Come si tratta la Covid-19: facciamo il punto

Le ultime buone nuove riguardano non solo l’arrivo imminente del vaccino Johnson&Johnson e l’efficacia del vaccino Pfizer-Biontech contro le varianti del coronavirus, ma ci sono novità anche sulla terapia della Covid-19. In questo ambito, l’inizio dell’utilizzo degli anticorpi monoclonali è un passo avanti per il nostro paese, ma un’ottima notizia viene da una ricerca pubblicata su Cell Death & Disease che mostra come l’inibizione della ligasi HECT-E3 possa essere una potenziale terapia per la Covid-19.
Analizziamo insieme questa scoperta, per poi fare un quadro sulle attuali terapie consigliate in Italia da linee guida.

Cosa sono le ligasi HECT-E3?

Le ligasi per definizione sono degli enzimi che si occupano di catalizzare delle reazioni di legame tra due molecole, spesso accompagnate dall’idrolisi di ATP. Diversi studi in passato hanno dimostrato una relazione tra diversi virus, fra cui Ebola, e le ligasi appartenenti alla famiglia HECT-E3. Queste sono sfruttate dai patogeni per stimolare il rilascio di particelle virali mature e favorirne l’endocitosi tramite ubiquitinazione.

Da ciò è nata l’idea di studiare se questa relazione fosse presente anche con SARS-CoV-2.

Inizialmente gli studiosi hanno analizzato l’espressione di nove proteine della famiglia HECT in 37 pazienti positivi al tampone molecolare con sintomi severi e 25 soggetti negativi. Si è dimostrata così l’over-espressione di questi enzimi nel primo gruppo rispetto al gruppo di controllo.

Da qui l’ipotesi che un inibitore di questi enzimi, I3C (indolo-3-carbinolo), potesse essere utilizzato come farmaco antivirale per il trattamento dei pazienti Covid-19. La conferma positiva è arrivata dagli studi in vitro: in cellule trattate con I3C dopo infezione da SARS-CoV-2 gli effetti citopatici del virus sono ridotti del 60% rispetto a quelle trattate in maniera standard.

Un altro possibile antivirale: la niclosamide

La niclosamide è un farmaco anti-elmintico utilizzato nelle infezioni parassitarie intestinali fin dagli anni ’70. Secondo uno studio congiunto condotto da ricercatori del King College di Londra e dell’Università di Trieste la niclosamide agirebbe come antivirale a più livelli. Inibirebbe l’autofagia, la replicazione virale stessa e l’endocitosi recettore-mediata del virus, come potete vedere dalla seguente immagine.

(a) Struttura di SARS-CoV-2
(b) Meccanismi d’azione plausibili della niclosamide Fonte: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32361588/#&gid=article-figures&pid=fig-1-uid-0

Così è partito uno studio in India per verificare la reale efficacia di questo farmaco nella terapia della Covid-19, ma non ci sono ancora risultati.

Terapia della Covid-19: cosa dice l’AIFA al momento?

La notizia di I3C, per quanto possa essere incoraggiante, va sicuramente presa con le pinze trattandosi di uno studio che ha dimostrato efficacia solo in vitro. Ed anche per la niclosamide ci sarà bisogno di più tempo.

Analizziamo quali sono le linee guida che l’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato per la cura della Covid-19, sia in ambito domiciliare che ospedaliero. Fermo restando che alla notizia di positività la prima cosa da fare è consultare il proprio medico di medicina generale e sarà lui a consigliare se intraprendere una terapia e quali farmaci usare.

Positivo asintomatico

Non fatevi plagiare dalle storie che raccontano i Vip in TV o sui social. Se siete risultati positivi al tampone, ma non avete alcun sintomo, allora non dovete assolutamente intraprendere nessun tipo di terapia.

Caso con sintomi lievi

In questa categoria rientrano pazienti con febbricola e sintomi leggeri attribuibili alla Covid-19 (tosse, congestione nasale, anosmia, mialgie, ecc.). Non devono però mostrare alcun segno di dispnea, disidratazione e alterazione dello stato di coscienza. La terapia è sintomatica: paracetamolo o FANS per la febbre e i dolori artro-muscolari, corretta idratazione ed alimentazione, senza interrompere mai eventuali terapie croniche. L’uso dei corticosteroidi, tanto agognato dagli “esperti” sui social, può essere considerato solo in caso di rapido peggioramento dei sintomi e/o dei valori di saturazione di ossigeno tali da richiedere ossigenoterapia (clicca qui per informazioni più approfondite sul cortisone).

Livelli di evidenza sui farmaci utilizzati a domicilio.
Verde: Farmaci con ruolo definito.
Giallo: utilizzabili in specifiche casistiche.
Rosso: non raccomandati.

