…la città di Messina subì un assedio nel settembre 1848?

Il mese di settembre è quel periodo dell’anno di transizione tra i fasti e la libertà della stagione estiva e la routinaria stagione autunnale/invernale. Non c’è metafora più appropriata per ripescare dal “grande libro della Storia” un evento che ha animato sogni e speranze dei nostri antenati messinesi: la rivoluzione del 1848, scoppiata nella città di Messina e nelle altre città dell’Isola dall’ardente desiderio da parte dei siciliani di conquistare l’indipendenza.

I sogni dei rivoluzionari iniziarono a spegnersi nel settembre 1848, a partire dalla riconquista della città dello Stretto da parte dell’esercito borbonico. Prima di addentrarci in questa leggendaria storia messinese è doveroso contestualizzare e narrare gli antefatti che condussero alle vicende del settembre di 172 anni fa.

Antefatto: il contesto storico e l’inizio della rivolta

Il nostro viaggio inizia nel 1847. La Sicilia faceva parte del Regno delle Due Sicilie, retto dalla dinastia reale dei Borboni.

Il malcontento nei confronti del sovrano Ferdinando II sfociò in alcuni tentativi di rivolta, prontamente soffocati, come quello del primo settembre a Messina. Si è dovuto aspettare il 12 gennaio 1848, giorno del compleanno del Re, per lo scoppio della storica insurrezione di Palermo, che avviò la rivoluzione siciliana, il primo dei moti rivoluzionari della cosiddetta primavera dei popoli europea.

Immagine raffigurante la rivolta di Palermo del 12 gennaio 1848 – Fonte: archiviostoricoeoliano.it

Pian piano tutte le città della Sicilia insorsero contro il dominio borbonico. A Messina, dopo l’insurrezione del 29 gennaio 1848, l’esercito napoletano fu costretto a rintanarsi nella cittadella fortificata, che non fu mai espugnata.

Una rivoluzione politica

La rivoluzione – per una ristretta élite – si fondava su aspirazioni politiche, quali la libertà e l’indipendenza della Sicilia dai Borboni, inquadrata in una federazione italiana di stati indipendenti. Per la maggior parte dei cittadini, però, si trattava di una rivolta di carattere sociale, volta ad ottenere migliori condizioni economiche.

L’élite liberale rivoluzionaria cercò di indirizzare la protesta sociale sui binari della rivoluzione politica: prima rifiutò la Costituzione promulgata dal Re e promessa dopo l’insurrezione di Napoli, poi, attraverso il Parlamento costituente dichiarò, il 13 aprile 1848, l’indipendenza della Sicilia e la decadenza del Re. I lavori del Parlamento portarono alla redazione dello Statuto Siciliano. Per dare attuazione alla nuova Costituzione fu offerta la corona della Sicilia a Ferdinando, Duca di Genova, figlio di Carlo Alberto di Savoia, che però rifiutò, vanificando, dunque, il lavoro dei costituenti.

Immagine che metaforicamente raffigura la cacciata dei Borboni dalla Sicilia – Fonte: archiviostoricoeoliano.it

Questo rifiuto, unito all’impegno dei Savoia nella guerra contro l’Austria fu uno dei principali motivi che intaccarono la solidità della rivoluzione.

Il primo attacco borbonico

A causa di questa situazione instabile, il 3 settembre 1848 iniziò la controffensiva dei Borboni, pronti a tutto pur di riconquistare la Sicilia. L’esercito napoletano, guidato dal tenente generale Carlo Filangeri, sbarcò a Messina e, coadiuvato da un fitto bombardamento, iniziò una sanguinosa battaglia, in cui furono coinvolti molti civili. L’esercito borbonico, più numeroso e organizzato, fu però respinto e costretto alla ritirata.

All’alba del giorno successivo il mare burrascoso impedì un nuovo sbarco delle truppe regie. Le giornate del 4 e del 5 settembre furono segnate dal violentissimo duello delle due artiglierie. Il cannoneggiamento della città fu una costante degli scontri e fu talmente intenso che valse al Re Ferdinando il celebre appellativo di Re Bomba.

Re Ferdinando II delle Due Sicilie, soprannominato il Re Bomba – Fonte: archiviostoricoeoliano.it

Nel frattempo, già dell’inizio della battaglia, i messinesi chiesero i rinforzi al Parlamento di Palermo. Furono inviati alcuni contingenti che però si sarebbero presto rivelati inadeguati.

Il secondo attacco

All’alba del 6, tornato il mare calmo, l’esercito borbonico sbarcò nel villaggio di Contesse, che capitolò dopo una estrema resistenza e una disperata lotta casa per casa. La difesa siciliana tentò di bloccare gli avversari sulla sinistra della fiumara di Bordonaro, attuando una disperata controffensiva, dagli esiti fallimentari. Le truppe regie conquistarono il villaggio di Gazzi in un’ora.

La giornata del 6 mostrò la disorganizzazione dei rivoluzionari, ancora in piedi grazie al supporto dei cittadini, pronti a battersi fino all’estremo. Il coraggio e l’ardore del popolo riaccese un lume di speranza quando, nella notte fallì miseramente l’attacco borbonico. Le truppe regie furono costrette a ritirarsi nella cittadella. I messinesi, però, non sfruttarono l’opportunità di dare il colpo fatale al nemico in fuga e con il morale a pezzi.

La città di Messina e la real cittadella (in basso al centro)  – Fonte: wikipedia.org

Lo scontro finale

Nonostante la sconfitta della notte, il comandante Filangeri credeva fermamente di avere la vittoria in pugno. Il 7 mattina partì l’offensiva decisiva.

