera melodia: un suono rivolto a qualcosa, struggente, che sovrastava qualsiasi altra cosa.

Le creature andarono contro la stella diventando impercettibili mentre si muovevano verso l’alto. Si vide solo una piccola e minuscola increspatura sul rosso quando sparirono del tutto.
Tornò il crepitio del sole, e questo sembrò avvicinarsi e ricoprire il mondo.
Tutto divenne bianco, mentre tutto veniva inghiottito.

Non seppe cosa successe tra il momento della visione e il momento in cui si rese conto di vedere di nuovo il mondo come era prima. Si rese solo conto che ad un certo punto il cielo era azzurro e che le rondini tornavano di nuovo verso sud. Si sentivano sirene in lontananza, scoppi.
Andò sul tetto. Il mare era rosso sangue, le onde si sbattevano contro la spiaggia.

Matteo Mangano

Immagine in evidenza: Illustrazione di Marco Castiglia