Ambiente ospedaliero

I corticosteroidi (desametasone) sono qui il razionale su cui poggia la cura, trattandosi di pazienti che necessitano di ossigenoterapia, con o senza ventilazione meccanica. È possibile associare, sempre come standard di cura, le eparine a basso peso molecolare a dosaggio profilattico per gli eventi trombo-embolici. Questo è consigliato particolarmente nei pazienti allettati e senza controindicazioni. Un eventuale aumento del dosaggio è da considerare nei casi Covid-19 gravi, valutando però sempre il rapporto rischio-beneficio nel singolo paziente.

Il remdesevir è un noto farmaco antivirale appartenente alla classe degli analoghi nucleotidici. Questo agisce interferendo con la replicazione del genoma dei virus a RNA. Un’ancora di salvezza nell’epidemia di Ebola che ha colpito il continente africano negli anni scorsi. Viste le evidenze d’azione anche sul coronavirus, l’AIFA lo ha inserito come farmaco utilizzabile in casi selezionati. E’ indirizzato a soggetti in ossigenoterapia standard (a bassi flussi) con esordio dei sintomi da meno di 10 giorni.

Le terapie immunomodulati, fra queste il Tocilizumab, un anti interleuchina-6, sono state ampiamente provate l’anno scorso in emergenza. Oggi non sono raccomandate, ma possono essere adottate nell’ambito di studi clinici.

Livelli di evidenza sull’uso dei farmaci in ambiente nocosomiale.

Per altri contenuti interessanti sulla lotta al coronavirus continuate a seguirci. Nel frattempo continuiamo a rispettare le regole sul distanziamento e sull’utilizzo delle mascherine, come facciamo da un anno a questa parte. La fine del tunnel pandemico è sempre più vicina.

Antonio Mandolfo

Bibliografia:

https://www.nature.com/articles/s41419-021-03513-1
https://www.aifa.gov.it/aggiornamento-sui-farmaci-utilizzabili-per-il-trattamento-della-malattia-covid19

Gravity: un’avventura nello spazio, tra fisica e fantascienza

Il film di Cuarón ha stregato la critica, un po’ meno gli scienziati.

Non solo Nolan, anche Alfonso Cuarón ha provato a giocare con la fisica a Hollywood. Col suo “Gravity”, uscito nella sale cinematografiche nel 2013, ha raccontato un’avventura spaziale molto avvincente. Ma quanto accaduto nel film è fisicamente possibile? Scopriamolo insieme.

Lo specialista di missione Ryan Stone (Sandra Bullock) e il tenente Matt Kowalsky (George Clooney), dotato di jet pack, stanno riparando un pannello posto all’esterno dello shuttle, a circa 600 km sopra la Terra.

I nostri protagonisti si vedono qui muoversi con una facilità disarmante, nonostante in realtà la tuta degli astronauti sia piuttosto ingombrante e delicata. Chi la indossa, infatti, non riesce a muoversi così velocemente come è stato visto nel film. Inoltre, ha un campo visivo molto ristretto e sicuramente non rischierebbe in nessun modo di urtare contro una parte della struttura, in quanto potrebbe danneggiarla facilmente. Infine, l’uso del jet pack è previsto solo in casi di emergenza, poiché, nella realtà, gli astronauti sono collegati tramite un cavo alla struttura. Infatti, nemmeno gli strumenti vengono lasciati fluttuare senza essere stati prima connessi alla base.

Ad un certo punto, Houston li avverte che i russi hanno lanciato un missile su un loro satellite: ormai frantumato in mille pezzi, la sua distruzione ha generato una tempesta di detriti. Questi, a loro volta, hanno danneggiato altri satelliti, causando a loro volta altri detriti, tutti diretti verso lo shuttle di Stone e Kowalsky.

Uno scenario catastrofico, se non fosse che i cosiddetti Tracking and Data Relay Satellite System (TDRSS), ovvero i satelliti utilizzati per le comunicazioni, si trovano ad una altitudine di 36000 km, e quindi non possono mai essere danneggiati da detriti provenienti da orbite più basse. Ed anche se fosse stato possibile, la formazione di ammassi di detriti richiederebbe settimane, se non mesi o anni per accumularsi. Ultimo appunto: nel film, Houston dice che i detriti hanno raggiunto la velocità di 45000 km/h. È praticamente impossibile vederli arrivare! Ciò che accade è invece che gli ammassi di detriti vengono costantemente monitorati e, qualora dovessero sopraggiungere nei pressi delle stazioni spaziali, basterebbe modificare di poco la rotta per evitarli e continuare indisturbati col proprio lavoro.