Presto le truppe borboniche si trovarono di fronte a Porta Zaera e verso le tredici iniziavano l’ultima definitiva operazione contro l’estremo baluardo messinese costituito dal convento della Maddalena, che capitolò segnando la sconfitta dei messinesi.

Le truppe regie, nonostante la vittoria, non osarono subito occupare il centro della città, ritenuto pericoloso; per questo motivo il bombardamento durò altre sette ore.

Per concludere

La capitolazione della città dello Stretto segnò l’inizio della controffensiva dei Borboni, che riconquistarono Palermo il 14 aprile 1849, ponendo così fine alla rivoluzione siciliana.

Tra le numerose conseguenze, una che ci coinvolse più da vicino fu la nuova soppressione dell’Università di Messina, riaperta solo dieci anni prima dopo il lungo periodo di chiusura, conseguenza della rivolta antispagnola.

Una lapide commemorativa della rivolta di Messina del 1847-48 – Fonte: archiviostoricoeoliano.it

 

Mario Antonio Spiritosanto

 

Immagine in evidenza:

Raffigurazione della rivolta di Messina – Fonte: wikipedia.org

 

Bibliografia:

Finley M.I., Mack Smith D., Duggan C., Breve storia della Sicilia, Editori Laterza

http://www.arsbellica.it/pagine/battaglie_in_sintesi/Assedio%20di%20Messina.html

http://www.archiviostoricoeoliano.it/wiki/la-rivoluzione-del-1848

 

Per approfondire:

Ganci M., L’Italia antimoderata, Arnaldo Lombardi Editore

Pieri P., Storia militare del Risorgimento, Einaudi

http://www.ilportaledelsud.org/

http://www.messinacity.com/

 

 

Io, pacifista in trincea: viaggio nella mente di un soldato italoamericano

Nell’approcciarmi al libro Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra (Donzelli Editore, 2019) ho avuto le stesse perplessità che molti nutrono nei confronti della letteratura storiografica: spesso i lettori sono preoccupati di trovare una sorta di lezione, un’insieme di nozioni magari trascurate nel corso degli studi scolastici.

Niente di tutto ciò: l’autobiografia dell’italoamericano Vincenzo D’Aquila (Palermo 1892- New York 1975) si presenta come un vero e proprio viaggio nella mente – come vedremo – “instabile” di un volontario che, dalla lontana America, decide di arruolarsi nella speranza di servire la sua terra natia, per poi accorgersi che non sempre le idee corrispondono alla realtà dei fatti. Ed è proprio questo scontro che ci trasporta negli anni della Grande Guerra, grazie all’interesse del curatore messinese Claudio Staiti (dottore di ricerca in Scienze Storiche, Archeologiche e Filologiche presso l’UniMe) nel riportare alla luce Bodyguard Unseen. A True Autobiography (1931), tradotto ed arricchito di puntuali note ed appendice documentaria.

Copertina dell’autobiografia originale (1931)

Alla prefazione dello storico dell’emigrazione Emilio Franzina, che consiglio di leggere anche ai non addetti ai lavori, segue un’introduzione di Staiti, che in gergo potremmo definire un quasispoiler. Ma, in realtà, ci prepara ad affrontare un racconto crudo, convincente, ad ampi tratti misticheggiante, se vogliamo anche teatrale, che per troppo tempo è rimasto, con rare eccezioni, nell’oblio della letteratura del primo dopoguerra. Quegli anni hanno visto nascere capolavori come Niente di nuovo sul fronte occidentale (Remarque) e Addio alle armi (Hemingway) sicuramente ben presenti nella mente di D’Aquila-scrittore.

Ma la sua autobiografia ne sarà all’altezza?

L’unicità del racconto

Osserviamo progressivamente crollare i presupposti che portarono il protagonista ad offrirsi come volontario: dall’ideale di patriottismo, alla convinzione di un conflitto breve e vittorioso; del concetto stesso di guerra non restano altro che macerie nella mente di chi scrive e di chi legge. D’Aquila, come notiamo dal titolo originale dell’autobiografia, è convinto di essere protetto da una guardia del corpo invisibile, che gli permette di sfuggire dal fronte italo-austriaco senza sparare mai un colpo ad anima viva e senza essere – allo stesso tempo – perseguito come disertore.

La sua «chimerica promessa» di non uccidere, racchiude il manifesto di un uomo che da soldato diventa obiettore di coscienza e decide di «raccontare la verità». Se credere o meno alle bizzarre vicende e coincidenze della sua esperienza, nei punti in cui la ricostruzione storica – seppur puntuale – è impossibile, sta a noi: ma, di certo, il messaggio arriva chiaro alle coscienze dei lettori e lo stile personale rende avvincente la narrazione.

Ritratto di Vincenzo D’Aquila tratto dall’autobiografia originale

La sua “conversione” è intrisa di un linguaggio fortemente religioso, che si intreccia spesso con idee deliranti (per le quali fu internato in due ospedali psichiatrici): ma, del resto, si può dire che un profeta – come lui stesso si definisce – di pace fosse un vero matto? Non lo sono forse i generali ipocriti, di cui parla, che mandando i soldati a morire per un vuoto nazionalismo (e non dunque patriottismo) mentre sorseggiano comodamente uno sherry dall’alto della loro comoda posizione?

Questi sono i dubbi e le contraddizioni che si insinuano nella mente del lettore e che il protagonista risolve con continui riferimenti al cristianesimo, i quali supportano le sue azioni e comportamenti da predestinato. Ma il processo di rinascita non è né semplice né scontato. Né possiamo affermare che la vicenda non abbia degli aspetti di tipo psichiatrico: tuttavia fa riflettere come, anche dopo essere stato dichiarato ufficialmente sano, D’Aquila affermi di continuare ad avere le stesse “idee deliranti e assurde” che lo avevano reso “pericoloso per sé e per gli altri”. Forse, ironia della sorte, anche per questo non fu mai richiamato al fronte, dopo vari permessi: avrebbe potuto contagiare con le sue idee di pace gli altri commilitoni, minando la stabilità di una guerra che di stabile aveva molto poco; a tal punto che anche la notizia di una vittoria tedesca sarebbe stata accolta come una buona notizia (da lui e suoi compagni stessi), purché ponesse fine al conflitto.

Scena tratta dalla docufiction “14-Diaries of the Great War” ©, che descrive 14 storie di guerra: tra queste troviamo anche l’esperienza di Vincenzo D’Aquila.

Sicilia e guerra

Sebbene tornare nella sua città natale fosse uno dei motivi che lo spinsero ad arruolarsi, D’Aquila pone nettamente in contrapposizione la bellezza dei paesaggi rurali siciliani alla devastazione della guerra, la purezza contadina all’ipocrisia di chi la guerra l’ha voluta. Nel suo viaggio attraverso l’Italia passa anche dalla nostra città: trova una Messina ancora segnata dal terremoto del 1908, che «si stava ricostruendo senza fretta, o […] con massima cura» e che ricorda più per l’ottimo pranzo a base di pesce, rispetto alla sua bellezza cadente. Viene anche esaltato l’esemplare “modello di pace” palermitano, città nella quale da sempre convivono pacificamente musulmani, ebrei e cristiani. Troviamo l’intima connessione con la sicilianità anche nell’intento del curatore di radunare lettere, memorie e diari di siciliani durante la Grande Guerra (oggetto, questo, della sua tesi di dottorato) per descriverla da un punto di vista a noi caro, nonché, storiograficamente parlando, interessante.

Fonte: Reparto fotocinematografico dell’Esercito -Postazioni in trincea, (Museo Centrale del Risorgimento – Roma)

L’attualità del racconto

Mentre il falso mito della guerra nobile ed efficiente si sgretola, D’Aquila lascia il suo testamento spirituale: mette in guardia su alcuni piantagrane che da lì a poco – come puntualmente accadde – avrebbero potuto dare adito ad un nuovo conflitto (velato, ma non troppo, riferimento a Mussolini a detta dello stesso curatore) e risveglia la coscienza dei credenti, che purtroppo hanno avallato, così come gran parte delle gerarchie ecclesiastiche, le giustificazioni alla carneficina in corso.

Se nel libro leggiamo che “essere folle paga”, altrettanto non possiamo dire della scelta di pubblicare l’autobiografia, presto dimenticata dal pubblico: a Staiti il grande merito di cogliere l’opportunità, in occasione di un periodo di studio per il dottorato negli USA, di riproporre una testimonianza di un uomo e della sua discesa negli inferi di una folle guerra, che, oltre a spegnere tantissime vite, ha reso “folli” tanti soldati che forse – almeno alcuni – folli non erano.

Persino i pazzi speravano di leggere presto della fine della guerra, così da poter tornare ad essere normali

La guerra è rappresentata come il più grande fallimento della civiltà: D’Aquila vuole riportare l’umanità in un «mondo folle» , rigorosamente con mezzi pacifici. Dare nuova linfa vitale all’opera dell’italoamericano è il compito che si è proposto Staiti, assolto alla perfezione e con meticolosa precisione, contribuendo ad aggiungere un ulteriore tassello al concetto di pace. Non possiamo ignorare le troppe guerre che ancora oggi avvelenano la nostra terra, né i sempre più incalzanti “nuovi nazionalismi” che si affacciano all’orizzonte geopolitico odierno. E Io, pacifista in trincea risveglia in noi il desiderio di «camminare allo scoperto, come se il mondo fosse in pace».

Emanuele Chiara

Per approfondire:

Saggio “L’«odissea di guerra e pazzia» di Vincenzo D’Aquila. Un pacifista in trincea”, Claudio Staiti

Estratto della docufiction “14-Diaries of the Great War”, realizzato da Claudio Staiti

Sito web della docufiction 

Pagina Facebook del libro “Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra”

The hurt locker: il miglior (non) film di guerra

“The hurt locker: rompere gli schemi convenzionali del film di guerra”

Voto UvM: 5/5

 

Fermi lì!

Devo avvisarvi: se non avete preso sul serio il titolo dell’articolo vi sconsiglio anche solo di guardare il trailer del film in questione.

Questo non è un classico film di guerra, ricco d’azione e “God bless America”.

Non esalta figure di soldati strafighi e virili, eroi che risolvono tutti i problemi o salvatori del mondo.

Non è neanche un film storico, la seconda guerra mondiale non c’entra proprio nulla.

Quest’opera non segue le etichette tradizionali della sua categoria, potrebbe trattarsi di un caso unico nel suo genere.

Per cui, se non siete pronti ad affrontare le novità (tematiche, narrative e stilistiche), ma anzi preferite il solito film d’azione che ha il solito finale e la solita sceneggiatura, lasciate perdere immediatamente. Non fa al caso vostro.

Detto questo…iniziamo da qualche dato tecnico.

The hurt locker è un film del 2008 diretto da Kathryn Bigelow e scritto dal giornalista Mark Boal, risultato vincitore di 6 premi Oscar nel 2010 (miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior montaggio sonoro, miglior regista e miglior film).