A questo punto, i detriti raggiungono e distruggono lo shuttle e Stone si ritrova a fluttuare nello spazio. Fortunatamente però Kowalsky, grazie al jet pack, ben presto la raggiunge ed insieme si dirigono verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, a causa di una serie di urti dovuti all’arrivo brusco Kowalsky, per salvare Stone, scollega il cavo di sicurezza e si lascia andare nello spazio. Stone, a questo punto, sale sull’ISS riuscendo, dopo svariate peripezie, a raggiugere il veicolo spaziale Sojuz che le permette di raggiungere la stazione cinese Tiangong 1.

Pensare che una stazione spaziale sia perfettamente nell’orbita di un astronauta è molto fantasioso, ma diamolo per buono. Le stazioni, però, non sono dotate di portelli con maniglie esterne. Prima di aprire un portello (apertura che avviene verso l’interno, e non verso l’esterno), bisogna anzitutto depressurizzare l’airlock (una camera di equilibrio) e solo dopo entrare dentro la stazione. Infatti, la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno provocherebbe una forte spinta verso fuori che spazzerebbe praticamente via la nostra Sandra Bullock. Le navicelle Sojuz (che non sono pensate per fare passeggiate spaziali, come dice invece Kowalsky), inoltre, possono contenere al massimo tre persone. Visto che la ISS in genere è composta da 6 persone, se si trovasse abbandonata sarebbe di certo sprovvista dei Sojuz, che l’equipaggio avrebbe dovuto utilizzare per il ritorno sulla Terra.

Stone riesce infine ad usare la navetta di salvataggio cinese Shenzhou e a tornare, finalmente, sulla Terra. Qui, una volta atterrata, la vediamo prontamente alzarsi in piedi. Nella realtà non è così: gli astronauti devono affrontare un periodo di riabilitazione successivamente all’atterraggio per riacquisire il tono muscolare originale.

Oltre alle imprecisioni già elencate, ce ne sono diverse disseminate lungo tutto il film.

Per esempio, si vede più volte Stone mentre si toglie la tuta, apparendo in biancheria intima. Gli astronauti, in realtà, utilizzano biancheria più coprente e resistente, sotto una maglia speciale composta da decine di tubicini, contenenti acqua, che hanno la funzione di espellere all’esterno il calore corporeo. Di conseguenza, togliersi la tuta è un’operazione molto più lunga e delicata.

Anche l’utilizzo dell’estintore per spostarsi appare alquanto inverosimile: spostarsi con esso, nello spazio vuoto, senza calcolare prima con minuziosa attenzione e assoluta precisione posizionamento e orientamento, potrebbe comportare un effetto contrario a quanto voluto dalla nostra protagonista.

L’atteggiamento di Kowalsky, inoltre, appare piuttosto poco professionale e l’addestramento di sei mesi di Stone non sarebbe adeguato agli standard previsti per le missioni spaziali: Samantha Cristoforetti, la nostra amata astronauta tricolore, ha dovuto superare un addestramento di oltre due anni.

Potremmo continuare a lungo, descrivendo come le lacrime della Stone non dovrebbero staccarsi dal viso a causa della tensione superficiale o come i suoi capelli, in assenza di gravità, dovrebbero fluttuare sopra la sua testa.

Ma dopo molte critiche, è giusto spezzare anche qualche lancia in favore di Gravity, che presenta diversi aspetti veritieri. Infatti, le varie strutture (come la ISS e la navicella Sojuz) sono riprodotte fedelmente. La distruzione dei satelliti, con conseguente generazione di detriti, avviene anche nella realtà. Molto fedeli sono stati anche gli effetti della luce e la conservazione del momento angolare. Infine, la visuale della Terra dallo spazio è piuttosto verosimile.

Grazie ai suoi effetti speciali, Gravity è stato molto apprezzato dalla critica, vincendo numerosi premi e incassando svariati milioni di dollari al botteghino (a fronte di un budget di 100 milioni di dollari). Che dire, tutto sommato niente male!

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Premio Nobel per la Fisica 2020: dalle galassie ai buchi neri

Stoccolma, 6 ottobre: il premio Nobel per la Fisica 2020 conferma ancora le teorie di Einstein.

Quest’anno la Reale Accademia di Svezia premia gli scienziati Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez per i loro contributi al misterioso mondo dell’astrofisica. Tra galassie e buchi neri, curiosiamo un po’ più a fondo nei loro lavori.