Racconta le vicende di un gruppo di artificieri dell’esercito americano in Iraq, impegnato nella localizzazione e neutralizzazione delle mine. Protagonista indiscusso è il sergente Will James, interpretato da Jeremy Renner.

Ciò nonostante, in parallelo, vengono sviluppate le vicende esistenziali dei due suoi compagni, il sergente JT Sanborn e lo specialista Eldridge, per poi confluire in un’unica trama.

 

I tre sono accomunati dal desiderio -o dalla necessità- di sopravvivere in uno scenario pieno di ingiustificate atrocità, davanti alle quali si è soltanto impotenti.

Il montaggio delle scene e le inquadrature comunicano la drammaticità della situazione.

Vi capiterà di restare col cuore in gola e provare emozioni forti.

Tutto questo è reso possibile grazie ad una strana sensazione di sentirsi in pericolo anche nei momenti in cui questo non esiste.

Non a caso, il titolo del film si riferisce ad un’espressione militare per indicare “un luogo particolarmente rischioso i cui risvolti sono imprevedibili”.

 

Cosa puoi aspettarti dalla visione di questo film? Perchè dovresti guardarlo?

 

 

 

  • L’adrenalina che trasmette il protagonista

Il sergente James è un soldato un po’ folle. Imparerai a conoscerlo insieme ai suoi compagni di squadra, i quali si troveranno in pericolo diverse volte a causa delle scelte azzardate del collega.
Ricorda che stiamo parlando di artificieri…e dunque di disinnesco bombe.
Stiamo parlando di un un “folle”, non in senso psichiatrico, che disinnesca ordigni: trai le tue conclusioni.

Come già detto, il montaggio delle scene ti permetterà di provare adrenalina insieme al protagonista e ansia insieme ai suoi compagni. Ne uscirai scosso, garantito!

  • La drammaticità della guerra, quella vera

Inutile dire sempre le stesse cose: lo sanno tutti che la guerra la vediamo solo attraverso la televisione e non possiamo comprenderla davvero.

Qui vengono colti solo alcuni scorci del conflitto armato.

Sì pochi, ma buoni.

Potrai confrontarti con i sentimenti di chi, normalmente, è il buono, l’eroe.

Capirai che dietro gli eserciti ci sono uomini, e dietro di loro emozioni troppo difficili da spiegare a parole.

  • Il finale, fortemente controintuitivo, a cui non potrai più smettere di pensare

Tutti i motivi che ti ho elencato e i complimenti fatti a questo film non possono eguagliare il finale.

Resterai stupito e anche fortemente colpito nel profondo.

Dopo aver “vissuto” il film insieme ai protagonisti ti sembrerà di esserne colpito in prima persona.

Proverai a capire, a immedesimarti ma, a differenza di quanto accadrà lungo tutto il film, nell’ultima scena non ci riuscirai.

Sta’ attento, perchè potrebbe creare dipendenza.

Capirai dopo aver visto. Buona visione!

Trailer qui

Angela Cucinotta

Al rettorato un seminario sul tema delle disuguaglianze e migrazioni forzate

Giovedì 16 maggio 2019. Messina. Accademia dei Pericolanti – Rettorato. Ore 15:00. Ѐ stato presentato il rapporto 2018 “Il diritto di asilo”.

Al tavolo dei relatori la prof.ssa Anna Maria Anselmo, vicedirettrice COSPECS, che ha fornito le categorie utili per contestualizzare il fenomeno; si è poi proseguito con l’intervento della curatrice del rapporto, Mariacristina Molfetta, presidente del Coordinamento “Non solo Asilo”. Infine, l’evento si è concluso con la presentazione di una ricerca sul campo di Tiziana Tarsia, sociologa, e Giuliana Sanò, antropologa, e due interventi che hanno descritto iniziative di partecipazione attiva con i rifugiati, gli studenti e gli operatori sociali del settore.

Più di 160mila sono gli immigrati che dall’inizio del 2016 sono sbarcati sulle coste italiane tutti ufficialmente in cerca di protezione internazionale. La politica da tempo è divisa sulla loro accoglienza e sulla presenza dei requisiti per la concessione dello status di rifugiato. Un dibattito spesso sin troppo polemico.

Infatti negli ultimi anni l’attenzione pubblica e politica, italiana ed europea, è stata fagocitata dall’ossessione delle migrazioni. Il tema è diventato la bussola delle campagne elettorali. Il futuro dell’Europa sembra tragicamente legato alla sua capacità di gestire, o meglio, respingere le migrazioni. Questo dibattito cieco e di cortissimo respiro non permette di ragionare con maggiore consapevolezza su questioni fondamentali che segneranno veramente il nostro futuro. E in particolare, la triade cambiamento climatico, migrazioni e disuguaglianza, si presenta come una questione che avrebbe bisogno di una maggiore attenzione per discutere di politiche e comportamenti sociali ed individuali.

Il fenomeno migratorio è complesso e le cause sono interagenti. Gli studiosi sottolineano che le migrazioni sono un modo per adattarsi al cambiamento e che quindi non vanno combattute, ma regolate e rese sicure con piani ad hoc.

Nello scenario mondiale, i Paesi che accolgono il maggior numero di rifugiati si trovano in regioni in via di sviluppo. La Turchia si conferma il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati con 2,5 milioni di persone accolte, rispetto agli 1,6 milioni dello scorso anno; la Siria è il primo paese di origine con 4,9 milioni di rifugiati.

In questo quadro si chiede alle istituzioni e si propone alla società civile una riflessione sugli strumenti legali e sulle politiche internazionali e nazionali: affinché non siano discriminanti verso le persone in difficoltà o che hanno necessità di spostarsi, ma riconoscano il diritto ad una vita dignitosa di chi fugge dai sempre più frequenti disastri di varia natura; occorre creare nuovi regimi per regolare, regolamentare e rendere sicure e ordinate le migrazioni a livello internazionale e regionale, fondati sul riconoscimento dei diritti dei migranti.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Il Cavallo Rosso, l’opera epica di Eugenio Corti

Più grandi scrittori del ‘900. Voto Uvm: 5/5

 

 

 

 

 

Eugenio Corti nasce a Besana in Brianza nel 1921. Sin da giovane avverte il fascino della letteratura e coltiva la scrittura curando un diario personale, che solo di recente, a qualche anno dalla morte (4 Febbraio 2014) è stato dato alla stampa. In queste sue riflessioni giovanili si legge tutto l’impeto ed il desiderio di dedicare il proprio talento verso qualcosa di grande. Quella della scrittura cominciava ad intuirla come una chiamata, come il motivo del suo stare al mondo. E’ veramente impressionante come accanto all’entusiasmo tipico del giovane si affacci, già allora, la ferma consapevolezza di dover prima ben formarsi per poter maturare la propria opera. 

Le vicende umane del secolo scorso lo portarono a combattere nella seconda guerra mondiale, e quest’esperienza risulterà fondamentale per il suo essere scrittore, tant’è vero che la guerra divenne, una volta tornato, il suo motivo d’ispirazione. Questo avvalora ulteriormente il suo contributo letterario all’umanità: non si tratta di una scrittura reazionaria e/o ideologica- come del resto gli é stato tristemente “rimproverato” da chi mal (o per nulla) ha conosciuto l’uomo Eugenio Corti attraverso quanto ha scritto; é stato piuttosto il senso di responsabilità scaturito dalla consapevolezza di trovarsi coinvolto in una vicenda umana immane che l’ha portato a raccontarla, affinché la memoria dei fatti non si perdesse e le generazioni future potessero evitare di ripercorrere le stesse strade che segnarono in modo drammatico il secolo breve dominato dai totalitarismi, di fatto, «marxismo e nazismo (…) erano dello stesso sangue».

Il Cavallo Rosso, rappresenta l’opera maggiore ed anche la più conosciuta di Eugenio Corti. In poco più di 1000 pagine l’autore narra le vicende di diversi uomini e donne ben radicati nel comune humus della società contadina e cattolica del tempo che, improvvisamente, si trovano proiettati nei tragici eventi del Novecento. L’opera è divisa in tre parti di cui, nella prima, dalla descrizione iniziale della vita civile a Nomana– nome immaginario di un paese in Brianza (probabilmente la stessa  Besana) si passa alle vicende belliche ed in particolare, trova ampio spazio la narrazione della campagna in Russia. Qui il romanzo si fa fortemente autobiografico perché per la narrazione lo scrittore ha ampiamente attinto alla sua esperienza diretta della guerra, essendo stato uno tra i pochissimi italiani che sono riusciti a sopravvivere alla terribile ritirata di Russia dal Dicembre 1942 al Gennaio 1943. In queste pagine si legge la sofferenza di un popolo, quello russo, completamente ridotto alla miseria dall’utopia comunista, storie di intere famiglie straziate dalla fame dopo la collettivizzazione delle terre, il dolore di chi si è visto sparire di punto in bianco qualcuno di caro perché ingiustificatamente etichettato come “nemico politico”, gli agghiaccianti atti di cannibalismo descritti nel Gulag sovietico di Crinovia, come molti altri tragici eventi compiuti anche da parte delle truppe naziste spesso colpevolmente sottaciuti dalle nostre parti.

 

 

Allo stesso modo la narrazione documenta l’incredibile inadeguatezza di mezzi e l’imbarazzante ristrettezza di risorse con cui il fascismo spinse l’Italia in guerra. Per contro, Corti non manca di raccontare il valore degli uomini chiamati a combattere e, specie, gli atti di vero eroismo compiuti dal Corpo degli Alpini. 

Nelle altre parti del libro, mentre alcuni protagonisti fronteggiano la guerra, altri personaggi, soprattutto femminili, vivono in Italia le vicende di quegli anni. Viene descritto lo scontro politico tra la Democrazia Cristiana, luogo naturale di collocamento ideale e politico di alcuni dei protagonisti, ed il partito comunista. Com’é noto lo scontro si conclude il 18 Aprile 1948 con la vittoria della DC. Vittoria successivamente inficiata dal declino dei cattolici nella vita politica italiana, decadenza che paradossalmente si verifica mentre la DC si mantiene come partito politico dominante. Sappiamo anche che all’occupazione della cariche di potere é corrisposta un’azione politica incoerente con quei princípi che nel ’48, si pensava, venissero rappresentati. Quindi si arriva alla terza parte in cui il romanzo prosegue seguendo i protagonisti ed i loro discendenti fino alle soglie della data del referendum sul divorzio negli anni settanta.

L’autore rende la lettura della sua opera estremamente attiva in quanto accanto allo snodarsi della trama si ripropongono costantemente riflessioni sul senso della storia, del vivere e del morire, sulla fede e la presenza di Dio nelle vicende umane. Riflessioni che, certamente, investono l’occhio che legge ed in generale ciascuno, configurandosi come le domande fondamentali dell’uomo. Anche per questo “Il cavallo Rosso” è stato considerato alla stessa stregua del racconto epico. L’epica, infatti, è un’opera esemplare che narra le gesta -storiche o leggendarie- di un eroe o di un popolo, attraverso le quali si conserva la memoria e l’identità di una civiltà. Questo romanzo realizza l’epica delle persone comuni trascinate in vicende molto più grandi di loro.                               