Il contributo di Penrose

Pensatore libero, anticonvenzionale ed eclettico, Roger Penrose è un matematico e cosmologo inglese, vincitore del 50% del premio Nobel per la Fisica 2020 grazie ai suoi studi del 1965. Grazie a dei brillanti metodi matematici è riuscito a provare che la formazione dei buchi neri è una solida previsione della teoria della relatività generale. Egli ha dimostrato che, al centro dei buchi neri, la materia si addensa inesorabilmente a tal punto da divenire una singolarità puntiforme con densità infinita. Ha compreso anche che i buchi neri rotanti possono liberare enormi quantità di energia, sufficienti a spiegare l’emissione delle più potenti sorgenti di radiazione dell’universo, quali i quasar e i lampi di raggi gamma.

Prima fotografia di un buco nero.

Ma cos’è, in effetti, un buco nero?

Per provare a comprendere un concetto così complesso, esploriamo quanto teorizzato dal celebre Albert Einstein con la teoria della relatività generale del 1916. Essa si basa sul modello matematico dello spaziotempo elaborato da Minkowski, che ha introdotto la struttura quadridimensionale dell’universo: la posizione di ogni punto viene individuata non soltanto dalle tre coordinate dello spazio, ma anche dal tempo. In questo senso, ogni punto dello spaziotempo rappresenta un vero e proprio evento, verificatosi in un dato luogo ed in un preciso momento.

Abbandoniamo quindi le idee newtoniane di spazio e tempo assoluti e distinti e immaginiamo lo spaziotempo come una sorta di “tessuto universale”, in cui sono immersi tutti i corpi celesti esistenti. Questi, per definizione, possiedono una certa massa, proprietà fondamentale affinché si generi attrazione gravitazionale (e quindi un campo) sui corpi vicini. L’intuizione chiave di Einstein fu che un campo gravitazionale curvi lo spaziotempo. Più un corpo è massiccio, più è forte il suo campo gravitazionale, maggiori sono la deformazione che causa ed i condizionamenti che impone al moto dei corpi vicini.

Un buco nero è quindi una concentrazione di massa talmente imponente da far collassare lo spaziotempo su se stesso in un unico punto, chiamato singolarità. Attorno a questo si trova una porzione di spazio delimitata dal cosiddetto orizzonte degli eventi. Una volta oltrepassato tale confine, non c’è alcun modo né per la materia, né per le radiazioni, di sfuggire all’attrazione gravitazionale. Per scamparvi, infatti, dovrebbero raggiungere una velocità infinita.

Un po’ complicato? Per avere un’idea di ciò che accade, immaginiamo di lasciar scivolare una sfera su un telo elastico. Intuitivamente, esso cederà a delle deformazioni. Se adesso aggiungessimo un’altra sfera di massa minore, noteremmo che le curvature sarebbero trascurabili rispetto a quelle generate dal primo corpo. Il secondo, inoltre, essendo più leggero, tenderebbe a convergere sempre più velocemente verso il primo, il che è un po’ quello che accade ai corpi celesti che orbitano attorno al buco nero.

Deformazione dello spaziotempo a seconda della massa.

I lavori di Genzel e Ghez

I buchi neri sono fenomeni tra i più potenti e affascinanti dell’intero Universo. Viene da chiedersi dove sia il buco nero più vicino a noi, quanto sia esteso o quanto siamo distanti dal suo orizzonte degli eventi. I due scienziati Genzel e Ghez hanno risposto a queste domande.

Se dobbiamo a Penrose la dimostrazione teorica dell’esistenza dei buchi neri, è invece merito degli scienziati Genzel e Ghez il contributo sperimentale alla loro osservazione. Il tedesco Reinhard Genzel e la statunitense Andrea Ghez, vincitori del restante 50% del premio, hanno studiato per oltre due decadi il comportamento delle stelle situate in prossimità del centro della Via Lattea. In questa zona, nascosta alla vista da una densa nube di polveri interstellari, hanno visto come le stelle danzino attorno ad un buco nero supermassiccio, Sagittarius A*, un mostro di massa pari a 4 milioni di volte quella del Sole.

Ma c’è di più: la necessità di misure sempre più precise ha portato alla creazione di strumenti di tecnologia all’avanguardia, come il Very Large Telescope in Cile o l’interferometro infrarosso Gravity, grazie ai quali l’Europa detiene un ruolo da protagonista nel panorama della grande ricerca scientifica internazionale.

                             ESO’s Very Large Telescope (VLT) 

La scelta di assegnare il premio Nobel a questi lavori riconferma ancora oggi l’importanza e la validità della teoria della relatività di Einstein. Stuzzica l’immaginario collettivo sulla complessità ed il fascino del cosmo, fonte inesauribile di scoperte ed altrettanti interrogativi. Quindi naso all’insù ed occhi fissi alle stelle: i misteri del nostro Universo sono ancora tutti da scoprire.

Giulia Accetta

Giovanni Gallo