Buona lettura!

 

 

Ivana Bringheli

 

 

The propaganda game: chi sono le vittime del gioco?

The propaganda game è un documentario del 2015 prodotto da Álvaro Longoria. Il tema, abbastanza scottante, è lo svolgimento della vita nella società nordocoreana; la sua economia, la sua gente e le sue istituzioni. Per comprendere però appieno il senso di questo approfondimento è necessario contestualizzare la nazione in questione: attualmente si tratta di uno stato totalitario socialista guidato dal leader Kim Jong-Un. Il paese si trova in continua tensione con l’occidente e in particolar modo con gli Stati Uniti e il motivo di questo difficile rapporto è dovuto al conflitto verificatosi tra il 1950 e il 1953, in piena Guerra fredda.

La Corea del Nord, comunista, aveva infatti provato ad invadere quella del Sud, alleato degli Stati Uniti. Questo giugno è però stato compiuto un grande passo in termini di relazioni internazionali. A dimostrarlo è infatti il summit, seguito da accordo, dei leader di entrambe le nazioni. Se confrontata con la realtà descritta nel documentario questa è un’importante svolta storica.

Nella pellicola viene dimostrato come la società nordcoreana costruisca se stessa in antitesi con quella americana-occidentale. Ma non si tratta solo di questo. Entrambi i “blocchi” giocano una strategica partita in cui la pedina migliore è costituita dall’immagine mediatica. Ed è nell’uso di questa che si scende in un altrettanto gioco d’astuzia e retorica.

Come viene delineato nel lavoro di Longoria, la Corea del Nord si presenta agli occhi del documentarista (e dell’occidente di conseguenza) in un determinato modo, con testimonianze e discorsi mirati ad affondare la strategia dell’altro. Dall’altro lato l’occidente e i suoi messaggi mediatici tendono a dipingere una società che conoscono poco (perchè chiusa ai rapporti con l’estero) secondo l’interpretazione che i “buoni” della storia si trovino da questa parte. Entrambe le fazioni si attaccano a vicenda su aspetti che potrebbero essere davvero negativi o sbagliati, ma senza aver verificato che le cose stiano realmente così. È evidente quindi che le fila di questa battaglia siano tirate da prospettive etnocentriste e nazionaliste. A guidarci nella scoperta di questa nazione sconosciuta troviamo l’unico straniero presente sul luogo: Alejandro Cao de Benós, spagnolo naturalizzato nordcoreano. Questi, insieme alle più disparate figure e personalità, risponderà a tutti i quesiti posti da Longoria argomentando e motivando ogni risposta al fine di proporre un’immagine diversa da quella che ogni giorno i nostri media ci danno. Ogni aspetto preso in considerazione è infatti analizzato fin nei minimi dettagli, seppur in ordine non lineare nel montaggio delle scene.

Il motivo per cui è facile considerare quest’opera come prondamente innovativa è per la sua totale imparzialità: la regia non esprime un’opinione personale e non suggerisce per chi dovremmo essere simpatizzanti, al contrario fa un’analisi oggettiva di tutti i meccanismi e gli interessi in gioco. Come prodotto mediatico fa proprio il contrario di ciò che normalmente i media fanno in situazioni del genere, anzi la sua natura denuncia implicitamente queste pratiche.

Il caso Corea del Nord-Usa è soltanto un esempio dell’ormai dilagante fenomeno della “post-verità”, atteggiamento in cui è considerata come parte più rilevante di una notizia quella che suscita emozioni, non i fatti oggettivi. Questo è solo un tassello della guerra postmoderna, caratterizzata da una frenetica caccia all’informazione e da attacchi mediatici; per quanto riguarda il caso qui analizzato potremmo dire che la guerra armata con gli Stati Uniti si è fermata al 38°parallelo della penisola coreana per continuare sulla via della nuova guerra mediatica.

Qual è dunque la soluzione per non diventare vittime di questo gioco?

Leggere la realtà con il coraggio di andare oltre le apparenze, anche se scomodo, è un buon inizio. Lo è anche informarsi consapevolmente, calandosi nei panni di entrambe le parti. Ma risolutiva è sicuramente la sempre attuale e mai banale massima socratica “conosci te stesso”, la quale ci insegna a prenderci cura di noi e a imparare “l’arte di non essere eccessivamente governati”.

                                                                                                                            Angela Cucinotta

Comincia il conflitto economico. La vendetta del made in USA e la Cina bullizzata

È guerra commerciale tra Cina e Usa. Un botta e risposta, attacco e contrattacco, iniziato proprio oggi, nelle prime ore del 6 luglio 2018. Una data che sembra solo l’inizio di un escalation al rialzo. Tra import ed export, i colossi industriali mondiali hanno alzato un muro di dazi ed il gioco delle parti avrebbe affidato a occidente la parte del cattivo, il “bullo”, e ad est la vittima bullizzata.

O meglio sarebbe stata la Cina stessa a volersi prendere questo ruolo, non scevra di colpe. In maniera del tutto insolita ma non priva di significato, Pechino ha infatti rinunciato a «sparare il primo colpo», non ha voluto far scattare i dazi alla sua mezzanotte, dove il fuso orario avrebbe dato alla Cina la possibilità di muoversi per prima; il governo ha ordinato di aspettare fino a mezzogiorno ora locale, la mezzanotte di Washington (le 6 del mattino in Europa). Una mossa che starebbe a dimostrare la riluttanza di Xi Jinping a impegnarsi in un conflitto commerciale.

Proprio al contrario di Donald Trump, che questa guerra sembra volerla con tutte le sue forze, convinto di poter piegare la Cina, senza però – siamo abituati ai paradossi del tycoon- compromettere «la grande relazione personale» che lega i due colossi dell’economia mondiale.

Washington, accusa la Cina di furto di know-how americano (ed europeo) in preparazione del suo piano Made in China 2025 per la supremazia tecnologica soprattutto per quanto riguarda l’hi-tech.

«La situazione dell’interscambio tra i nostri due Paesi non è più sostenibile. Gli Stati Uniti non possono più tollerare il furto di tecnologia e proprietà intellettuali da parte della Cina», ha detto Trump.

Dazi del 25% su 818 prodotti cinesi – meno dei 1300 annunciati – per un controvalore di 34 miliardi di dollari. Dai veicoli elettrici ai torni industriali impiegati dalle fabbriche negli Stati Uniti. Sono graziati gli smartphone, per non danneggiare la Apple, che conta sulle catene di montaggio cinesi per assemblare i suoi gadget.

Il contrattacco è arrivato, poi, dalla Cina che ha già preparato una lista di altri 700 prodotti per colpire proprio quella fetta di repubblicani che stanno con Donald: campo agricolo-alimentare, automobilistico e del petrolio grezzo,

Il presidente americano, non curante delle dichiarazioni della Repubblica Popolare, avverte che nel mirino ci sono già altri 300 miliardi di beni da colpire, l’intero export di beni e servizi da parte della Cina verso gli Stati Uniti.

Il Ministero del Commercio di Pechino ha definito l’atteggiamento americano un vero e proprio «Bullismo economico» che può mettere a rischio la catena industriale globalizzata e la ripresa mondiale.

Intanto, alla stampa cinese è stato ordinato di tenere bassi i toni: in una velina ministeriale si specifica che «Bisogna prepararsi a un conflitto prolungato»: non si dovranno rilanciare gli attacchi verbali di Trump, non far scadere il confronto nella volgarità su Twitter e bisognerà riprendere le dichiarazioni rassicuranti delle autorità di Pechino per sostenere la Borsa.

Un conflitto dell’interscambio che molti prospettano come lungo e “di trincea”. L’amministratore delegato della Dell, la nota multinazionale americana dei computer e sistemi informatici, ha già parlato di «MAD», Mutual assured destruction.

Sì, quella stessa distruzione assicurata di cui si parlava negli anni della Guerra Fredda.

Che a questo punto potremmo dire che non si sia mai conclusa.

Martina Galletta

… la città di Messina ha ricevuto ben tre medaglie d’oro al valore?

Ebbene sì: la città di Messina, troppo spesso criticata dai suoi stessi cittadini, ha dato in più occasioni prova di coraggio, e si è distinta per le capacità di resilienza e le azioni eroiche dei suoi abitanti.

Questo valore è stato più volte premiato, nel corso della Storia, in particolare attraverso l’assegnazione di ben tre medaglie d’oro.

C’è da dire che Messina è sempre stata una città fiera e fin dai tempi della rivolta antispagnola (1674-1678) i suoi cittadini hanno dato prova di essere, per così dire, delle belle teste calde: non stupisce infatti che la città peloritana abbia partecipato attivamente a tutti i moti insurrezionali siciliani dell’epoca risorgimentale.

Sicuramente l’avvenimento più drammatico risale al 1848, quando la città fu bombardata per ben 8 mesi, tanto da far guadagnare al re Ferdinando II di Borbone l’epiteto (senza dubbio poco simpatico) di “Re Bomba”. La risposta di Messina alla repressione fu parecchio vivace e molti personaggi locali si distinsero per il loro eroismo: padre Crimi, Rosa Donato o i più famosi Camiciotti sono solo alcuni degli esempi possibili.

Al 1898 risale quindi la Medaglia alle Città Benemerite del Risorgimento nazionale, che le fu assegnata per decreto regio per commemorarne il valore.

Le altre due medaglie al valor civile e al valor militare (rispettivamente del 1959 e 1978) sono legate entrambe ad un unico, tristissimo, evento:  i bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale.

Un po’ tutte le famiglie messinesi si tramandano di padre in figlio almeno un aneddoto riguardo i bombardamenti. C’è chi è stato ospitato dai parenti che abitavano nei paesi vicini; chi ricorda le gallerie sotterranee adibite a raggiungere il rifugio antiaereo più vicino; chi ricorda ancora con terrore il suono delle sirene nel cuore della notte.

Passeggiando per la città si possono ancora trovare le tracce di questi fatti luttuosi. Uno dei luoghi che porta ancora oggi le cicatrici più profonde e insanabili è il Duomo di Messina: colpito da uno spezzone incendiario nella notte del 13 Giugno 1943, arse fino alle 4 del mattino seguente. Andarono così perdute buona parte delle opere marmoree sopravvissute al Terremoto del 1908, fra cui ciò che restava dell’Apostolato del Montorsoli. Ancora oggi, l’altare di San Giovanni Battista sito nella navata destra (opera di Antonello Gagini) e i due portali laterali recano ancora i segni scuri delle fiamme.

Anche edifici più umili testimoniano ancora la furia distruttiva della guerra; diversi sono i palazzi d’epoca della città che portano i segni dei colpi di mitragliatrice. Ancora in piedi restano inoltre i maggiori rifugi antiaerei della città: il Cappellini, sul viale Regina Margherita; Santa Marta e Santa Maria; il rifugio ai Cappuccini…

Queste tre medaglie, con tutte le storie che ci sono dietro, rappresentano dunque, soprattutto ai giorni nostri in cui il futuro è incerto, un esempio di quanto, anche dopo aver perso tutto, sia possibile rialzarsi e ricominciare.

Renata Cuzzola

 

 

Macalda di Scaletta: una dama guerriera nella Messina del Medio Evo

Nella folta schiera di personaggi che la Storia ha cristallizzato nella leggenda, trasformandone la memoria in un tutt’uno fra il mito, la diceria, l’aneddoto, l’epopea e la realtà storiografica, non può non rientrare il nome di Macalda di Scaletta. 

La sua è una storia affascinante, una autentica parabola che portò questa donna bella e ambiziosa, ricca e potente ma di umili origini, alla corte di uno dei più grandi monarchi di Sicilia, Re Pietro il Grande d’Aragona. Una storia fatta di intrighi e di tradimenti, sullo sfondo della caotica Sicilia dell’epoca dei Vespri Siciliani. 

Dalla montagna di scritti su Macalda è difficile capire dove finisce la leggenda e inizia la realtà. Si sa che nacque a Scaletta, vicino Messina, intorno al 1240, e che ereditò dal padre, Giovanni, il castello di Scaletta, solida roccaforte strategica sulla strada fra Catania e Messina, che tutt’ora si erge maestoso a guardia di quel tratto della riviera jonica. A differenza di quel che si potrebbe pensare però, le origini di Macalda erano umilissime: il nonno era un militare di bassa estrazione sociale, tanto da essere soprannominato “Matteo Selvaggio”, che aveva acquisito il castello dietro concessione reale e che aveva avuto la fortuna di arricchirsi grazie al rinvenimento di un tesoro nascosto al suo interno. 

Una famiglia di inarrestabili arrampicatori sociali di cui Macalda è degna discendente: dopo aver sposato in prime nozze un nobile caduto in miseria, Guglielmo Amico, alla morte del primo marito dà già mostra del suo carattere spregiudicato e indipendente, finendo a girovagare per la Sicilia travestita da frate francescano, fra espedienti e avventure amorose. 

“Molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo, generosa nel donare e, a tempo e luogo, valorosa nelle armi al par d’un cavaliere”: è questo il ritratto che fa di lei un suo contemporaneo, lo storico catalano Bernat Desclot. Qualche anno dopo, questa giovane dama guerriera viene data in moglie ad Alajmo da Lentini, anziano uomo d’arme e politico navigato alla corte angioina; a questo altrettanto spregiudicato e ambizioso personaggio, che già anni prima non aveva esitato a tradire Manfredi di Svevia per ottenere il favore degli Angioini, si deve parte del suo successo.

Di lì a qualche anno, infatti, Alajmo non esita a tradire anche Carlo d’Angiò schierandosi a favore dei siciliani insorti nella rivolta dei Vespri. Quando re Carlo scende alla testa dei suoi uomini per sedare la rivolta, è Alajmo, nelle vesti di Capitano del Popolo di Messina, a frapporsi fra lui e il suolo siculo e sarà lui il grande regista della difesa cittadina durante l’assedio di Messina del 1282, punto di svolta della prima guerra del Vespro e tappa fondamentale della storia della città, mentre alla moglie, in sua assenza, viene affidato il governo di Catania.

All’arrivo nell’isola di Pietro d’Aragona, acclamato dagli insorti Re di Sicilia, Alajmo da Lentini viene premiato per la sua strenua resistenza col titolo di Gran Giustiziere del Regno: lui e la moglie diventano così fra i più alti dignitari della nuova corte di Sicilia. Ma a Macalda non basta: quando il re entra in trionfo a Randazzo Macalda non si fa sfuggire l’occasione per farsi notare e gli viene incontro a cavallo, in armatura, con in mano una mazza d’argento. Ben presto diventano evidenti le sue intenzioni di sedurre il Re per diventarne la favorita: intenzioni che non sfuggono alla moglie, la regina Costanza di Hohenstaufen, legittima erede di Federico II di Svevia, con cui presto inizia una rivalità spietata, una autentica escalation di provocazioni e continui sfoggi di potere e ricchezza.

Così, quando Alajmo da Lentini, sospettato dell’ennesimo tradimento, cade in disgrazia presso il nuovo Re, anche Macalda ne condivide la sventura. Mentre il marito, dopo essere stato convocato in Spagna, viene fatto giustiziare, Macalda finisce i suoi giorni in prigionia, nel castello messinese di Rocca Guelfonia. Anche da prigioniera, i suoi comportamenti restano assolutamente sopra le righe: si racconta che destasse stupore per la vivacità e l’immodestia dei suoi abiti, mentre trascorreva le giornate intrattenendosi a giocare a scacchi con un altro nobile prigioniero del castello, l’emiro Margam Ibn Sebir.

Sublimato nella leggenda, il personaggio di questa straordinaria siciliana anche a distanza di secoli non esaurisce il suo fascino; nel tempo, la si ritrova come protagonista di diverse leggende e racconti popolari siciliani. Nell’Ottocento Michele Amari, storiografo siciliano, la riscopre come personaggio storico e riferisce con gusto prettamente romantico e dovizia di particolari tutti i particolari più rocamboleschi delle sue avventure; qualche decennio dopo, Macalda diventa addirittura la protagonista di poemi e melodrammi.

Femminista ante litteram o ambiziosa femme fatale? Spregiudicata arrivista o valorosa amazzone guerriera? Eroina romantica o donna del suo tempo? Macalda di Scaletta è stata un po’ di tutto questo e un po’ niente. La sua storia si perde nel mito e ne trasforma il personaggio in un archetipo, enigmatico e complesso, di indomita donna siciliana. 

Gianpaolo Basile

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